IX – CLAUDE SAUTET

Numero IX – Giugno 2018

Sommario:

 

CLAUDE SAUTET, “ UN REGISTA FRANCESE, FRANCESE, FRANCESE…”

di Luisa Ceretto

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Claude Sautet

“Claude Sautet, l’uomo meno frivolo che conosco e la cui scontrosa serietà me lo fa avvicinare a Charles Vanel, essendo ambedue nella mia immaginazione dei capi-boscaioli capaci di strappare di mano l’accetta a uno sfaticato per mostrargli come si possa abbattere cinque alberi in un’ora. Claude Sautet è testardo, Claude Sautet è selvaggio, Claude Sautet è sincero, Claude Sautet è possente, Claude Sautet è francese, francese, francese….” (François Truffaut)

 Claude Sautet ha segnato profondamente con la sua personalità il cinema francese. Una carriera cinematografica che ha inizio negli anni cinquanta, come assistente alla regia  e successivamente come regista e sceneggiatore, per oltre quarant’anni. Un percorso singolare, che conduce spesso Sautet in Italia, a collaborare con vari sceneggiatori, a condividere un metodo di lavoro di scrittura a più mani, entrando in contatto con registi degli anni d’oro del cinema italiano, anni in cui, poteva trattarsi di commedie, di polizieschi come di film in costume, la produzione nostrana toccava livelli mai raggiunti fino ad allora, coniugando qualità artistica e successo di pubblico. E’ intorno agli anni sessanta, infatti, che si avviano importanti co-produzioni italo-francesi.

Claude Sautet è un regista poco prolifico, sono solo tredici le regie realizzate dal 1959 al 1995, da Classe tous risques (Asfalto che scotta) a Nelly et Mr Arnaud. Dopo essersi cimentato nel noir, a partire dai primi anni Settanta si rivela un finissimo osservatore della coppia, con pellicole permeate da tematiche quali l’amicizia, il tempo che passa, l’amore, con una particolare attenzione all’incertezza dei rapporti sociali e affettivi. Fuori dai clan e dai cenacoli parigini, la sua opera per un tempo piuttosto lungo resta sommariamente confinata al cinema di genere e stenta a trovare il riconoscimento che le spetta.  Sautet è un grande inventore e conoscitore del mezzo cinematografico, fautore di un cinema classico, con un vero talento per la direzione degli attori. Romy Schneider, Michel Piccoli, Lea Massari, Ottavia Piccolo, e prima ancora Lino Ventura, Yves Montand, il più francese degli attori italiani, Jean-Paul Belmondo, Claude Brasseur, Gérard Depardieu, Sandrine Bonnaire, Umberto Orsini, Serge Reggiani, André Dussollier, Emanuelle Béart, Daniel Auteuil, Michel Serrault, attori di fama internazionale, che danno corpo a personaggi indimenticabili, a donne amate o infelici e uomini affascinanti o detestabili, amici, nemici, amanti, madri, personaggi introversi, cupi, disperati, coraggiosi. Agli inizi degli anni novanta, Claude Sautet  con Un cuore in inverno, storia dell’ineffabile rapporto fra un liutaio e una violinista, Leone d’argento alla quarantanovesima edizione della Mostra del cinema di Venezia, ha ottenuto, seppure tardivamente, il dovuto riconoscimento di critica e di pubblico a livello internazionale. Lo avevamo incontrato nel corso di un soggiorno a Bologna, nel 1997, in occasione di una retrospettiva dedicatagli dalla Cineteca, all’indomani dell’uscita di quella che sarebbe stata la sua ultima pellicola,  Nelly et Mr Arnaud (1995). Claude Sautet è scomparso nel luglio del 2000.

Pubblichiamo l’intervista inedita.

 

CONVERSAZIONE CON CLAUDE SAUTET

di Luisa Ceretto

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Claude Sautet, Luisa Ceretto

Lei ha collaborato con alcune figure di rilievo del cinema italiano, cosa ricorda di quei momenti?

Il ricordo che ho del cinema italiano, è quello del suo periodo d’oro. Avevo cominciato a fare un film, ma alla metà della realizzazione non avevo più soldi e il coproduttore italiano aveva firmato un contratto per farmi lavorare su varie sceneggiature. Così sono arrivato a Roma e mi ha messo subito in contatto con Ennio Flaiano. E con Flaiano lavoravamo su una quantità di pellicole, su piccole scene. Per la durata di circa quattordici mesi, ho difatti trascorso in Italia dieci, quindici giorni ogni mese su una quindicina di film. All’epoca si scrivevano con molti sceneggiatori, c’era sempre lo sceneggiatore principale, ad esempio, Tullio Pinelli, e poi il regista. Ci veniva chiesto di trovare piccole scene qui e là, in luoghi diversi, per esempio una scena con una bambina sulla spiaggia o una scena in una piazza, dettagli. Il lavoro era una specie di mosaico, su cui poi lo sceneggiatore principale e il regista potevano fare la loro scelta. È soprattutto un ricordo umano, molto particolare, collettivo, in cui ci si incontrava tutti quanti insieme. Ad un certo momento si era creato un malinteso col produttore che mi voleva chiamare per fare un film in Italia, ma io gli avevo obbiettato, perché mai farne io uno, quando c’erano già tanti registi italiani. C’era anche stata un’opzione sul Deserto dei tartari, così ho lavorato al fianco di Dino Buzzati a Milano per un mese o due. Avevamo fatto un buon lavoro, che non aveva alcun rapporto con l’adattamento di Valerio Zurlini. Ma poi, trascorsi due mesi, Dino mi disse che non c’erano neppure i soldi per pagare l’opzione, quindi, addio progetto.

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Lea Massari, Les choses de la vie

Di registi italiani ne ho incontrati talmente tanti, potrei citare, Federico Fellini, Ettore Scola, Mauro Bolognini, non me li ricordo tutti. Eppure una cosa mi aveva veramente colpito ed era la loro scelta di lavorare con attori non professionisti, presi dalla strada. Visto che non sapevano recitare si diceva loro di contare, uno, due, tre, quattro, cinque, sei…e dopo, grazie al doppiaggio, si aggiungevano i dialoghi, miracolo della lingua italiana!

Quali sono state le sceneggiature sulle quali ha lavorato?

Non me le ricordo, anche perché quando sono rientrato in Francia ho continuato in questo ambito, per una decina di anni. Tutto il tempo impiegato a fare questo mestiere di terzo, quarto sceneggiatore, dovevo spesso mettere a posto le sceneggiature altrui, del resto ho continuato così successivamente, anche di recente. A quell’epoca non avevo neanche molta voglia di fare dei film (come regista, ndr), ero molto felice di lavorare in quel modo, di trovare idee, di parlarne, che mi chiedessero aiuto per i testi, era quello che mi interessava.

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Lea Massari, Michel Piccoli, Les choses de la vie

Lei ha dichiarato di aver fatto ritorno dietro la mdp, grazie alla lettura della sceneggiatura di Les choses de la vie…

Si, perché prima di recarmi a Roma, avevo realizzato un poliziesco (Asfalto che scotta, ndr), una vicenda di gangster con Lino Ventura. Dal momento che il film aveva avuto un buon successo, non riuscivo ad uscire da quel tipo di opere, tutti i produttori francesi mi chiedevano di realizzare vicende simili.  Potevo solo fare dei noir e nient’altro, mi son detto che non ne avrei più girati e così ho cominciato a lavorare per gli altri. È stato poi nel 1968, che uno sceneggiatore francese mi ha dato da leggere un proprio trattamento su di un libro, chiedendomi cosa ne pensassi, si trattava di Les choses de la vie.  Dopo averlo letto, gli dissi che lo avrei voluto girare io, e così è stato, anche perché nel frattempo altri registi avevano rifiutato.

In Italia il film era uscito col titolo L’amante

Sì, dopo Les choses de la vie, avevo fatto, Max et les ferrailleurs, che in italiano è divenuto Il commissario Pellissier, ma non c’era nessun Pellissier nel film. Del resto, César et Rosalie, è stato tradotto, È simpatico… ma gli romperei il muso.

I soli titoli rimasti simili all’originale sono i miei film più recenti, Un coeur en hiver e Nelly et Mr. Arnaud.

Con Les choses de la vie prendeva il via la sua collaborazione con Romy Schneider, cosa ci può dire al riguardo? 

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Michel Piccoli, Romy Schneider

All’inizio è stato per caso. Per Les choses de la vie dovevo avere un personaggio maschile, interpretato da Michel Piccoli e due donne. Era una co-produzione italiana e per uno dei due personaggi femminili avevo pensato a Lea Massari, che per il box office non era più molto quotata ed era difficile trovarla, il produttore infatti mi aveva detto che non lavorava più. Per caso un impresario mi disse che avrebbe potuto contattarla lui e così la scelta è caduta su Lea Massari. Invece per l’altro personaggio, non trovavo nessuna attrice francese adatta al personaggio. Romy Schneider si trovava a Parigi, l’ho incontrata, ma non corrispondeva all’immagine che mi ero fatta di lei. E neppure lei, rispetto al box office, era molto quotata, tuttavia era un nome che permetteva di trovare fondi. Al primo appuntamento, ero davanti ad una donna minuta, senza trucco, molto amichevole, che interiorizzava sia l’aspetto serio che scherzoso della vita, e come accade quando ci si incontra e ci si trova bene, abbiamo trascorso almeno quattro ore insieme a cena. Visto che non era truccata, Romy mi disse una cosa molto rara per un’attrice: “per la fotogenia, non ti preoccupare, io sono fotogenica”. Ed è vero che non abbiamo mai avuto problemi di illuminazione con lei. Avevo suggerito che si raccogliesse i capelli, era molto più bella, faceva venire fuori qualcosa di molto affascinante, era la sua fortuna, la sua caratteristica morfologica. Mi aveva colpito il suo portamento, come teneva la testa eretta, assomigliava a una cavallerizza. Del resto Romy Schneider era figlia d’arte, suo padre, sua madre, i nonni, erano tutti attori. E così ho girato Les choses de la vie, anche se le riprese con lei sono durate poco, otto o nove giorni su otto settimane; ma è stato un tempo sufficiente per cogliere la sua generosità, le sue contraddizioni, un certo lato frustrato nel rapporto uomo/donna, un retroterra che si vedeva anche in scene molto brevi. Ho girato insieme a lei cinque film, eccetto che per uno, non ho mai scritto una sceneggiatura appositamente per lei. Ma più in generale non ho mai scritto pensando agli attori, quanto piuttosto ai personaggi. Eppure Romy, ogni volta mi chiedeva chi fosse il personaggio e io, a mia volta, le chiedevo se pensava di poterlo interpretare. E rispondeva sempre affermativamente, perché era come se avesse bisogno di dimostrare ciò che era in grado di dare, aveva un’attitudine estremamente incoraggiante. Successivamente ha recitato in Max et les ferrailleurs (1972), nel ruolo della prostituta, ci teneva a interpretare quel ruolo, anche se in un primo momento non avevo pensato a lei per quella parte. Invece per César et Rosalie (1974), la parte era destinata all’inizio a Catherine Deneuve, ma visto che attendevamo il contratto firmato, che non arrivava, ho chiesto a Romy di interpretare la parte.

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Romy Scheider e Claude Sautet sul set di Les choses de la vie

 Qual è il film che ha scritto appositamente per lei?

 Le avevo promesso che quando avesse raggiunto i quarant’anni anni avrei fatto un film per lei, ed è così che ho scritto e girato con lei, Une histoire simple (1978).

 Vi sono elementi che sembrano costituire un leit motiv  nella sua filmografia, nelle dinamiche interpersonali dei suoi personaggi…

Dico sempre che cerco nei personaggi maschili la parte misogina, nel senso della paura della coppia, la paura della donna nella vita di coppia. Forse è una questione generazionale che riflette uno stereotipo maschile. Dal canto mio, però, cerco anche di creare personaggi femminili che destabilizzino, che spingano il personaggio maschile ad uscire da un modello maschile predefinito, da questa sua fortezza. Un misogino non è un macho, è un introverso e le donne sono spesso molto attratte dal misogino, perché lo vedono come un bambino che deve essere guidato, aiutato ad uscire da quella sua determinata condizione. Quando le donne sono forti delle loro posizioni, ecco che destabilizzano l’introverso, è una costante presente in quasi tutti i miei film, forse perché riflette la mia infanzia, era molto chiuso allora. Nel corso della mia esistenza ho assistito al cambiamento sociale della condizione femminile e dello stereotipo maschile. Al di là dei grandi sconvolgimenti economico sociali, uno degli elementi che più mi ha colpito è stato proprio il cambiamento del comportamento della donna nei confronti dell’uomo. Forse ero anche influenzato dalla letteratura inglese, a partire da Henry James e altri…

Progressivamente nella sua filmografia una scrittura attenta alla coralità, lascia il posto ad una maggiore attenzione al singolo, qual è, se ve n’è uno, il film che ha segnato questo cambiamento di rotta?

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André Dussollier, Daniel Auteuil, Un coeur en hiver

 

Hanno detto che facevo ritratti di gruppo e ad un certo punto, in effetti, mi sono stancato di questa coreografia corale, perché si mostra prima un aspetto, poi un altro e si finisce col non riuscire mai ad entrare nell’insondabile, ad approfondire. Si parla delle ambiguità delle relazioni, dell’amicizia, del rifiuto, della dinamica del gruppo. D’un tratto, avevo l’impressione di ripetermi, seguivo gli sviluppi della mia generazione. Non volevo più fare film, ho ripreso il lavoro di sceneggiatura, fino a quando ho incontrato un produttore che mi ha detto che voleva girare un film con me, a patto che si cambiasse tutto, quindi non più lo stesso sceneggiatore, tanto meno i tecnici, cambiare totalmente l’equipe di lavoro. Per me è stato un bene, cercavo di trattare i personaggi più profondi in maniera differente, come dei ritratti in movimento, cercando di dare una coloritura a ciascun portatore di movimento, di creare un elemento di singolarità che non fosse, appunto, standardizzato. Ecco perché in particolare negli ultimi tre film (Quelques jours, Un coeur en hiver, Nelly et M. Arnaud, ndr) i personaggi hanno rapporti introversi con gli amici e con le donne. L’incontro con una donna e il rapporto con un introverso mi interessa fino al momento in cui questo rapporto è destabilizzato. L’aneddoto, il cuore della vicenda è molto semplice, ma quel che conta è trovare le tonalità differenti che compongono il ritratto. Ne deriva che si ha un cambiamento formale, si gira  un piano più ravvicinato, si segue l’evoluzione del ritmo interno del personaggio, al di là del dialogo. Questo cambiamento avviene con il film, Quelques jours avec moi (1988) dove si vede il personaggio principale, Martial, che in effetti non ha voglia di fare nulla, non si interessa di niente, ma che, entrando in contatto con tre gruppi diversi, diviene una sorta di manipolatore, per divertimento.  Il protagonista è in uno stato di semi depressione, di convalescenza, non cerca di giustificarsi per nulla, può dire che non lavora, che ha molti soldi, che si annoia, che si diverte, può dire ciò che vuole e curiosamente si rende conto che, contrariamente a quanto potesse immaginare, tutto questo gli dà voglia di vivere. Per me è stato un film molto importante, ha costituito un punto chiave.

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Claude Sautet, Emanuelle Béart et Daniel Auteuil sul set di Un cuore in inverno

I suoi film sono quasi sempre ambientati a Parigi, quanto la metropoli costituisce il motore della vicenda?

La prima cosa che devo dire  è che non conosco Parigi, è troppo grande per me. Conosco i quartieri dove sono nato, in periferia, Montrouge, quindi  Port d’Orléans dove ho abitato, in seguito il quindicesimo, il tredicesimo e il quinto arrondissement. Il fatto è che la mia famiglia era una mescolanza di piccolo borghesi, liberali, conducenti di autobus. Quando si cresce, una delle prime distrazioni sono i caffè. In un bistrot all’inizio tutti gli avventori sembrano assomigliarsi, ma appena ci si sofferma su uno o due volti, viene subito da porsi delle domande. Cosa c’è dietro a quei volti, si tratta di persone che litigano, che si trovano per la prima volta o si stanno separando? C’è sempre una commedia infinita appassionante, sottile, però giocata a toni smorzati. I caffè sono luoghi all’apparenza molto accoglienti, dove tuttavia si evidenzia maggiormente la solitudine.

Quanto la costruzione di un film è influenzata da una struttura musicale?

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Claude Sautet

Per rispondere a questa domanda sono obbligato ad entrare un po’ nella mia autobiografia. Ero un sognatore, in una famiglia con quattro figli, ed ero molto gentile, mite, ma mi annoiavo. Verso gli undici anni, mi hanno messo in un collegio, dove ho dovuto ripetere delle classi, perché non riuscivo a leggere. Un giorno è successa una cosa formidabile, un insegnante ha organizzato una corale e sono stati fatti dei provini. Avevo una bellissima voce da soprano e così ho cominciato a provare questi cori a voci multiple, è stato meraviglioso per me. Perché attraverso la musica, riuscivo ad essere in rapporto con gli altri, un rapporto mediato dalle voci. Quando si canta in un coro, ciò che conta è la propria voce insieme alle altre. E spesso si pensa che le altre siano migliori della propria, si vorrebbe cantare con le voci altrui. Quindi è stato quello il primo rapporto reale con la società, con gli altri. Quando si entra nell’universo di Bach le costruzioni sono infinite, i contrappunti, le varie azioni, è un universo in cui ci si immerge. A quindici anni e mezzo non riuscivo ancora a leggere, ma in compenso avevo un amico che leggeva molto, era timido quanto me, e quando due timidi si incontrano, parlano molto. E lui cercava di convincermi a leggere e ha cominciato con piccoli racconti di Hemingway, e di altri autori americani. Li riuscivo a leggere e poco a poco ho divorato tutta la letteratura americana dell’epoca. Credo che ciò che mi colpiva maggiormente era la letteratura del comportamento, “behaviorista”. Ho cominciato a leggere la letteratura francese soltanto a ventidue anni, il primo libro era di Madame de la Fayette, La Prinpesse de Clèves, non accade assolutamente nulla, si tratta di una storia d’amore dove i due interessati non si incontrano neppure. E’ all’origine del romanzo psicologico.  Ho ritrovato una caratteristica analoga, soltanto nei romanzi di Henry James. Ma prima di apprezzare e avvicinarmi alla letteratura del diciannovesimo secolo, ci è voluto del tempo. E qualcosa del genere è avvenuto anche per la musica, sono passato dall’ascolto di Bach al jazz. Perché trovavo punti in comune, temi semplici e poi variazioni di voci multiple con un ritmo classico regolare. E sono rimasto a lungo su Bach e sul jazz, non riuscivo ad avvicinarmi, ad esempio, alla musica romantica del diciannovesimo. Ho poi ritrovato la musica classica grazie a Debussy, Stravinsky, Ravel. Poi, a quel punto, si ama tutta la musica, però volevo soffermarmi agli inizi del percorso. Ho detto tutto ciò per spiegare di un certo ritardo che malgrado tutto mi era rimasto nel vocabolario, nell’uso delle parole, e quindi avevo qualche difficoltà ad esprimermi. Nella costruzione dei film prediligo una struttura musicale rispetto ad una letteraria. Nella struttura musicale posso cogliere tutto ciò che non si può esprimere, che resta inesplicabile. E ho sempre difficoltà a trovare quel che si definisce un soggetto. Talvolta un inizio di relazione è il tema portante che diviene il soggetto. Una volta che ho l’impressione che questo inizio di relazione esista e ho come l’impressione di averlo vissuto, come un fantasma ideale a cui ho pensato, allora a quel punto posso avanzare col film come un movimento musicale. Ma ho sempre un problema negli inizi di un nuovo film, nelle scene che si definiscono, “di spiegazione”. Quando mi trovo in quel preciso momento, preferirei evitarlo, è sempre un lavoro poco piacevole. Se lavoro per gli altri, faccio sempre tagliare, ma quando sono il diretto interessato, mi riesce difficile. Quando sono trascorsi i primi quindici minuti di un film, si è già in un movimento onirico. Ne parlavo con François Truffaut, che mi diceva, “sai, nel primo quarto d’ora la gente è molto paziente”…

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Claude Sautet sul set di Les choses de la vie

CLAUDE SAUTET

di Gabriele Rizza

Claude Sautet è nato il 23 febbraio 1924 a Montrouge, alla periferia di Parigi. Studia nella capitale e si iscrive, con l’intenzione di dedicarsi alla pittura e alla scultura, alla Scuola di Arti decorative. Appassionato di musica, diventa critico musicale per il giornale “Combat”. Nel 1946 entra all’IDHEC e due anni dopo debutta come assistente di diversi registi. André Cerf, Jean Devaivre, George Franju, Pierre Montazel, Guy Lefranc, Carlo Rim e Yves Robert. Lavora anche come co-sceneggiatore e co-adattatore, ad esempio in Le fauve est lache di Maurice Labro (1958, che lancia Lino Ventura) e Les yeux sans visage di Georges Franju (1959). In questo periodo gira un cortometraggio (Nous n’irons plus au bois, 1951) e un lungometraggio per meglio sbarcare il lunario: Bonjour sourire (1956) con Henri Salvador e Annie Cordy, accolto nell’indifferenza generale.

Nel 1960 passa alla regia con Classe tous risques, tratto dal romanzo di José Giovanni, di cui cura l’adattamento insieme all’autore e a Pascal Jardin. Interpreti principali: Lino Ventura, Jean-Paul Belmondo e Sandra Milo. Il film è un grande successo e impressiona una parte della critica per la sicurezza della messa in scena. Le proposte si moltiplicano, ma sono tutti sottoprodotti di questo primo tentativo. Sautet rifiuta: “ Ho fatto Classe tous risques -dichiara- perché mi piaceva l’idea di uno che tenta un colpo in un paese straniero e gli va male, tutto qui”. Nel frattempo non abbandona le sue attività, anzi si interessa sempre più alla scrittura e collabora a numerose sceneggiature, tra cui Symphonie pour un massacre (Jacques Deray), Monsieur (Jean-Paul Le Chenois) e Peau de banane (Marcel Ophüls). Nel 1964, tentato di nuovo dalla regia, scrive e realizza L’arme à gauche tratto da un romanzo di Charles Williams. Interpretato da Lino Ventura, Sylvia Koshina e dall’americano Leo Gordon, il film contiene alcune delle più belle sequenze marine mai girate in Francia. L’arme à gauche conferma il suo talento, ma orienta i critici verso una falsa pista: Sautet viene considerato un cineasta dell’azione pura, influenzato dai film di Walsh o di Siegel.

Nello stesso periodo, si fa apprezzare come sceneggiatore di riguardo: a lui ci si rivolge quando un progetto zoppica o una situazione si blocca. Sempre più richiesto, è coautore di Louis Malle in Le voleur, di Jean Delannoy in Le soleil des voyous, di Alain Cavalier in Mise à sac e La chamade, di Philippe de Broca in Le diable par la queue, di Jacques Deray in Borsalino, di Jean-Paul Rappeneau in La vie de chateau e Les mariés de l’an II. Nel 1969, nuovo colpo di fulmine che ci regalerà Les choses de la vie, dal romanzo di Paul Guimard e l’adattamento di Jean-Paul Dabadie. Il film, interpretato da Michel Piccoli, Romy Schneider e Lea Massari, ottiene il premio Louis Delluc e rappresenta ufficialmente la Francia al festival di Cannes del 1970. Risulta evidente che per Sautet il cinema non è più solo spettacolo, ma diventa anche un modo perfetto di posare lo sguardo sul mondo, gli uomini, la società. Come si può vedere anche in Max et les ferrailleurs (1970, con Michel Piccoli, Romy Schneider, Bernard Fresson), autopsia di una macchinazione e di un personaggio, storia violenta, ridicola e romantica.

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Gérard Depardieu, Yves Montand, Michel Piccoli, Serge Reggiani, Vincent, François, Paul et les autres

Les choses de la vie gli dà un’improvvisa celebrità ma fa nascere l’altro malinteso che non si è mai dissipato: alcuni hanno visto in lui un sociologo che si compiace a descrivere le pene d’amore e i problemi di soldi della borghesia francese contemporanea. È vero che da Les choses de la vie fino  a Garçon!, gli otto film girati tra il 1970 e il 1983 sono scritti – dallo stesso Sautet con la collaborazione di Jean-Loup Dabadie, di Claude Néron o di Jean-Paul Torok – con l’occhio rivolto alla società francese attuale; ma l’intenzione di dimostrare una tesi è lontanissima dal regista, che aveva avuto modo di dichiarare nel 1971: “Quando scrivo una sceneggiatura o giro un film non ho una coscienza preordinata di alcun tipo. Ad un certo punto le cose si mettono in modo tale che non posso evitarle”. E ancora: “Non vedo altro paragone se non con la musica dove il tipo di armonia, di accordo o di ritmo iniziale fa sì che, qualunque sia il percorso, una logica sotterranea imponga il materiale che si deve trovare alla fine “ (“Positif”, n. 126).

Da quel momento, sempre in compagnia dei suoi collaboratori e amici (Jean-Loup Dabadie e Claude Néron alla scrittura, Jean Boffety alla macchina da presa, Philippe Sarde per la musica), Claude Sautet ha saputo raggiungere il cuore del pubblico e della critica: César et Rosalie (1972), Vincent, François, Paul et les autres (1974), Mado (1976). Sequenze apparentemente anodine si vedono divorate dal fuoco della vita e del reale. Con lui grandi attori come Romy Schneider, Michel Piccoli, Yves Montand, danno vita a personaggi molto diversi da quelli che interpretano di solito. Con lui infine, nuovi venuti, come Gérard Depardieu, Ottavia Piccolo, Jacques Dutronc si integrano, senza alcuna frizione, al suo universo di autore e regista.

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Romy Schneider, César et Rosalie

Il concetto di ‘logica sotterranea’ spiega l’opera e il rapporto dell’uomo con l’opera. Claude Sautet è un cineasta lento (solo un film ogni due anni: se la sua attività sembra più frenetica tra il ‘70 e il ’73 è solo perché ha a disposizione già pronta la sceneggiatura di César et Rosalie), i cui temi prendono forma, generalmente, in una specie di corpo a corpo con il cosceneggiatore, a partire da una situazione elementare. Il cinema di Sautet è preciso, senza concessioni per le civetterie, rigoroso e necessario come la partitura di un concerto. Il racconto e i movimenti della macchina da presa lo interessano solo in quanto permettono quello che chiama “l’approccio concreto dei personaggi”. Per questo bisogno di autenticità, Sautet si inserisce nella linea dei maestri italiani e nella tradizione francese di Jacques Becker (“il cineasta che più mi ha influenzato”).

“Se ho la certezza che Claude Sautet sarà il nostro più grande cineasta – ha detto Jean-Pierre Melville nel 1962 – è perché, al di là del talento, ne conosco il coraggio tranquillo. Tutti noi conosciamo almeno un centinaio di pseudo registi che accetterebbero qualunque infamia pur di impressionare qualche metro di pellicola, mentre Sautet, il falso taciturno, inquieto e sicuro di sé, aspetta di essere ispirato per girare. Ma quando gira, ci mette l’anima”.

(*) Il testo è apparso sul catalogo del festival, “France Cinéma”, 1990, diretto da Aldo Tassone, in cui è stata dedicata una retrospettiva a Claude Sautet.

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Romy Schneider, Yves Montand, César et Rosalie

 

HANNO DETTO DEI SUOI FILM…

Ho adorato Asfalto che scotta. Fu la mia prima recensione. Pierre Billard, il direttore di “Cinéma 60” mi aveva autorizzato a fare un articolo per la seconda parte della rivista, che significava non più di trenta quaranta righe. Quell’articolo terminava con qualcosa del tipo “Alcuni diranno che Asfalto che scotta è un film di serie B, ma B come Boetticher vale assai di più che A come Allégret”. Ho difeso molto quel film, ho chiamato Sautet e penso di avergli fatto la prima intervista della sua carriera. Abbiamo parlato molto del western e della sua influenza sul film. Alla sua uscita Asfalto che scotta ha ricevuto un’accoglienza scandalosa. Un gran numero di articoli non erano solo imbecilli ma addirittura ripugnanti, prova di una mancanza di discernimento, d’una incapacità totale di vedere la forza della messa in scena. I primi venticinque minuti di Asfalto che scotta annunciano molto chiaramente la nascita di un vero regista. Successivamente il film si piega alle esigenze e alle regole del genere. Rimane ancora oggi fra i migliori polizieschi francesi e uno di quelli meglio invecchiati rispetto ad altri titoli dell’epoca.

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Lino Ventura, Classe tous risques

Il film è stato completamente eclissato da Fino all’ultimo respiro. Invece di lodare Belmondo, di sottolineare la differenza di registro fra i due film, era come se ci fosse da una parte il Belmondo rivoluzionario di Godard e dall’altra quello convenzionale di Sautet. E invece nel film di Sautet Belmondo dà prova di una fragilità, di un fascino che non ritroverà mai più nel corso della sua carriera. Quando ferma l’ambulanza e soccorre Sandra Milo, dà una lezione al tipo che la picchia sul ciglio della strada e poi se ne torna verso lei dicendo “Se ho qualcosa di buono, è il mio sinistro”, Belmondo è sublime. Totalmente diverso dal Michel Poiccard di Fino all’ultimo respiro, ma appunto questo dimostra la versatilità del suo talento. E questo le persone non sono riuscite a capirlo.

Bertrand Tavernier

Il segreto della creazione artistica resta, così come la volgarità, uno dei grandi misteri assoluti. È una cosa che non si impara. Al cinema come altrove. Nel 1896 Pablo Picasso non aveva preso alcuna lezione, così come Erroll Garner nel 1945. La stazione di Milano, l’ufficio postale di Nizza, il passage Doisy (tanto caro a Peugeot) Sautet non li ha imparati in film di altri. Immaginate per un istante la storia ambientata negli Stati Uniti o in Messico o in Canada, con Robert Ryan e Sinatra, e ditemi se Sautet non sarebbe considerato un grande da quelle parti!

Ditemi che non avrebbe potuto firmare Qualcuno verrà, Strategia di una rapina, Lo spaccone o Giungla d’asfalto. Si parla spesso di film in cui i rapporti fra gli uomini, l’amicizia, hanno un’enorme importanza. Io ho assolutamente creduto all’amicizia tra Abel Davos e Stark. È qualcosa di interiore e non il risultato dei dialoghi. Il comportamento dei due uomini rende espliciti i loro sentimenti senza che sia necessario che parlino della loro amicizia. È un po’ per lo stesso motivo che non sono riuscito a credere all’amicizia fra Jules e Jim che al contrario ne parlano spesso.

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Yves Montand Gérard Depardieu Marie Dubois, Vincent, François, Paul et les autres

Jean-Pierre Melville

Nella sua struttura drammaturgica, César et Rosalie rappresenta la quintessenza dei film di Sautet, attraverso tre protagonisti con i quali il regista confessa di essersi identificato: degli eroi adulti, che più o meno ‘ce l’hanno fatta’ nella vita, ma la cui fragilità e immaturità riappare in superficie, di pari passo con gli sconvolgimenti emotivi. Sono questi movimenti interiori che scandiscono il procedere del racconto, e non il contrario. Sautet parte spesso da situazioni classiche, qui un banale triangolo amoroso, per dirigersi verso l’inatteso e il caos dei sentimenti. I suoi finali sono di solito ‘sospesi’, aperti su un avvenire incerto.

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Claude Sautet e Romy Schneider sul set di Les choses de la vie