PROBABLY, MORE OR LESS… GOOD BYE ABBAS. Un ricordo di Luisa Ceretto

 

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© Foto Archivio M.C.

 

Quando Abbas Kiarostami è venuto a Bologna per la prima volta nel settembre 1996, per un seminario organizzato dalla Cineteca, presso cui avevo avviato la mia collaborazione, la sua fama lo precedeva. In Italia Nanni Moretti con il cortometraggio Il giorno della prima di Close-up  gli aveva reso omaggio, ma nel frattempo la distribuzione nelle sale cinematografiche di alcune sue pellicole, lo aveva già fatto conoscere e apprezzare da un discreto pubblico, oltre che dalla stampa e dalla critica specializzata. È in quell’ occasione che l’ho conosciuto, uno scambio umano e professionale che si è consolidato, un’amicizia maturata nel tempo. Da allora sono state numerose le opportunità di incontrarlo, una retrospettiva piuttosto completa dedicata alla sua opera – per cui il regista si era recato in diverse città italiane, oltre a Bologna, Torino, Parma, Firenze, Modena -, a Locarno nel 1997 per intervistarlo per una rassegna che stavamo preparando, Sguardi sull’Iran, a Cannes, per Il sapore della ciliegia. Ma soprattutto a Bologna, dove poteva tornare per presentare una nuova pellicola in uscita in Italia, o per l’allestimento di una nuova mostra fotografica, la sua era una frequentazione assidua.

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© Foto Archivio M.C.

Ripensando a quei primi periodi, agli anni novanta, era piuttosto sorprendente il successo e la notorietà a livello internazionale dell’opera di Abbas Kiarostami. Il suo era stato un ingresso trionfale nel mondo della settima arte che, dal 1991 per una diecina di anni almeno, aveva realizzato un successo dopo l’altro – è sufficiente ricordare nel 1997 la palma d’oro ex aequo con Il sapore della ciliegia e  il premio della giuria a Venezia due anni dopo con Il vento ci porterà via – , per poi proseguire il proprio percorso sia con opere cinematografiche che fotografiche. Le sue pellicole avevano superato le barriere nazionali e raggiunto i circuiti della grande distribuzione e quindi il grande pubblico, un tratto distintivo certamente e quasi unico rispetto ai percorsi di altre figure prestigiose della cinematografia iraniana, i cui lavori rimanevano perlopiù appannaggio di vetrine festivaliere, seppure prestigiose. Non esisteva un “metodo” Kiarostami, ma di fatto nel giro di breve tempo si era come diffuso a macchia d’olio quel suo modo di fare cinema, quel modo del tutto particolare di intrecciare realtà a finzione, che stava influenzando molto la produzione cinematografica iraniana, soprattutto quella che andava affacciandosi e che seppure in circuiti ristretti iniziava a vedersi. Dietro quegli occhiali scuri che non toglieva mai, la compostezza e gentilezza di una persona dal tono di voce soave ma sicura che parlava un inglese fluente, ma per gli incontri formali, con la stampa e col pubblico, preferiva essere tradotto direttamente dal farsi, la propria lingua. Ricordo la sua disponibilità estrema nel rispondere al pubblico. C’era chi nel corso delle sue svariate presenze a Bologna, nel tempo, accorreva ogni qual volta ve ne fosse l’occasione. A chi gli mandava lettere, attestazioni di stima, rispondeva sempre con sollecitudine. Ma soprattutto conservo nella memoria quei “fuori onda”, quei momenti in cui l’autore raccontava dei suoi viaggi in Kurdistan a scattare fotografie, oppure alla ricerca di nuovi set o dei suoi innumerevoli viaggi, in particolare in Giappone, dove era osannato quale celebrità. Aveva grande consapevolezza della necessità di calibrare bene e gestire il successo, soprattutto il saper dividere i momenti celebrativi da quelli in cui rimettersi al lavoro per impegnarsi in nuovi progetti, dare spazio al processo creativo e quindi, se necessario, rifiutare nuovi inviti anche se importanti. La sua notorietà non lo aveva mai allontanato da se stesso, dalla propria umanità e attenzione verso gli altri.  Lo infastidivano facili etichette, come ad esempio quella di essere un regista dedicato all’universo infantile. Era stata una tappa, ma poi il suo percorso lo aveva portato in direzioni differenti. Rivendicava l’esigenza per un artista di lavorare con la consapevolezza di avere dei “limiti”. Amava le sfide, in primo luogo quella di vivere in un Paese dove vige la censura, eppure lui riusciva a trovare il proprio spazio. Per lui avere dei limiti e la consapevolezza di averne, quindi di doverli in qualche modo superare o tenerne conto, era la condizione essenziale per il suo fare cinema. Lo scorso anno, in occasione dell’uscita di una nuova raccolta di poesie, sarebbe dovuto tornare a Bologna, purtroppo per impegni altrove, aveva declinato l’invito, un nuovo incontro che era stato soltanto procrastinato… Probably, More or less… era una battuta

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Sotto gli ulivi (1994)

che frequentemente scambiavamo fra noi, con ironia, per esprimere una momentanea perplessità. Nel film 76 minutes and 15 seconds presentato alla Mostra veneziana in omaggio alla sua recente scomparsa, il regista Samadian Seifollah riprende immagini di repertorio che lo ritraggono al lavoro, durante i suoi seminari con gli studenti, in vari momenti del suo percorso artistico.  Il film si conclude con il maestro iraniano che ritorna sui luoghi di Sotto gli ulivi, e riprende il percorso a zig zag del protagonista maschile Hossein, prima di scendere in mezzo agli ulivi. Mi piace ricordare Abbas, grande artista e caro amico, in quella sequenza, lungo quel cammino… Good bye Abbas