In tempi di riscoperta e valorizzazione del patrimonio cinematografico, e di una sempre maggiore attenzione e recupero del cinema classico, in cui rientrano opere quali Scarpette Rosse rese possibili dalla luce e dal colore di Jack Cardiff, non si può non allargare lo sguardo a capolavori di altri direttori della fotografia realizzati col Technicolor come, ad esempio, Il mago di Oz di Victor Fleming. Il film, grazie al nuovo restauro realizzato da Warner Bros, è stato recentemente distribuito sugli schermi italiani dalla Cineteca di Bologna, nell’ambito del progetto Il Cinema Ritrovato. Al cinema, ed è possibile rivederlo come era stato concepito in origine nel 1939. Riportiamo un testo che contribuisce a contestualizzare l’opera, nella sua articolata gestazione e peculiarità e a sottolineare l’importanza del colore nel cinema in quegli anni.

Via col Vento di Victor Fleming
THE WIZARD OF OZ
di Andrea Meneghelli
(USA 1938, 1939, Il mago di Oz, bianco e nero/colore, 101m); regia: Victor Fleming; produzione: Mervyn LeRoy per MGM; soggetto: dal romanzo The Wonderful Wizard of Oz di L. Frank Baum; sceneggiatura: Noel Langley, Florence Ryerson, Edgar Allan Woolf; fotografia: Harold Rosson; montaggio: Blanche Sewell; scenografia: Cedric Gibbons; costumi: Adrian; musica: Harold Arlen, E.Y. Harburg.
Dalla soglia della casa sopravvissuta alla violenza del tornado, il mondo di Oz si squaderna in un tripudio di verdi praticelli, placide ninfee, un ponticello lezioso, dolci montagne sul fondo. La macchina da presa accompagna lo stupore con un solenne movimento. Dorothy ha senz’altro ragione: “Toto, ho l’impressione che non siamo più nel Kansas”. L’abbiamo visto, il Kansas, nella prima inquadratura di The Wizard of Oz: una strada sterrata, circondata da un niente in bianco e nero, che conduce verso un orizzonte immobile e piattissimo. Anche L. Frank Baum, in poche righe, ci fa intendere che lì tutto è grigio, pure le gote della zia. Non ci è dato sapere se Dorothy sia l’unico personaggio variopinto, di certo è la sola a poter ambire a un paesaggio diverso. A questo riguardo, è ancor più chiaro il film: Somewhere over the Rainbow suona come l’invocazione a un mondo che irradi garrulo Technicolor. A Oz i colori sono troppo chiassosi, lussureggianti, acidi per sembrarci veri, così come i matte paintings che fingono immensi paesaggi in lontananza. Ci vuol poco, oggi, a definirli camp. Eppure il trucco funziona e il pubblico può condividere l’estasi di Dorothy, per quanto anche all’epoca non fosse nuovo né ai deliri scenografici del musical né al fulgore del Technicolor. È impossibile attribuire i meriti del film a un solo mago: The Wizard of Oz, anzi, è un testo senza autore (S. Rusdhie). L’unica firma che lo marchia a fuoco è quella della MGM. Alla produzione si divisero Mervyn LeRoy e Arthur Freed (sulla carta assistente), quest’ultimo alla sua prima esperienza in una carriera che lo porterà a capo dei maggiori musical della casa. Non è chiaro a chi per primo venne l’idea, per nulla scontata se si considera che, fino ad allora, Oz al cinema non aveva sfavillato (una casa di produzione messa in piedi da Baum per adattare i suoi romanzi chiuse alla svelta, e la versione del 1925 con Oliver Hardy nel costume dell’Uomo di Latta fece poco clamore). Di certo un buon impulso all’impresa fu assestato dal successone di Snow White and the Seven Dwarfs. Le illustrazioni di William Wallace Denslow per la prima edizione del romanzo, poi, fornirono più che uno spunto iconico.
Furono quattro i registi che parteciparono al progetto: André de Toth (due settimane per niente), George Cukor (tre giorni, abbastanza per consigliare di togliere a Dorothy l’acconciatura bionda), Victor Fleming (quattro mesi, prima di correre sul set di Gone with the Wind) e King Vidor (dieci giorni per le scene del Kansas). Addirittura undici gli sceneggiatori a vario titolo coinvolti. E la gestazione travagliata del film è confermata dai centotrentasei giorni di riprese, tra infelici incidenti di percorso. Ma a dispetto di un così ricco campionario di mani e cervelli, The Wizard of Oz è tutt’altro che dispersivo e qua e là raffazzonato: tira invece dritto verso nuovi personaggi, regni e colori, con lo stesso passo saltabeccante dei suoi eroi, per fermarsi ogni tanto a esercitarsi nel canto o nel vaudeville. In fondo, oltre tanto arcobaleno, c’è una morale poco lampante. “Nessun posto è bello come casa mia”, comprende infine Dorothy. Ma tutto il resto sembra smentire apertamente il desiderio di un Kansas monocromo, dal quale è stato bello svegliarsi per prendere in mano il proprio destino di ragazza, senza adulti inadeguati tra i piedi, con la consapevolezza delle proprie virtù. The Wizard of Oz fu troppo costoso per ripianare subito i costi, anche se il pubblico accorse e qualche Oscar marginale arrivò (miglior canzone, suono e premio speciale a Judy Garland). La sua enorme risonanza fu però un fenomeno soprattutto televisivo: a partire dal 1956 il film diventerà un appuntamento domestico fisso e, conseguentemente, una “American institution” (A. Harmetz). Se il mondo di Oz boccheggia nei vari film che l’hanno in seguito rivisitato, si dimostra fertilissimo quando penetra come suggestione o incubo, più o meno latente, in contesti a prima vista lontani: Zardoz (John Boorman, 1974), Alice Doesn’t Live Here Anymore (Alice non abita più qui, Martin Scorsese 1974), Wild at Heart (Cuore selvaggio, David Lynch 1990), fino al magma del romanzo Gravity’s Rainbow di Thomas Pynchon.
Enciclopedia del Cinema Treccani, 2004

Piazza Maggiore, Bologna, Foto di Lorenzo Burlando
ANDREA MENEGHELLI è responsabile delle collezioni filmiche della Cineteca di Bologna. Di tanto in tanto, si diletta a scrivere di cinema.
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