Numero VIII – marzo 2018
Sommario:
- Nota biobibliografica
- Trattenere l’indicibile, l’opera in versi di Nanni Cagnone. Nota di Bruno Brunini
- Incontro con Nanni Cagnone di Bruno Brunini
- Poesie di Nanni Cagnone
- Opere
Nanni Cagnone (Carcare, 10 aprile 1939) è un poeta e scrittore italiano. Dopo aver debuttato come poeta nel 1954, ha scritto libri di poesia, opere teatrali, romanzi, racconti, saggi e aforismi, da I giovani invalidi (1967) a The Oslo Lecture (2008), a Discorde (2015). Attualmente vive a Bomarzo. Negli anni Sessanta-Settanta fu redattore e direttore di collana alla Lerici, redattore di Marcatré e responsabile di redazione di Design Italia. In seguito, fondò e diresse la casa editrice Coliseum. Tra l’altro, è stato docente di estetica, ha collaborato a giornali e riviste, tra cui Chelsea Review, Incognita, Alea, Or, Il Giornale, Il Messaggero, Bonniers Litterära Magasin, FMR, Il Verri. Ha scritto sugli artisti e curato esposizioni, tenuto lectures e seminari in università italiane e straniere, condotto manifestazioni e seminari, come “Corpus scripsit” (Roma, 1975), “Pratica della lettura” (Milano, 1975-6) e “L’arto fantasma” (Milano, 1976-7). È stato invitato a convegni internazionali e a festival di poesia: ad esempio, “The Favorite Malice” (New York University, 1979), “Lyrikkertreffen” (Münster, 1991) e “Oslo Poesifestival” (Oslo, 2008). Fra le sue traduzioni, The Wreck of the Deutschland di Gerard Manley Hopkins, Heads of the Town Up to the Aether di Jack Spicer, Intolerante superficie di Gabriel Magaña Merlo, Ich di Paul Wühr, Agamemnon di Eschilo, AntiCamera di Rune Christiansen e Solitude di Paul Vangelisti.
TRATTENERE L’INDICIBILE, L’OPERA IN VERSI DI NANNI CAGNONE
Nota di Bruno Brunini
… La mancanza di vero paragone tra mondo e linguaggio, e l’incerta proporzione di presenza e assenza, incomprensione oblio, avviano a quell’opera estranea che è la poesia. Essa richiede un affetto passivo, un pensiero ricettivo. Poesia non è qualunque atto di raccogliere il mondo come un soccorritore del senso o un adulatore del linguaggio, ma l’esperienza d’una fedeltà che vuole trattenere l’indicibile. Poesia è agire al di sopra di ciò che si riesce a pensare. (1)
Nanni Cagnone
Nanni Cagnone, poeta, scrittore, traduttore e saggista, è una delle maggiori personalità della letteratura europea contemporanea.
“I suoi libri sono luoghi di bellezza e di meditazione, – scrive Antonio Devicienti (2) – … di fecondo silenzio e di parola nel suo senso antico, nobile e netta, mai banale, mai impoverita, mai sciatta… sono una meditazione sulla vita che corre in avanti e sa sempre avvincerci, emozionarci, talvolta ci fa ribellare contro la stupidità, contro il brutto e la violenza della storia”.
Poeta dell’indicibile e dell’impensabile, sempre oltre l’equilibrio delle cose perché “poesia è agire al di sopra di ciò che si riesce a pensare”, scrive Cagnone in Discorde.
“Nel momento in cui lo si vorrebbe definire, – spiega Francesca Diano (3) – subito ci si accorge che quella definizione, è limitante. Non lo contiene… Opera dopo opera, Cagnone ha polverizzato ogni schema, traboccando da ogni confine prevedibile imposto da correnti, generi letterari, mode, tendenze”.

Angelo Cagnone, Altrove, 2007
Tra il visibile e l’invisibile, il suo verso erratico, in cui affiora il senso di apertura a nuovi spazi, lo proietta oltre ogni sé, alla ricerca di un altrove, superando ogni rigido e rassicurante limite.
Ciò che si coglie, infatti, nella sua poesia, non è un pensiero condotto verso un punto di arrivo, ma la presenza di una riflessione costante, carica di vita, di domande, che incontra nel suo cammino l’indefinibile, qualcosa che rimane lì, alla sorgente del mondo, con la propria forza evocativa, e solo in questa distanza assume risonanza nella mente.
Con il suo linguaggio ricco di valori simbolici e la sua “discordia d’andatura” rispetto a ogni modo di vivere e di pensare alienato e omologante, Cagnone ha portato qualcosa di bello e di vivo dentro il nostro tempo.
“Spudoratamente / dignità intendevo, / parlando a nome / dei non asserviti pochi / da cui non si tolse / incanto, mentre gli altri / vollero eguagliarsi.” Così dice il poeta in Tornare altrove, uno dei suoi libri più recenti.
Considerando le notevoli raccolte della sua ampia bibliografia, con oltre una trentina di opere di poesia uscite in Italia e all’estero, si potrà rilevare che il suo interesse si rivolge in particolare alle forme lunghe in poesia, come ricorda Luca Minoli (4) : “Fin dall’inizio si è cimentato in poemi come Andatura, Vaticinio, poi inclusi nel volume complessivo Armi senza insegne, o come The Book of Giving Back, Il popolo delle cose, Tacere fra gli aberi e Ingenuitas, che rappresentano gli esempi più lampanti della bravura di questo poeta nell’affrontare i progetti lunghi e intricati”.
Senza trascurare nulla della realtà aspra e feroce dell’epoca attuale, la sua scrittura procede nell’indagare il presente attraverso le molteplici stratificazioni temporali.
“Sguardo che tiene / il presente nel passato,” si legge nella raccolta Anima del vuoto.
Intransigente nella sua necessità di precisione, grazie a una cultura policentrica e al suo classicismo moderno, che comprende tradizione e attualità, nella sua opera, la parola poetica ritrova una nitida consistenza.
“Cagnone sa di raccogliere una eredità classica e arcaica insieme – precisa Lucetta Frisa (5) -– la radice antichissima della poesia, che nasce da una forma di continua e indiretta interrogazione al mistero esistenziale, sottende occultamente tutta la sua scrittura”.
Classicismi metrici, la Grecia antica, con il suo canto e la sua sapienza, in cui ritrova un’eco di durata, ma anche versi liberi irregolari, fatti di ellissi, di omissioni, con modi di sincope jazzistica, che nascono da una vocazione musicale e da una profonda conoscenza della lingua, scandiscono il percorso del poeta verso l’essenziale.
Come scrive Antonio Devicienti (6): “Passo dopo passo, nella sua poesia esiste qualcosa che chiamerò grazia, che significa equilibrio tra contenuto e sua espressione, tra dominio perfetto della forma e naturalezza dello stile, tra ricerca del bello scrivere (non fine a se stesso, però) ed esperienza di vita… il suo scrivere in poesia non è vagheggiamento d’un impossibile idillio… un autore come Cagnone non tace il proprio giudizio sulla storia, come individuo denuncia i guasti del potere, come artista non si rifugia nei dorati giardini del bello, chiusi e sprangati al mondo esterno”.
“Più non s’invitano / i viventi, se infierire / prevale su soccorrere / e sconfitti ovunque / i nostri sentimenti. / Uccisi – disordinate schiere, / non ravvicinati / lembi di ferite. / E voi, che per avidità / o superstizione / fate buio”, scriverà Cagnone in Tornare altrove.
Diverse sono le possibili linee di lettura e i temi che s’intrecciano in tutta la sua opera.
Imprescindibile, come punto di partenza del suo cammino, c’è il senso della libertà, intesa come rifiuto di ogni dogma e come “giving back”, capacità di restituire la libertà delle cose.
“La libertà di Cagnone – spiega Enrico Cerasi (7) – è di corrispondere a qualcosa che lo trascende… ed è la risposta al mistero che ci chiama a uno sguardo libero dalla condizione in cui siamo posti… Dall’oltre in cui l’Altro ci chiama a porre lo sguardo, si può vedere la realtà nei suoi contorni più precisi”.
Un altro elemento centrale della sua opera è la dimensione del ritorno, verso la riscoperta di un’origine nascosta, che via via riemerge attraverso l’invenzione della parola. E in questo duplice sguardo all’indietro e in avanti, s’identifica un segreto legame con il tempo del sogno, territorio immenso di visioni e suggestioni, che consente al poeta di raggiungere le zone più profonde del desiderio e stabilire un rapporto con il reale, che non è fatto di spiegazioni logiche.
“È come se avendo sognato volessi sostenere il tuo sogno nella veglia”, si legge nel racconto Enter Balthazar.
Incidenza rilevante sull’invenzione della sua poesia, hanno poi, sia il tema della natura, da cui riemerge il mondo, la natura che gli si manifesta non circoscritta ma illimitata nelle mille sue forme, in cui l’io poetante si sente immerso, sia il tema dell’esilio, a cui il poeta tra riferimenti e intuizioni che riguardano anche il fare poesia, attribuisce fondamentale importanza per la definizione della propria identità.
“Lontano, ho motivo / di stare con voi, / come chi va rasente. / Diversamente, non potrei: / verso alberi / non sono che radura…”, si legge nel poema Il popolo delle cose.
L’esilio però – come spiega Cerasi (9) – “significa anche separazione, distanza dalle cose come dall’origine… taciturna è l’origine, e taciturne le cose che sempre ci guardano e non possiamo mai raggiungere.”
Nell’attraversamento di diversi nuclei fondamentali, che all’interno di un’ininterrotta ricerca, vasta e complessa, hanno avuto vari sviluppi e mutamenti di prospettiva, la sua poesia affilata di conoscenza ci conduce poi in una sorta di vuoto luminoso. Un vuoto che è parte costitutiva della vita, spazio tra ciò che sta al di qua e ciò che sta al di là della soglia, luogo dell’anima e della mente, che vive e si afferma come qualcosa di archetipico nonostante le avversità della storia.
“C’è chi preferisce il pieno e chi il vuoto – io tengo per me il cagionevole sentimento del vuoto”, scrive il poeta in Discorde.
Un vuoto, dunque, dove si espande una sensazione d’infinito e dove l’immaginazione si proietta. Un vuoto che al medesimo tempo comporta per il poeta, come scrive Francesca Diano (10) “il farsi concavo ricettivo, teso ad accogliere, aperto al mondo, vacante come una bocca che chieda cibo… perché non c’è concavità senza vuoto da cui non si può prescindere, per affermare la propria condizione d’incoativa ma mai raggiungibile perfettibilità… Ed è proprio quella concavità a fare di Cagnone l’outsider, l’irregolare, che è”.
“Invidiato vuoto / che non teme simmetrie, e / si ritrae senza colpire, sciame / di fissità, che non si mostra / virtuoso con roveti e fiori / e a noi perdona lo sguardo – / solo / anello troppo grande, / laccio lucente, escluso”, dirà Cagnone in Vuoto e compassione, e successivamente, in Enter Balthazar: “non ha forma il vuoto… in esso tutto fa difetto, anche i tradizionali fardelli”.
“Ma come non vedere che quest’accogliere il vuoto (e l’intera epifania del mondo) dentro di sé non sia anche esclusione di appartenenza? – ricorda Francesca Diano(11) – Tutta l’opera di Cagnone, in versi o in prosa, è percorsa dal turbine di non appartenere, di sottrarsi al dogmatismo d’ogni certezza.”
“Perché in fondo, – sottolinea Cerasi(12) – non si tratta che d’imparare a guardare, abbandonando la convinzione che le cose debbano dar prova della bontà dei nostri presupposti.”
Il vuoto per Cagnone, poi, è anche silenzio, che in Discorde viene definito “un dono”. “Il silenzio soggetto del dire”, spazio di attrazione cosmica e di corrispondenze, in cui si intuisce un nesso con i nodi essenziali della condizione umana e in cui il linguaggio non è ancora pervenuto a una forma.
“Un silenzio – come osserva Devicienti(13) – che non approda a una mistica della rinuncia, piuttosto esplicita l’idea che Cagnone ha della poesia, la quale può manifestarsi proprio in dialogo con il silenzio, quale argine fecondo per la parola poetica, quale suo inveramento e punto d’arrivo, ma non annullamento, come si potrebbe semplicisticamente ritenere… il silenzio esiste invece quale necessario polo del dire e viene espresso con un verbo (tacere) che implica un’azione e una scelta”.
“Ne l’aperto, ora, / nel folto, nel diramarsi / dell’inestricabile, / ovunque ebbe principio / un atto di luce. È il tempo / in cui si ascolta e divora, / non si tace, è il vocabolario / dell’estate, la solidarietà / del mondo conosciuto”, scrive il poeta in Tacere fra gli alberi.
Col suo procedere, l’andamento del verso può essere inteso anche in relazione a una forma particolare di silenzio, che si esprime nella punteggiatura, nella spazialità, nell’ellissi, nella concentrazione di significato della parola, in tutti questi attimi sospesi che inducono il lettore a sostare, a meditare.
Nanni Cagnone, in quest’epoca di globalizzazione e di social media, si pone come un punto di riferimento di valore, a chi pensa che la scrittura possa essere ancora un luogo d’incontro, di sensibilità, intelligenza, ostinazione a guardare oltre il presente, condividendo ciò che scrive Antonio Devicienti (14): “… Nel bailamme contemporaneo; nella generale corsa a pubblicare, a farsi vedere (più che leggere), Cagnone, dal suo eremo di Bomarzo, s’afferma presenza appartata e decisiva, schiva e cordiale, che dimostra che è possibile l’esercizio d’un vivere appartato, eppure ben nel centro della contemporaneità, dedito alla concentrazione e all’attenzione per ogni attimo dell’esistere”.
NOTE:
1) Nanni Cagnone, Après coup (1988)
2) Antonio Devicienti, Su due libri di Nanni Cagnone www.nannicagnone.eu/html/works29.htm
3) Francesca Diano, L’uomo della soglia
https://rebstein.files.wordpress.com
4) Luca Minola, Nota su Tacere fra gli alberi di Nanni Cagnone
https://ramodoroblog.wordpress.com
5) Lucetta Frisa, Su un testo di Nanni Cagnone
https://perigeion.wordpress.com
6) Antonio Devicienti, Su due libri di Nanni Cagnone
7) Enrico Cerasi, Acconsentire al mistero. La libertà di Nanni Cagnone www.nannicagnone.eu/pdf/ec.pdf
8) Francesca Diano, L’uomo della soglia
9) Enrico Cerasi, Nanni Cagnone, L’insonnia della superficie, in “Poesia” n. 268, febbraio 2012
10) Francesca Diano, L’uomo della soglia
11) Francesca Diano, L’uomo della soglia
12) Enrico Cerasi, Acconsentire al mistero
13) Antonio Devicienti, Disàmare in volo: su Tacere fra gli alberi di Nanni Cagnone
https://vialepsius.wordpress.com
14) Antonio Devicienti, Su due libri di Nanni Cagnone
INCONTRO CON NANNI CAGNONE
di Bruno Brunini
“Leggere le opere di Nanni Cagnone, opere in prosa o in poesia, è fare una significativa esperienza di libertà” scrive di lei Enrico Cerasi (1). “Non si tratta solo di libertà dai circoli accademici o letterari… essere liberi significa assentire a qualcosa che ci oltrepassa e ci mette in questione. L’opera di Cagnone è appunto un esempio di questo essere oltrepassati”. È difficile oggi per un poeta difendere il valore dell’arte e della libertà?
Questo è un mondo che visibilmente ci offende, e non ci si può difendere se non continuando a fare a modo nostro, tenendo sveglia la solitaria e spesso malvista possibilità che persino io credo di rappresentare.
“Non c’è alcuna profondità in poesia” lei scrive in Andatura. “C’è, tremenda, l’insonnia della superficie”. E in The Book of Giving Back: “Solo superficie, polvere soltanto, / ma inattesa polpa incantata / dell’autunno, se passo / qui dov’è il mio peso / come un segno in un libro, / una risposta, e facili nuvole / sopra le rondini, e sotto, / piú sotto, senza mai saperlo, / l’orlo d’erba del passato. / Niente, neppure una parola. / L’oro guarda l’argento”. Si potrebbe pensare che tra superficie e abisso esista un’antinomia che è impossibile conciliare? Ci può parlare di questi suoi versi?

Nanni Cagnone ed Emilio Villa
Quando rileggo certi miei versi, ho l’impressione di non capirli. Cosa tendevo a dire? Riguardo all’asserzione di Andatura, direi che non m’ha mai convinto l’idea della profondità: è sulla superficie che si trova tutto. Quanto ai versi successivi: forse, dicendo “qui dov’è il mio peso”, mi trovo a riunire presente e passato, incontro il punto in cui consisto, e questo accade sulla superficie, tra la polvere. Ma infine non c’è niente da dire, infatti l’oro non fa che guardare l’argento. Uno dei due potrebbe essere il presente, e l’altro il passato, oppure può trattarsi di due diverse condizioni personali.
Il ritorno credo sia uno dei temi centrali, che attraversa tutte le sue opere. Il ritorno che crea un tempo sospeso, mitico, dal momento che il viaggio in avanti nel futuro è anche un viaggio all’indietro verso un tempo delle origini, in cui l’esistenza individuale si delinea come destino. Il ritorno è dunque riavere il passato, è ritornare nella storia, per ritrovare l’essenziale e scoprire cosa ha spinto anticamente i propri passi nel lungo cammino verso l’irraggiungibile compimento dell’opera e di se stessi? Questo tema credo sia particolarmente evidente in un suo libro fondamentale, qual è Il popolo delle cose. Come si è sviluppata la dimensione del ritorno, dagli esordi di What’s Hecuba e Andatura fino ai suoi ultimi testi?
Domanda difficile: dovrebbe risponderle l’attività intuitiva che decide in buona parte la poesia. È vero, uno dei temi da cui sono assillato è quello del ritorno: ma per me si tratta di “tornare altrove”, figura già presente in Vaticinio e titolo del mio penultimo libro di poesia. L’idea del ritorno preme anche sul romanzo Comuni smarrimenti, intrecciandosi con quella della difficoltà d’appartenere e del nomadismo che ci allontana dalla vagheggiata origine, benché in certo modo si tratti sempre di far ritorno e di restituire quel che l’esistenza ci ha dato, come chiede il titolo The Book of Giving Back.

Bomarzo
Al tema del ritorno si lega quello del tempo, del sostare nel presente, sulla soglia dell’ignoto e sostenerne la visione. Il tempo è dunque un altro cardine essenziale della sua poesia. A tal proposito, in un frammento della sua opera Discorde, lei ripensa a certi film di Takeshi, sospesi nell’attesa di un evento che non si sa bene se accadrà. “Una delle virtù di Kitano Takeshi è il suo darsi tempo: stare fermo-zitto ad aspettare, quasi dovesse completarsi da sé l’inquadratura”. Analogamente al cinema di Takeshi, c’è un senso di attesa nei suoi versi, che entrano in modo particolare nell’animo di chi legge e inducono a sostare, chiedono una lettura paziente, non frettolosa, proiettando le scene in un tempo sospeso non più misurabile, in cui senso della durata e attimo si fondono, mentre la presenza simbolica si fa intensa ed emergono antichi archetipi. Ci può dire cosa ha comportato l’importanza del sostare sulla soglia per la sua scrittura poetica?
Quel che dice è vero. Riguardo al tempo, credo d’essere un incosciente: vado e vengo nel tempo, come tra visibile e invisibile, veglia e sonno, vivi e morti. Continuamente oscillo, e mi trovo sempre su una soglia che in certo modo è indecidibile: soglia di che? Non faccio che insistere, attendere e sfiorare. Insomma, resisto.
L’asintoto, in matematica, come è noto, è la tangente all’infinito della funzione, una retta che si avvicina indefinitamente alla funzione senza mai toccarla. E in Discorde lei afferma: “la più profonda esperienza della poesia è quella d’una lontananza costitutiva”. Questo concetto è un elemento fondante della sua poesia? Ne può parlare?
Non poter raggiungere, essere costretti a un’incolmata lontananza, credo sia la condizione preliminare d’ogni impresa dell’animo e della mente. Si può pensare a un’incapacità originaria, a un fallimento. Ma siamo il prodotto d’una continua imperfezione organica, siamo caotici e difettosi, e questo non è soltanto inevitabile: mi piace.
I suoi studi, le sue letture riguardano vari ambiti della conoscenza. Il suo impegno formale, l’elaborato livello di meditazione, antica pratica della mente, presente nella sua scrittura, ci ricorda che la poesia, anche parlando dell’oggi, ci ricongiunge alla saggezza degli antichi, alle radici della lingua e alla sua tradizione. La voce dei classici, infatti, come una musica, anima le sue parole, risuona potente, crea un ritmo nei versi, scandisce i suoi pensieri, i diversi stati d’animo, i momenti solenni della vita. Fin dall’inizio si è posto in dialogo con la cultura antica, con la tragedia del mondo classico greco, un esempio è la sua mirabile e originalissima traduzione della tragedia di Eschilo, Agamennone. Così grazie ai suoi versi e alle sue traduzioni, la cultura antica torna a pulsare nel presente come un tempo eternamente vivo. Cosa ha rappresentato la cultura classica per lei? Il mito antico può raccontare l’uomo moderno e riaffermare i valori della bellezza?
Il passato non è antiquato. Come dice Henry Corbin, solo gli eredi sono sapienti, “hommes de savoir et hommes de désir”. Chi, vittima della mentalità d’oltreoceano, dice “past is past”, s’inganna. Guai a ritenere inattuali certi modi, certe parole. Si deve tenere con sé tutto il tempo. Negli ultimi decenni, l’interesse dei poeti per il mito è divenuto enfatico e ingenuamente narrativo. Non si tratta di nutrirsi d’antichi racconti, né (volendo riabilitare un’epoca inaridita) di confidare in aure, in qualità arcane. Invece di rievocare, ci si nutra dell’interezza della tradizione, e strenuamente si cerchi in sé una fondamentale fedeltà, senza distinguere dal presente alcun passato.
La sua opera Tacere fra gli alberi, in cui prevale una meditazione su se stesso, sulla propria storia personale, si conclude con un verso che riafferma il senso del titolo: “Sì, tacere fra gli alberi”, e ci riporta in mente Wittgenstein che nel Tractatus dichiara: “Sopra ciò di cui non si può parlare, bisogna tacere”. Questa sua opera ci fa comprendere ulteriormente la sua idea che la poesia può manifestarsi in dialogo col silenzio. Dunque è “il silenzio, soggetto del dire”, come lei afferma in un altro suo libro, Discorde, ma in che modo? Qual è il cammino dalla voce al silenzio? E cosa custodisce il silenzio?
Quanto all’asserzione di Wittgenstein, la mia replica è la seguente: sí, ma ciò di cui non si può parlare va incluso in ogni modo nel discorso. Quanto al “tacere fra gli alberi”, questa per me è la pace: percepire, sapersi cosa tra le cose, accettare e provare gratitudine. D’altronde, il linguaggio è un’invenzione assai tardiva, un lunghissimo silenzio ci precede. Ad ogni modo, il silenzio è la culla d’ogni parola.
Tornare altrove è il titolo di un suo recente libro di poesia, che ci riporta al tema dell’oltrepassamento e ci spinge a pensare che forse la sua poesia, in questo come negli altri libri, seguendo l’intreccio di prossimità ed ulteriorità, è una poesia che si pone in uno spazio vuoto e infinito, tra il già e il non ancora. Guardare altrove, volgere altrove lo sguardo, esprime allora negazione, utopia, il desiderio di andare oltre la tristezza del finito? Verso l’attimo in cui l’infinito si rivela?
Non riesco a immaginare l’infinito. Da questo pianeta, posso pensare soltanto alla finitudine, di cui è parte essenziale il sentimento del vuoto. Ma sono contento della finitudine, appagato dai suoi limiti. L’idea di “tornare altrove” complica ogni ritorno: non si tratta di un’archeologia personale, di rintracciare l’origine, di ricordare. Si torna a sé stessi, ossia si esercita una forma di fedeltà, muovendo nell’alterità, facendo esperienza d’un esilio, divagando. Divagare è la naturalezza del conoscere.
“Sale e diventa / scende e diventa, / si oscura. / È questa la forza / che volle lentamente / non agire? / Lingua del presente, / forma che manca / dopo tutte le forme. / Potessi almeno lasciarvi / un colore imperfetto”. La sua raccolta Doveri dell’esilio, da cui sono tratti questi versi, chiama in causa il tema dell’esilio. Che significato ha nella sua poesia? L’esilio è una distanza necessaria perché possa farsi vicinanza? È un presupposto nella prospettiva di una poetica del vuoto? E quali sono i doveri dell’esilio?
Il sentimento dell’esilio è, almeno per me, qualcosa di congenito: non ha a che fare con gli avvenimenti dell’esistenza, ma è richiesto dall’ardua condizione d’ogni essere umano, dalla sua estraneità, o disarmonia, rispetto al mondo. Implica dei doveri, che saranno diversi per ognuno di noi. Nel mio caso, potrei dire libertà, dignità, coraggio: insomma, grandezza d’animo. Chissà se ci sono riuscito.
Accanto alla sua opera di poeta vi è quella di narratore, saggista, traduttore, queste diverse attività interagiscono tra loro?

maschera di Agamennone
Ci sono attitudini e umori che la mia poesia troverebbe scomodi. E ho un dovere dialogico che devo pur soddisfare, in modo a volte gentile e a volte rissoso. La mia indole ha non poche pretese: m’ha chiesto di ricorrere al romanzo, al racconto, al saggio, al teatro, alla poesia, all’aforisma, alla traduzione. Mi sono adattato.
A partire dal 1986 fino agli anni Novanta lei è stato artefice di un innovativo progetto con la casa editrice Coliseum, inventando una ricca collezione d’importante valore estetico. Ogni volume era curato con estremo rigore, dalla scelta degli autori alla grafica, alla qualità delle traduzioni. Può parlarci di questa esperienza?
Una casa editrice piccola e di poche risorse, il cui catalogo poteva sembrare eclettico, ma era in verità comparatistico. Un’intonazione – spero – individuale, un atteggiamento singolare. Si commemorano così taluni amori: è stato faticosamente bello finché è durato.
Ci sono episodi, opere, incontri, punti di svolta cruciali nel suo percorso poetico che ricorda in modo particolare?
No. Sono stato precoce e tardivo, appassionato sempre e troppo esigente. E ci sono state alcune felici amicizie che hanno influito non sul piano letterario ma su quello affettivo.
Il suo ultimo libro in prosa: Dites-moi, Monsieur Bovary è qualcosa che allude a una nuova epoca?
Non credo: si tratta di un’opera ibrida, una ricapitolazione che potrei dire amorosa, in cui si mescolano opinioni, giudizi, sogni, ricordi, aforismi e frammenti poetici. L’ha definita bene Antonio Gnoli: “un poema e memoriale”. In certo modo, integra Discorde.
L’alto valore d’impegno etico e culturale la contraddistingue. Le sue opere che ne sono testimonianza, richiedono una lettura paziente e accurata e per lo più vengono pubblicate da piccoli editori che lavorano sulla qualità, in antitesi con il panorama editoriale dominante. Come vede la poesia italiana oggi, nell’epoca della rete e dei social media?
Se dicessi seriamente quel che penso, offenderei più d’uno. Mi limito a dire che lo standard dell’editoria e della poesia odierna (non solo italiana) è così modesto da sconcertarmi.
Si dice di lei che è un poeta appartato. Questa definizione riporta in mente Marina Cvetaeva che nelle lettere del 1926 scriveva: “mi sento come se non vivessi più in nessun luogo…”. La sua figura in penombra, l’essere in un luogo a parte, fuori delle mode, in uno spazio di nessuno, è una sua scelta personale o è qualcosa che le è stato imposto dallo stato delle cose in cui ci troviamo?
Un poeta ha bisogno di solitudine, condizione che non dev’essere imposta dalle circostanze. Anch’io, tra gli anni Sessanta e Ottanta, ho frequentato parecchia gente e fatto qualcosa in pubblico (Corpus scripsit, Pratica della lettura, L’arto fantasma…), ho collaborato a giornali e fondato la Coliseum. Ma, essendo essenzialmente anacronistico, ero soltanto di passaggio. In seguito, invece d’adattarmi e rassegnarmi, mi sono appartato per sempre. Tuttavia, la solitudine non può farsi isolamento: dev’essere accogliente, generosa. Se questa è l’ultima domanda-risposta, desidero ringraziarla per la qualità delle sue domande.
Note:
1)Enrico Cerasi, Acconsentire al mistero. La libertà di Nanni Cagnone www.nannicagnone.eu/pdf/ec.pdf
POESIE DI NANNI CAGNONE
da Andatura (1979)
perché è chiaro, non viene seguìto
nel più ampio destino nel presente,
tazza preparata da un’arsura
posandosi qui dove rovina.
perché chiaro, oppresso denso,
riunito nella forma di lambire
chiede difficilmente
il molto reciso.
esita se non attende,
quello che involve.
da Vaticinio (1984)
libro quinto della limitazione
Pólis, luogo difeso
dal suo limite, recinto
senza fessura senza vano.
Sua sostanza non è
in una radice, ma nella strana
adunanza che non tiene
nell’unico smalto di una pace.
Pólis, stanca statura,
luogo della terra
disfatto, calcolato.
Altro nome ha la porta,
dove s’impiglia nel suo sangue
il nemico: nome di lontananza,
come straniero che metta piede
nel vestibolo, ostile
e illeso cadendo tra una gente
che non deve ospitarlo
nella lingua, poiché
l’essere sicuro che dormiva
sul fondo ora si è smarrito.
Negli intricati depositi
dove idoli fermentano
e cose su cose
si scambiano il sudore,
certe notti prevale il vento.
Supera l’orlo delle mura
questo vento, sosia
degli Erranti, di coloro
che senza fondamenta
nel vuoto del passato
dispongono una stuoia
e non hanno denaro per il tempio
né tempio, ma riconoscenti
luoghi non preparati.
Gli Erranti, gente incompleta
che semina fuochi e teme
solo i tumulti della terra.
Si dice che raccolgano
la forza della polvere
e vadano all’assalto
senza esordio senza canti,
cipria di deserto
su inchiostri immaturi
e spaccio d’insonnia
nelle ultime stanze nei corpi
ingranditi e caduchi
ornati d’indigenza.
da Armi senza insegne (1988)
Estremo non sarà un luogo,
che sempre può piegare su sé stesso
il suo ritorno – estremo è che non giunge
a compimento, porta ovunque con sé,
tiene collare senza domatura,
mi stringe adesso come
te orribile
invidiata temuta somiglianza.
da Anima del vuoto, (1993)
Anima del vuoto,
cagionevole:
bastasse allontanarsi
per vedere
intere figure,
non avrei queste rovine
nello sguardo, non
questo battito oscuro.
Spinte di qua di là
senza capriccio,
saranno nubi
bambine sempre
quelle che saluto
dopo che dissolte.
da Avvento (1995)
In che consista la notte,
non importa.
E quale artefice
imponga di apparire
quando notte agita o preme,
non sappiamo.
Poi si conosce
certamente cieco
lo sguardo di mezzogiorno,
ché altro è lo specchio
altra la contesa,
e sono gli anneriti
incandescenti,
e partire è più saldo
d’esser giunti.
E’ questo,
il crepuscolo
a cui si è impreparati.
da The Book of Giving Back (1998)
Desiderio imparato rispondendo
vorrei fosse la mia arte –
spingere in mezzo la parola, dove
manca l’aiuto il fuoco è spento,
l’istante non conosce la sua storia
e le spezie messe in serbo
non sanno più di niente.
da Il popolo delle cose (1999)
T’incantano le strade
che si girano, che sciupano
la prospettiva, le rime
stravaganti e l’asfalto
che non segue la luna,
il funicolo torto che spinge
verso carezze barocche.
Nessuno accanto a nessuno.
da Doveri dell’esilio (2002)
Qualunque arte,
se non si fa smemorata
e senza mezzi, attenta solo
a seguire il movimento,
vale meno della sua materia.
Anche un albero,
fotografato
con troppa cura,
si allontana.
da Index Vacuus (2004)
Investitura di stanchezza
-un altro privilegio
da non spartire – mentre
si chiude alla costa
una marea, e tu
-sgomento esempio –
pensi agli invisibili
(oh il lamentato spreco,
il lacero saluto),
pensi con sforzo
all’utilità del vuoto.
Tenere ultima con sé
quest’amicizia
per onde senza mare.
da Le cose innegabili (2010)
Spazio finito, orlo di tamburo.
Ti conviene incarnarti finché puoi,
racimolare luce anche di notte,
far cammino nella bruma
e non lasciarlo mai solo
l’istante, se no punge ogni cosa.
In fondo, in fondo al mareggiare
dei tramonti, al maturare insicuro
bruciore senza trama delle pene,
il solenne episodio delle foglie –
stormire e basta. Stormire.
da Penombra della lingua (2012)
Vieni scorrere accanto,
mia diletta, e non essere mai
de la stirpe dei ricordi.
Conosci gli sposi della rugiada
e, nella silenziosa chimica
dei boschi, coloro che
concedono il mondo.
Non nominare la scure.
da Perduta comodità del mondo (2013)
Un altro giorno,
nell’astrazione degli anni
e furibondo incedere
del cosmo, le stesse ore di ieri
il medesimo vociare,
tra una Venezia e una Las Vegas
siamo vivi, banalmente vivi,
elemosina di stelle sulla via
calesse che naufraga nel fango
uomo che implora
o incoraggia il pugnale – vivi
nell’imprudenza del vivere,
inquieti anche negli orti
di regina Lattuga.
Sarà oblio
il cigolar del carro verso i fiumi
ove convincere le trote
a eguagliar una danza –
io vi parlo volentieri,
care trote, piedi sul fondo
e corsive calligrafie
da questa canna.
Sì, c’è bisogno in Lunigiana
di lusinghe come in California,
e il mondo non si stanchi mai
dei suoi miracoli.
da Tacere fra gli alberi (2014)
La devozione
con cui coltivi il vuoto
è inerme come il sonno.
Di quanti versi hai bisogno
per non muovere un passo?
Prodiga tua malinconia
e sgretolata arguzia
del pensare, sillabe contuse
indolenziti accenti,
mentre dilegua una volpe
immiserisce il prato.
Non si passa senza pena
dal tuo mondo al suo –
più dell’amicizia
ha gravità la Storia.
da Tornare altrove (2016)
Su questa lunatica
collina di mare,
noncuranza
o barbarie altrui
non può stancare
l’amicizia dei boschi,
né asservire
le indocili province
d’erba di nuvole.
L’acqua – non è spreco –
getta semi nella sabbia.
Potrei narrare
-nome nessuno-
o tacere, avendo cura
non superar la soglia
oltre la quale
si va solo su trampoli.
OPERE
- A, in altre parole B, saggio sulla pittura (Genova 1970)
- What’s Hecuba to Him or He to Hecuba?, poesie, saggi e aforismi (New York 1975)
- Andatura, poesia (Milano 1979)
- L’arto fantasma, saggi (ed.) (Venezia 1979)
- Vaticinio, poesia (Napoli 1984)
- Notturno sopra il giorno, poesia (Milano 1985)
- Armi senza insegne, poesia (Milano 1988)
- G.M. Hopkins: Il naufragio del Deutschland (ed.) (Milano 1988)
- Comuni smarrimenti, romanzo (Milano 1990)
- Anima del vuoto, poesia (Bari 1993)
- Avvento, poesia (Bari 1995)
- The Book of Giving Back, poesia (New York 1998)
- Il popolo delle cose, poesia (Milano 1999)
- Gangart, poesi (Oslo 1999, 2004)
- Enter Balthâzar, racconto (New York 2000)
- Pacific Time, romanzo (Milano 2001)
- Doveri dell’esilio, poesia (Pavia 2002)
- Questo posto va bene per guardare il tramonto, commedia (Pavia 2002)
- L’oro guarda l’argento, opere scelte (Verona 2003)
- Index Vacuus, poesia (New York 2004)
- Index Vacuus, poesi (Oslo 2005)
- Ça mérite un détour, prose (Milano 2007)
- Penombra, racconto (Roma 2009)
- Le cose innegabili / Undeniable Things, poesia (Modena 2010)
- Aeschylus: Agamemnon (ed.) (Modena 2010)
- Penombra della lingua, poesia (Roma 2012)
- Perduta comodità del mondo, poesia (Roma 2013)
- Tacere fra gli alberi, poesia (Coup d’Idée, Torino 2014)
- Discorde, saggi (La Finestra Editrice, Lavis 2015) ISBN 978-88-95925-61-5
- Penumbra de la lengua, poesía (Ediciones Sin Nombre, Mexico City 2015)
- Il naufragio del Deutschland (ed.) (La Finestra Editrice, Lavis 2015) ISBN 978-88-95925-63-9
- Aeschylus: Agamemnon (ed.) (La Finestra Editrice (Lavis 2015) ISBN 978-88-95925-64-6
- Tornare altrove, poesia (La Finestra Editrice Lavis 2016) ISBN 978-88-95925-68-4
- Corre alla sua sorte, prose (Messina 2016)
- Cammina mare, racconti (La Finestra Editrice, Lavis 2016)
- Dites-moi, Monsieur Bovary, prose (Coup d’Idée, Torino 2017)
- Ingenuitas, poesia (La Finestra Editrice, Lavis 2017)