
Di Roberto Roversi, delle sue opere, delle sue innumerevoli attività è stato scritto molto e molto ancora si dirà, ma un aspetto importante del suo percorso, su cui vorrei soffermarmi, è il rapporto che ha avuto con i giovani autori, essendone io direttamente interessato. Roversi infatti è stato uno dei pochi grandi poeti a dedicare tempo ai giovani con generosità, passione e rigore. Ricordo quando nel 1979 l’ho incontrato per la prima volta alla libreria Palmaverde. Mi ricevette nel suo studio, con tutti quei libri intorno che hanno accompagnato le varie fasi della sua vita e i tanti manoscritti di autori in attesa di essere letti. Gli portai alcuni miei testi di poesia da leggere, sapevo che aveva accolto molti altri giovani autori e della sua grande disponibilità. Gli parlai della mia tesi di laurea su Adorno e la Scuola di Francoforte. Mi ascoltava con attenzione, mi chiese come mi trovavo a Bologna e poi raccontò di sé studente, della sua tesi su Nietzsche, dei suoi autori classici preferiti, Rilke, Hölderlin e del suo interesse per la letteratura tedesca. In omaggio alla mia regione di provenienza, mi parlò della sua ammirazione per gli autori classici napoletani, per la storia e cultura partenopea. Ricordo bene la precisione nelle argomentazioni, la sua voce che interrogava, consigliava, il suo modo di parlare autorevole ma informale, mai altisonante. Rimasi colpito da quella figura di stampo antico, dalla sua barba bianca che metteva in rilievo il suo tono erudito. Riservato, gentile e anticonformista, un classico moderno, che sapeva come costruire un legame con la contemporaneità. Continuammo a parlare di scrittori e poeti che aveva conosciuto e di tante altre cose, a tratti con ironia. Quell’incontro stabilì un contatto umano e mi trasmise una grande fiducia. Fu l’inizio di un’esaltante stagione culturale vissuta con lui e gli altri amici della Palmaverde.
Come è noto alla fine degli anni ’60, Roversi, in polemica con la mercificazione dell’industria culturale, smise di pubblicare con i maggiori editori e cominciò a proporre canali di comunicazione autogestiti, per la diffusione delle sue opere e della poesia. Tale atteggiamento, che segnò una svolta importante nella sua attività letteraria, gli consentì nel tempo di stabilire un rapporto fecondo con il mondo giovanile. In quegli anni di forti contrasti sociali, ma anche ricchi di fermenti creativi, di aspirazioni di rinnovamento, Roversi, con quello che definirei il suo sismografo interiore, riuscì a capire in anticipo i mutamenti e a sintonizzarsi con ciò che si muoveva nella società e nella lingua che parliamo.
“Cerchiamo di iniziare un lavoro meno approssimativo, anzi rigoroso, sulla poesia scritta e parlata che i giovani, in questi anni, continuano a distribuire” aveva scritto Roversi nell’introduzione alla “Tartana degli influssi”, una delle prime storiche riviste dedicata ai giovani poeti, da lui ideata e curata insieme a Maurizio Maldini nel 1980. Libri, dattiloscritti, un’enorme quantità di materiale poetico arrivava alla libreria Palmaverde gestita insieme a sua moglie Elena Marcone. Già sede di prestigiose riviste come “Officina”, fondata da Roversi, Pasolini ed altri noti intellettuali, la libreria, che per tanti anni è stata un centro propulsore della cultura bolognese e nazionale, al di fuori dell’ufficialità, continuò a essere per molto tempo un luogo di aggregazione per le nuove generazioni di poeti, artisti, musicisti, lettori. Allora non c’era Internet, ma Roversi, pur rimanendo ai margini del sistema culturale, riuscì a costituire una rete enorme di contatti, mettendo in relazione persone diverse, progetti che nascevano intorno a lui e a cui collaborava. Autori da ogni parte d’Italia giungevano alla Palmaverde per incontrarlo. In questo clima, all’inizio degli anni ’80, si costituì la cooperativa culturale “Dispacci”, nata per diffondere la poesia degli esordienti, da lui ideata e coordinata, alla quale ho partecipato come socio fondatore, insieme ad altri allora giovani autori, tra cui Maurizio Maldini, Gabriele Milli, Mino Petazzini, Nicola Muschitiello, Salvatore Jemma, Carla Castelli, Marisa Zoni. “Dispacci” non era un gruppo autoreferenziale, di adepti chiusi in una setta. Fermi restando alcuni tratti comuni, il gruppo, teso sempre ad ampliarsi, non smise di riconoscere i diversi modi e percorsi della poesia, creando scambi molteplici, relazioni umane, offrendo a tutti la possibilità di esprimersi in versi, lasciando così le porte aperte a chiunque avesse idee da proporre. Chi aderiva alla cooperativa non veniva per censurare gli altri e imporre gerarchie. L’impellenza di scrivere era dettata dal bisogno di un confronto e di sperimentare e partecipare alla vita della città col linguaggio della poesia. Quest’ampiezza di orizzonti e di democrazia letteraria, difficilmente riscontrabile nell’attuale panorama letterario, coincise con lo spirito roversiano che non ambiva a nessun potere e intendeva il fare poesia come momento di riflessione critica sugli eventi della realtà, di ricerca comune e di superamento delle barriere sociali e culturali.

“Dispacci” operò dal 1982 al 1987 e si occupò di molte attività che sono state un fattore di crescita per tanti autori: laboratori di scrittura nelle scuole e nel carcere minorile di Bologna, cicli di incontri, riviste, fogli volanti di poesia, di grande formato, diffusi gratuitamente in varie occasioni, come espressione di una comunicazione autogestita, diversa da quella proposta dal sistema culturale dominante. Eventi unici in quel tempo furono le letture, organizzate dalla cooperativa, in biblioteche, teatri, piazze, bar, che inaugurarono una nuova vitalità per la poesia, che riacquistava così una dimensione pubblica, mai vista prima. Una tensione etica e civile aveva da sempre caratterizzato l’attività letteraria di Roversi, che amava Bologna, ma non aveva mai rinunciato ad un approccio critico e intransigente sulle contraddizioni e le urgenze della storia quotidiana che “non possiamo esimerci di attraversare”, come aveva scritto in una delle nostre riviste. Perciò oltre al foglio denominato “Dispacci”, furono concepite una lunga serie di trasmissioni radiofoniche, in cui, gli eventi della politica e della cronaca cittadina, venivano commentati in forma di poesia da chi aderiva al gruppo e da altri autori che via via si aggiungevano. Ogni argomento veniva trattato con un ritmo veloce di elaborazione, del resto il nome “Dispacci” aveva come radice semantica la fretta, se dépêcher, come bisogno di rimanere al passo con i tempi. Collegando l’immediatezza con l’analisi critica e la costanza nella scrittura, con questa esperienza si condivise un diverso modo di intendere la poesia. Lo sguardo si allargava al mondo, la lingua si confrontava con un più ampio orizzonte di tematiche.
In una ricerca volta a scardinare certi meccanismi rigidi ed escludenti di classificazione e aperta alla registrazione del nuovo, particolare importanza ebbe poi la costituzione di un archivio nazionale di poesia giovane, che insieme al lavoro delle riviste, avrebbe permesso uno studio più preciso e documentato della produzione poetica giovanile di quegli anni. Il Comune di Bologna, in quel periodo particolarmente attento alla poesia, assegnò una sede all’archivio, di cui mi fu affidata la cura, presso il centro civico di via Pietralata, al Pratello. L’afflusso di lettori e autori che venivano a chiedere ascolto e a proporre i loro scritti era costante. Nel leggere e catalogare quel materiale magmatico, confuso, si poteva cogliere la crescita di un pensiero non solo letterario, fatto di voci cariche di sogni, solitudini, aspirazioni, provenienti da un mondo sotterraneo mai indagato, variegato e pulsante, in costante evoluzione. Situazioni e lessico inediti per la versificazione italiana. Col susseguirsi delle varie iniziative, intorno a Roversi si potevano incontrare interlocutori diversi, personaggi di grande valore culturale e umano. Erano molteplici le occasioni in tal senso. Roversi, che non interveniva mai in pubblico, spesso mi affidava suoi testi da leggere nei reading o in trasmissioni radiofoniche. Ricordo, ad esempio, che in un importante convegno nazionale sulle esperienze della poesia nella scuola, tenutosi a La Spezia, mi chiese di leggere la sua relazione, di cui riporto un frammento: “…sembra che tutti i grandi spazi per muoversi si stiano chiudendo e il mondo si riduce così a una stanza, una piccola stanza….I giovani mi pare che si muovano in una realtà già da esodo, con paure collettive, mentre tentano di sottrarsi alle cose che premono, a questi cieli ormai bassi che tendono a mortificare sul momento ogni fantasia, ogni speranza…essi percepiscono e sopportano questa mancanza di generosità dentro le cose.” Roversi sapeva mostrare le emergenze, oggi ancora attuali, e i giovani con le loro problematiche rimanevano al centro del suo pensiero. In quell’importante convegno ebbi la fortuna di conoscere un altro relatore, Franco Fortini, una delle maggiori personalità della letteratura del novecento italiano, nonché sodale di Roversi con “Officina”. Per me, allora aspirante scrittore, fu un momento di grande emozione dialogare con Fortini come con altri importanti scrittori incontrati alla Palmaverde.

Ci vorrebbero molte pagine per ricordare quel tempo ormai lontano e irripetibile, trascorso alla libreria Palmaverde, le amicizie che nascevano, il clima che si respirava. In quel luogo galvanizzante, così diverso dal mondo circostante, eppure così al centro della quotidianità, si poteva riscoprire il valore del dialogo, dell’ascolto, che sono il fondamento della parola poetica. Tra scaffali ricolmi di libri, le voci s’incrociavano e si confondevano in discussioni, ora serie, ora scherzose, a volte animate da polemiche e contrasti aspri ma illuminanti, in cui s’imparava a comprendere l’esistenza e acquisire una coscienza nuova dei problemi. Seduti o in piedi, tra i banconi ingombri di fascicoli, mentre Roversi impacchettava i libri da spedire, era sempre un’esperienza unica ricevere comunque la sua attenzione, sentire in lui la passione scrutatrice per ogni testo e per le sue più invisibili incrinature, apprendere qualcosa di essenziale dal suo spirito battagliero. Roversi era una persona libera e pur preferendo una poesia che si confrontasse con la realtà sociale e con la storia, non ha mai imposto ai giovani poeti intorno a lui alcun canone espressivo. Sapeva riconoscere in un autore la parte migliore, non per creare degli epigoni o una scuola, ma per spingere ciascuno a ragionare sul mondo e a seguire una propria strada. La sua presenza a Bologna e quella di sua moglie Elena, gli incontri alla libreria Palmaverde, in un periodo di cambiamento collettivo, sono stati per molti tappe fondamentali, in quel luogo eternamente vivo per chi lo ha frequentato.