di Luisa Ceretto
Scorrere l’autobiografia di Jack Cardiff, Magic Hour, è un po’ come avventurarsi all’interno delle pagine più importanti della storia del cinema. Vi si trovano aneddoti di grandi registi, racconti dettagliati sulla lavorazione di alcuni film particolarmente travagliati, ritratti che rivelano lati nascosti di star come Marylin Monroe, o Ava Gardner. Martin Scorsese, nell’articolo che introduce il volume, annovera l’autore tra i maggiori direttori della fotografia, elogiando, soprattutto, l’uso pittorico che fa del colore. Il nome di Cardiff si lega ai film che più hanno colpito la sua fantasia sin da piccolo e che invece da adulto hanno rappresentato un modello di riferimento in particolare dal punto di vista fotografico come Scarpette Rosse (The Red Shoes, 1948) Pandora (Pandora and the Flying Dutchman, 1951), o Stupenda conquista (The Magic Box, 1951). Figlio d’arte, Jack Cardiff è forse una delle rare figure che oggi possa vantare una carriera cinematografica di più di ottant’anni, considerando il suo esordio come attore a soli quattro anni, poi il suo ruolo di assistente operatore a tredici, ed infine l’inizio del lavoro come direttore della fotografia a ventidue. Vincitore di Oscar, ha collaborato con registi di fama mondiale, da Olivier a Hitchcock, da Hathaway a Huston, da Mankiewicz a Vidor.

Narciso Nero
Lungo gli anni Sessanta e Settanta, la sua carriera di cinematographer si alterna a quella di regista, e il film Figli e Amanti (Sons and Lovers, 1960) ottiene un Golden Globe. Pioniere nell’uso del Technicolor in Gran Bretagna, è sua, ad esempio, la fotografia del primo film inglese girato con quel sistema, Sangue gitano (Wings of the Morning, 1936-37) di Harold D. Schuster, durante la guerra realizza documentari in Technicolor per il Governo Britannico, e successivamente è operatore per il film di Powell, Duello a Berlino (The Life and Death of Colonel Blimp, 1943). Ma è subito dopo la guerra che Cardiff ha finalmente l’opportunità di mettere alla prova il proprio talento. In un articolo apparso su “Cinema” (1) Fernaldo Di Giammatteo, stabilendo una graduatoria tra i registi che hanno in maggior misura contribuito al progresso del film cromatico, oltre a citare Olivier per Enrico V, assegna ai due co-autori, Powell e Pressburger ed a Scala al Paradiso (A Matter of Life and Death, 1946), a Narciso Nero (Black Narcissus, 1947) e a Scarpette Rosse, un ruolo primario. Fino ad allora, l’uso del colore aveva avuto una funzione quasi esclusivamente decorativa, creando generalmente l’effetto “cartolina illustrata”, basterebbe segnalare alcuni primissimi titoli, da Beckey Sharp (1953) a Via col vento (1939) per rendersene conto.

© BFI – Michael Powell e Jack Cardiff
Invece i tre film sopra citati, rappresentano esempi di straordinaria duttilità e di pressochè illimitata possibilità del Technicolor, in cui il colore gioca un ruolo strutturale pari alla scenografia e alla recitazione. La scintillante fotografia di Jack Cardiff ha un tocco magico che dà vita alla visionarietà ed alla fantasia dei due autori inglesi, creando atmosfere suggestive ed irreali, “i miei film sono per lo più racconti di fate” dichiarava Michael Powell (2). Tenendo come punto di riferimento la pittura di Rembrandt, di Vermeer, degli Impressionisti, Cardiff giunge ad usare il colore come pennellate che si accordano perfettamente alle stravaganti storie raccontate da Powell e Pressburger, il cui lavoro consisterebbe principalmente nel saper “spezzettare la propria fantasia per poterla materializzare”. Del resto, è su questa “operazione divina” in cui quello di Pressburger, sceneggiatore stravagante (3) – insieme nel 1943, danno vita alla casa di produzione, The Archers, inaugurando la formula artistica che caratterizzerà per tredici anni e per quattordici film i credits dei loro film: “scritto, prodotto e diretto da Michael Powell e Emeric Pressburger! – che l’estro di Cardiff trova il terreno più adatto per esprimersi. Nel comporre architetture fantasiose, il colore crea lo stile del film. Diceva Powell. “…Il colore è meraviglioso quando si può scegliere cosa fotografare…È una questione di stile: il bianco e nero è uno stile, il colore potrebbe esserlo…Se si fotografa a colori ciò che si vede non ha più niente a che vedere con la natura” (4). Commissionato dal Ministero dell’Informazione, Scala al Paradiso nasce originariamente come film che doveva esaltare le relazioni anglo-americane. Un’opera diplomatica, che nelle mani di Powell e Pressburger,in una mescolanza di generi, vira verso il fantastico per raccontare le strane avventure di un pilota inglese che, poco prima di gettarsi dall’aereo in fiamme, si innamora della voce femminile di un’ausiliaria americana.
Crede di essere morto, in realtà, è sopravvissuto, per un errore del Conduttore 71 addetto a raccogliere le “anime” dalla terra, e si ritrova a dover sostenere un processo di fronte alla corte del Paradiso, riuscendo a convincere la giuria a prolungargli la vita. È un film straordinariamente ricco di sfide ottiche, di effetti speciali, di prospettive insolite che rimandano all’esperienza surrealista alla René Clair ed alle bizzarrie figurative espressioniste, dove il mondo reale viene presentato in Technicolor e l’Aldilà in bianco e nero. Il colore entra nel linguaggio filmico ed è funzionale alla storia, facilitando il passaggio dalla vita terrena a quella ultraterrena, attraverso una lenta decolorazione dei personaggi o, viceversa, la loro colorazione. Esemplare il dettaglio della rosa del Conduttore 71, quando deve “scendere sulla terra” a cercare il pilota che da monocromatica, si colora. Il colore è parte anche del dialogo, come gioioso ammiccamento al pubblico, “se adottassero il Technicolor anche lassù, siamo così palliducci”, dice il Conduttore la prima volta che deve andare a cercare il pilota. L’imagerie messa a punto dai due autori è illimitata. Lo spettacolo è il piacere della visione fine a se stessa, si veda la sequenza dall’interno della pupilla, l’effetto dell’anestetico nel momento in cui gli occhi si chiudono, e prende corpo l’immaginazione più pura. Se per quasi tutta la durata del film il passaggio dal colore al bianco e nero mostrava il cambiamento da un piano all’altro, sul finire del film l’interazione tra le due dimensioni avviene con la discesa del gran giurì su di un fastoso scalone che si srotola portando i personaggi fino giù davanti al letto dove stanno operando il pilota. Scala al Paradiso si apriva con una visione planetaria, l’osservazione quasi scientifica che da lontano si avvicina per osservare la terra, per chiudersi, invece, con il maestoso scalone che si ritrae, allontanandosi, portando con sé il bianco e nero che per metà aveva invaso lo schermo. In Narciso Nero il colore determina invece un’atmosfera, suggerisce infatti il fascino di un paesaggio insidioso. Il film segue un gruppo di suore mandate in cima all’Himalaya per insediarsi in un convento e costrette a ritornare a Calcutta da dove erano partite. Cardiff attraverso la luce ed il colore, riesce a creare un’atmosfera irreale, servendosi di fondali dipinti, e a trasmettere l’ambigua e morbosa suggestione di un paesaggio, oltre all’ossessionante senso di peccato che si insinua tra le suore. Peraltro, è un’India immaginaria, ricostruita artificialmente in Inghilterra, per volere di Powell, “desideravo inventare un’India mia…” (5) aveva egli stesso affermato. Ai toni cupi del convento di Calcutta, si oppone la levità dei colori pastello del fasto locale del paesaggio montano che contrasta col dramma che sta per consumarsi. Il film non spiega le ragioni del fallimento della spedizione, ma suggerisce ciò che è successo. Il contrasto tra il bianco dei vestiti delle suore ed il gioco di ombre spesso molto morbide sui loro volti, crea l’effetto drammatico.

Narciso Nero
Cardiff crea sulle ombre il dramma che sta per compiersi, segue il lento sconvolgimento psicologico di Suor Ruth la quale, ossessionata dalla sensualità di quel luogo, getta la tonaca, indossa abiti normali, tenta di sedurre l’uomo che la respinge, per poi precipitare, nel tentativo di uccidere la superiora, nel vuoto. Esemplare, in questo senso, la funzione espressiva dell’elemento cromatico durante il colloquio fra le due suore, nelle inquadrature che mostrano la superiora nel suo abito monacale su sfondi neutri e la suora impazzita, vestita d’un rosso acceso e truccata su sfondi cupi. Tratto da una favola di Andersen, Scarpette Rosse rappresenta un altro esperimento nell’uso del colore, forse meno creativo rispetto ai due precedenti film, ma di forte impatto visivo. A proposito dell’importanza del colore in funzione drammatica nei film di danza, Powell asseriva che fosse necessario sopprimerlo, per servirsene: “ Quando ho iniziato a lavorare col colore, facevo sempre il giro delle scenografie per sopprimere i cuscini: macchie di colore. Poi si girava. Ma l’accessorista rimetteva tutto come prima! Allora si vedeva un caleidoscopio, invece degli attori…” (6)

Scala al Paradiso di M.Powell ed E. Presburger
Nonostante la trama piuttosto esile, l’identificazione della giovane ballerina Vicky Page, con il personaggio di Scarpette Rosse, il balletto che la rende celebre, il film mette a punto una imagerie in cui il colore diventa tutt’uno con lo spettacolo, si fa ritmo, danza, musica. Le scarpette rosse diventano l’ossessionante simbolo della totale dedizione alla danza. Ai colori tenui dei rosa antico e dei gialli delle scenografie del teatro e al rosso brillante delle scarpe, fanno da contrasto le tonalità grigio rossastre che puntualizzano il fanatismo di Lermontov, il direttore della compagnia che ha convinto Vicky a sacrificare tutta la sua vita alla danza. Il melodramma si compone dei dettagli degli occhi di Moira Shearer che sente di essere condotta alla morte dalle sue scarpette, dello sguardo geloso e crudele di Lermontov, dal ritmo frenetico del balletto, in un montaggio di colori che stordisce ed affascina portando con sé lo spettatore fino al salto mortale della protagonista. Con Scarpette Rosse Powell e Pressburger elaborano una forma nuova di spettacolo cinematografico, in cui il balletto sconfina dai bordi del palcoscenico per abbracciare la realtà circostante che, per come viene ripresa, nei colori e nella luce, sembra un pallido riflesso di quel mondo di cartapesta. Forse Scarpette Rosse, ma lo stesso si potrebbe dire di Scala al Paradiso, come di Narciso Nero, raffigurano, in primo luogo, le realtà interiori dei protagonisti, rispecchiando, in modi diversi le ossessioni di ciascuno di loro, quella assolutizzante della danza della ballerina, quella della morte da parte del pilota, e quella del fallimento da parte della suora superiora.

Scala al Paradiso
Amati dal pubblico, per lo più trascurati o sottovalutati dai critici, talvolta nemmeno citati sui testi di storia del cinema, a questi film spetta un ruolo fondamentale per l’evoluzione del film a colori, così come va riconosciuto a Powell e Pressburger la straordinaria abilità e capacità con Scala al Paradiso, Narciso Nero e Scarpette Rosse di aver creato un immaginario cinematografico forse al limite del kitsch, ma in grado di restituire al cinema britannico degli anni trenta e quaranta, quella sfera immaginaria e fantastica per lo più relegata al cinema popolare.
Pubblicato su “Carte di Cinema”, estate 2000, numero 5.
Note:
- Fernaldo Di Giammatteo, Powell e Pressburger. Nella “preistoria” del film a colori, in “Cinema”, 20, agosto 1949, p.79.
- Bertrand Tavernier, Jacques Prayer, Entretien avec Michael Powell, in “Midi-Minuit Fantastique”, 20, ottobre 1968.
- Emanuela Martini, Powell e Pressburger, Il Castoro cinema, La Nuova Italia, Firenze, 1989.
- Raymond Lefebvre, Roland Lacourbe, Entretien avec Michael Powell, in “Cinéma”, 216, dicembre 1976, p.86
- Raymond Lefebvre, Roland Lacourbe, Entretien avec Michael Powell, op.cit.
- Raymond Lefebvre, Roland Lacourbe, Entretien avec Michael Powell, op.cit.