Numero XII – Marzo 2019
Sommario:
- Antonia Arslan, una strada senza fine di Anna Albertano
- Incontro con Antonia Arslan di Anna Albertano
- Opere
- Premi e riconoscimenti
ANTONIA ARSLAN, UNA STRADA SENZA FINE
di Anna Albertano
“Gli armeni non vedono più la loro patria in terra, perché gliel’hanno tolta… è il tema della patria perduta che percorre tutte le comunità armene, ma vedono la patria nel cielo, con quella concretezza che è tipica dell’orientale”
Antonia Arslan
Antonia Arslan, scrittrice e prima ancora saggista e traduttrice, è figlia e nipote di studiosi armeni. Il nonno, Yerwant Arslanian pioniere dell’otorinolaringoiatria, giunge adolescente in Italia, in fuga volontaria dalla sua terra natale, salvandosi così dal genocidio del suo popolo ad opera dei turchi, per mimetizzarsi tronca le ultime tre lettere del cognome, che diventa Arslan. L’educazione infantile di Antonia è tutta italiana, ma sono i racconti del nonno, quando lei ha nove anni, sull’olocausto armeno, attraverso il massacro della famiglia, a partire da Sempad, il fratello del nonno, che viene decapitato, ad essere le prime fonti di apprendimento della propria origine. Docente di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova, è autrice di saggi sulla scrittura femminile che hanno riportato alla ribalta letteraria le scrittrici italiane dimenticate o ignorate del passato. “A me non preme di rivalutare ogni scrittrice solo perché donna: sarebbe ghettizzante e significherebbe rifiutare il confronto” ha affermato, sottolineando l’intento di valutarne l’importanza nel loro contesto, “non come fiori nel deserto … ma come parte strutturata e consapevole della cultura italiana” (1). È l’opera di Daniel Varujan, grande poeta armeno massacrato nel genocidio, di cui traduce le raccolte Il canto del pane e Mari di grano (1992) a farle pienamente riscoprire l’armenità, percorso che prosegue poi, con la traduzione dal francese di Metz Yeghérn. Breve storia del genocidio degli armeni di Claude Mutafian (1996), e con il volume Hushér, La memoria. Voci italiane di sopravvissuti armeni (2000), in cui, insieme a Laura Pisanello, raccoglie le testimonianze degli ultimi sopravvissuti armeni, rifugiatisi in Italia. Nel 2002, assieme a Boghos Levon Zekiyan, cura l’edizione italiana della Storia degli Armeni di Gérard Dédéyan e nel 2003 quella della Storia del Genocidio Armeno di Vahakn Dadrian. La riappropriazione di un’identità culturale armena culmina nel suo primo romanzo, La masseria delle allodole, del 2004, sullo sterminio degli uomini della famiglia Arslanian per mano di soldati turchi nel maggio del 1915, che ottiene in pochissimo tempo un vasto consenso di pubblico e di critica, un successo internazionale divenuto nel 2009 un film per la regia dei Fratelli Taviani. La strada di Smirne, il suo secondo romanzo, del 2009, è la prosecuzione del primo e ha per sfondo la distruzione della città di Smirne del 1922. Ne Il libro di Mush, del 2012, lo sguardo è rivolto alla salvaguardia del patrimonio culturale di un popolo quasi estinto. Ma la questione armena è presente in altre sue opere precedenti, fra cui Il cortile dei girasoli parlanti, del 2011, quale riflesso autobiografico. Ne Il rumore delle perle di legno, del 2015, dedicato alla madre Vittoria, italiana, torna a raccontare del popolo armeno, attraverso la propria famiglia, dove coesistono la cultura armena e quella italiana. Anche Lettera a una ragazza in Turchia (2016) composto di tre racconti, riguarda l’Armenia e attinge alla memoria familiare. Antonia Arslan, si avvale di una sedimentazione di ricordi, peculiarità via via ritrovate di colori, odori e sapori, vero e proprio “deposito di memoria”, per ritessere attraverso vicissitudini e figure conosciute o immaginate, la tragedia armena. Nelle sue narrazioni, che testimoniano il radicamento di un’antichissima civiltà in una terra lontana, sulle tracce del cammino dei sopravvissuti o di coloro che li hanno seguiti e che tornano nei suoi personaggi, ritrova il legame mai spezzato con una lingua perduta. La sua scrittura, felice incontro di autobiografia e invenzione, ha la cadenza e la suggestione del racconto orale, a tratti corale, ma anche la dimensione della fiaba, quando a narrare è lo sguardo dell’infanzia, e le persone intorno, come il nonno, diventano elementi essenziali del paesaggio circostante, “Potevo stare tranquilla nella sua ombra che mi proteggeva come un albero grande, una solida quercia piena di nidi…” (2) Scrittrice di storie d’Armenia che riscoprono e tramandano un passato oscurato, Antonia Arslan da anni è impegnata in conferenze, manifestazioni culturali e incontri con studenti nelle scuole per promuovere la conoscenza del popolo armeno e della sua storia, e divulgarne la memoria.
Note:
1) http://ricerca.gelocal.it/tribunatreviso/archivio/tribunatreviso/2004/03/13/VT1TC_VT101.html
2) Antonia Arslan, Il rumore delle perle di legno (Rizzoli, 2015), p.53
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INCONTRO CON ANTONIA ARSLAN di Anna Albertano
Lei ha insegnato Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova, e ha scritto un saggio sulla narrativa popolare e d’appendice fra Ottocento e Novecento, e poi un altro sulle scrittrici italiane tra il 1861 e il 1914, l’Unità d’Italia e la prima guerra mondiale, indagando un territorio sconosciuto o dimenticato che è appunto la scrittura di donne italiane. Può parlare di queste sue ricerche pioneristiche?
Appartengono al mio periodo di insegnamento all’università, sono state una serie di ricerche, facendo collaborare alcuni miei studenti, che mi portarono dapprima a occuparmi del romanzo popolare, con un libro che devo dire ebbe un notevole successo, che ho intitolato Dame, droga e galline. Il romanzo popolare italiano tra Ottocento e Novecento. Questo libro fu in certo modo un apripista, perché mi fece man mano polarizzare una serie di ricerche sulle scrittrici che erano grande parte di questa onda di romanzo popolare che si era molto diffuso in Italia dopo il 1861 con l’Unità d’Italia, quando cominciano a fiorire i giornali, e comincia ad esserci una stampa periodica, ci sono moltissime donne che collaborano e che fanno di questo praticamente il loro mestiere, cioè diventano professioniste della scrittura. E così ho iniziato a occuparmi proprio di queste voci femminili, molto importanti alla loro epoca, niente affatto sottovalutate, anzi rispettate dai loro colleghi uomini, come Neera, la scrittrice milanese che usa questo pseudonimo, non per timidezza ma per distinguere pubblico da privato, e si chiamava in realtà Anna Radius Zuccari, come Antonietta Torriani, che poi sposa Eugenio Torelli Viollier, fondatore del “Corriere della sera” e diventa una scrittrice all’epoca notissima, collabora al “Corriere”, è amica di Carducci, scrive almeno un paio di romanzi veramente interessanti. Così Neera, così Matilde Serao, così Caterina Percoto, friulana, scrive novelle straordinarie, tra le più belle dell’intero Ottocento italiano, e questo man mano mi ha fatto capire che c’era una vasta zona della letteratura italiana del secondo Ottocento che era messa in ombra perché scritta da donne. A me non interessava –e questa è una cosa che ripeto quando ancora oggi faccio alcune conferenze sull’argomento-, fare un discorso di rivendicazione al femminile, mi interessava piuttosto riprenderle in mano, ricollocarle all’interno di tutta la cultura del secondo Ottocento, di cui erano figure rispettate, ascoltate, addirittura blandite perché spesso in condizioni di grande responsabilità. Matilde Serao dirigeva giornali, lo stesso faceva Neera, la Torriani scriveva con lo pseudonimo di Marchesa Colombi, poi Vittoria Aganoor, la poetessa, ecco senza fare tutti i nomi, avevano salotti, distribuivano anche in un certo senso delle patenti di buona scrittura, forse esagerando un po’, ma quello che intendo dire è che io le ho chiamate poi la galassia sommersa perché erano tante, e questo ci fa capire che erano una componente importante della letteratura della nuova Italia, cioè dell’Italia che ormai essendo unita aveva la possibilità di giornali diffusi, di una forte e vivace vita intellettuale, Milano, Roma, Napoli per citare tre caposaldi della cultura dell’epoca. Napoli fioriva moltissimo all’epoca, molti giornali nascevano e morivano naturalmente, però ce n’erano tanti a periodicità mensile, settimanale, trisettimanale, c’erano le strenne, gli almanacchi, i romanzi, saggistica, critica d’arte. Ad accorgersene subito delle scrittrici furono naturalmente Verga, Capuana, frequentavano gli stessi salotti, e Benedetto Croce che scrisse alcuni importanti saggi su di loro. Io poi dai vari saggi che ho scritto su questo argomento, ristampe di opere, ho preso in mano l’archivio della scrittrice Neera a Milano e ho pubblicato diverse importantissime corrispondenze di lei, per esempio con Capuana, ho trovato le lettere di lei a Capuana, io avevo quelle di Capuana a lei, quando ricostruisci un carteggio integrale viene proprio fuori tutto, un ambiente, una cultura, e alla fine ho scritto molti saggi sull’argomento, ho pubblicato diversi carteggi, ho ristampato diversi romanzi, e poi ho pubblicato questo libro diciamo che è un po’ la somma di tutto, che si intitola Dame, galline e regine. La scrittura femminile italiana fra ‘800 e ‘900.
Alcune sono conosciute, si studiano, altre, forse la maggior parte, per nulla. È stata una dimenticanza dell’editoria o dell’accademia?
Accademia prima di tutto, perché proprio dopo la loro morte vengono isolate e volutamente dimenticate, non più ristampate e declassate a scrittrici rosa. Poi l’editoria si adegua.
Da dove ha tratto il titolo?
Il titolo l’ho inventato io ed è una delle mie più felici invenzioni, perché ha fatto sì che questo libro poi venisse recensito immediatamente. Se avessi messo il titolo Il romanzo popolare italiano fra Ottocento e Novecento, avrebbe circolato solo nell’ambito ristretto degli specialisti. Il titolo Dame, droga e galline ha fatto sì che in quell’anno è stato recensito da tutti i giornali italiani in pratica, Umberto Eco in testa, che aveva cominciato a occuparsi di quell’argomento, ma noi avevamo fatto il libro intero, e lui l’ha molto apprezzato, l’ha adottato come testo, perché era anche di moda l’idea, fatto da quindici studenti e dalla loro professoressa, era nel ‘77, faceva notizia.
L’intento era provocatorio…
Sì, certo, allora Dame perché ce ne sono dappertutto in questi romanzi, grandi dame, dame pietose, dame cattive, dame buone e così via. Galline per capovolgere la celebre definizione di Gramsci a proposito di Carolina Invernizio, che lui ha definito “onesta gallina della letteratura popolare” proprio così, allora io l’ho lasciato, perché ritengo che sia una forma di arroganza intellettuale, perché una scrittrice come la Invernizio è stata letta da quattro o cinque generazioni di italiane, e certamente ha influito di più, con tutto il rispetto, che non il pensiero dal carcere di Gramsci, sui costumi, sulle idee delle persone. Naturalmente, nel caso della Invernizio, non si parla di valore dell’opera, si parla di diffusione, di influenza sui modelli di comportamento, sull’ascesa delle donne italiane che cominciavano a emanciparsi, ad avere abbastanza tempo libero da poter leggere e anche sognare attraverso la lettura e quindi in qualche modo innalzarsi socialmente, se non altro nel desiderio, e questo certamente è un compito che la letteratura popolare ha svolto. Bisogna pensare che le appendici, si dice popolare e d’appendice perché di solito venivano pubblicate nei feuilleton dei giornali, un giornale in prima pagina aveva il suo feuilleton, cioè un riquadro con la sua puntata del romanzo, e questo ha diffuso anche la stampa, la grande diffusione della stampa periodica in Italia dopo l’Unità è dovuta alla alfabetizzazione, che comincia finalmente ad essere affrontata con le scuole elementari e le medie, alla potente aspirazione femminile a guardarsi intorno, a crescere emotivamente, psicologicamente, e diciamo intellettualmente. E la droga, del primo saggio, è dovuta ad uno scherzo nostro, la droga nell’Ottocento era libera, esistevano fumerie d’oppio, il laudano veniva usato moltissimo, per calmare i nervi, per calmare le forme di isteria, soprattutto femminili, il romanzo Giacinta di Capuana ne è un esempio. E in uno dei romanzi che coi miei studenti abbiamo analizzato, c’era un gatto cocainomane, se non aveva la sua dose diventava cattivissimo, allora ci siamo tanto divertiti. Il gatto cocainomane è in un romanzo di Annie Vivanti.
Attraverso la traduzione del poeta armeno Daniel Varujan e la cura di volumi sul genocidio degli armeni, sulla storia armena, su testimonianze di sopravvissuti, ha ritrovato la sua “armenità”. Per lei, docente universitaria con formazione italiana, discendente da una famiglia di studiosi e medici armeni da più generazioni in Italia, è stata una riscoperta delle sue origini, probabilmente l’esigenza non più prorogabile di dar voce ad un passato che la riguarda. Lei udiva questa lingua in casa, faceva parte delle sonorità della sua infanzia, o è una lingua che è rimasta fuori dalle pareti domestiche, soprattutto dal suo orizzonte culturale abituale?
Bella domanda, lei ha messo il dito su una cosa importante, che nessuno mi ha mai chiesto. Sì io sentivo le sonorità della lingua, la sentivo parlata, perché arrivavano parenti, la famiglia è stata quasi distrutta nel genocidio ma non tutta, cioè i fratelli, i fratellastri di mio nonno che stavano in Siria, ad Aleppo, a Damasco, ogni tanto venivano in Italia, altri dall’America, la famiglia è in diaspora come succede a tutte le famiglie armene, e questi parlavano in armeno. Io fin da bambina ho sentito, ho imparato a riconoscere le sonorità, i timbri, le cadenze della lingua armena, ma non la lingua, perché nella nostra famiglia in certo modo non è stato mai favorito l’apprendimento della lingua, e così quando io mi sono trovata di fronte a Varujan, che non era ancora stato tradotto in italiano, tranne due o tre poesie negli anni quaranta o in precedenza, traduzioni molto datate, io ho sentito traduzioni in inglese e francese di alcune poesie di Varujan, ho letto qualcosa su di lui e ho avuto come una improvvisa -naturalmente preparata da tempo, ma dico improvvisa perché mi si è maturata diciamo nella mente e nel cuore in pochissimo tempo-, chiamata verso l’impresa di tradurlo, che è stata un’impresa un po’ folle perché appunto conoscevo le sonorità ma non conoscevo la lingua. Se lei guarda il libro che ho tradotto di Varujan, in realtà i libri sono due poi (Il canto del pane e Mari di grano, ndr), la traduzione è stata fatta con altre due persone, una laureata in lingua e letteratura armena a Venezia, e un altro armeno bravissimo che proveniva dall’Iran, un filologo nato. Abbiamo fatto un lavoro certosino, di lettura a voce alta delle poesie, di traduzione letterale che mi facevano tutti e due, poi dopo io le mettevo insieme e poi me le recitavano tutti e due, io mi sentivo proprio trasportata verso la resa italiana di queste poesie e così alla fine è venuto fuori un testo di cui sono molto fiera, è stato apprezzato e approvato da importanti studiosi di armenistica, mi hanno detto che praticamente è senza errori, quindi è evidentemente una bella soddisfazione, ma è stato anche un lungo, lungo lavoro, che però mi ha aperto le porte dell’“armenità”.
Il popolo armeno è tra i più antichi popoli civilizzati dell’Asia occidentale, il primo popolo cristiano della storia. ll Genocidio armeno ad opera dei turchi ottomani, iniziato nel 1894, è culminato nel 1915 e proseguito fino al 1922. Il Metz Yeghérn, il “Grande Crimine” è stato riconosciuto dal Parlamento italiano, sulla scia di altri Paesi e istituzioni internazionali ed europee quali la Francia, la Grecia, il Vaticano e l’Unione Europea. Può ricordare in termini di perdite umane questo massacro?
Il genocidio armeno è stato riconosciuto in seguito da molti altri Paesi, ultimo dall’America del Sud, dalla Germania, in totale oggi i Paesi che hanno riconosciuto il genocidio armeno ufficialmente sono almeno 24 o 25, più quasi tutti gli Stati Uniti, non i Presidenti ufficialmente, ma i Parlamenti dei singoli 50 Stati degli Stati Uniti d’America. In termini di perdite, di cifre che oggi la maggioranza assoluta degli storici dà come ormai sicure, sono tra un milione e quattrocento e un milione e cinquecento. Come dico sempre anche quando vado nei licei, nelle scuole, ciò che è molto importante è la proporzione, un milione e mezzo di morti è una cifra terribile, ma l’intera minoranza armena all’interno dell’Impero ottomano era di poco più di due milioni, dunque si tratta dei tre quarti.
Ormai è sempre più frequente l’accostamento che viene fatto fra il genocidio armeno e quello ebraico. Perché è stata decisa da parte dei Giovani Turchi l’eliminazione degli armeni dal territorio che abitavano, l’Anatolia Orientale?
Abitata in maggioranza, o forte minoranza dagli armeni era appunto l’attuale Anatolia Orientale, che allora si chiamava Armenia occidentale, l’Armenia Orientale è quella che esiste ancora oggi sul Caucaso, distaccata sotto il dominio russo prima e sovietico poi, è l’attuale Repubblica Armena. Ebbene per rispondere con libertà a questa domanda ci vorrebbero due ore, però io dirò solo due cose e il riferimento a un libro. Gli armeni, come le altre minoranze cristiane e non cristiane, ma minoranze di sangue come i curdi, erano all’interno dell’Impero Ottomano nella condizione di Dhimmi, Dhimmitudine, cioè considerati comunque popoli inferiori, che non avevano certi diritti, ma a cui erano anche garantite certe autonomie all’interno della loro comunità. Questa situazione, che era tipica di un impero multietnico come l’Impero ottomano, si frantuma con l’avvento dei Giovani Turchi nel 1908, che era un partito laico, ateo e composto nella sua origine da ufficiali dell’esercito turco, dei giovani ufficiali che avevano come formazione culturale la filosofia tedesca dell’Ottocento, e questo li ha portati ad accettare e a voler verificare quasi sul campo le tesi di prevalenza dello Stato sull’individuo: per la salvezza del nostro Stato, eliminiamo le minoranze, gli individui singoli che le compongono, non ci interessano. Tutto questo poi, si è ripetuto con gli ebrei, perché gli ebrei diventano un’altra minoranza che assume un segno negativo, anche perché in tutto il tardo Ottocento gli armeni sono visti all’interno della Germania imperiale del Kaiser come gli ebrei del Medio Oriente, capisce? Cioè minoranze attive, industriose, che vengono additate come nemici per trovare un capro espiatorio. Tra l’altro, essendo la Germania alleata alla Turchia nella Prima Guerra Mondiale, molti ufficiali e soldati dell’esercito tedesco erano in Anatolia, hanno assistito alle deportazioni armene, e non sono intervenuti. Se questa complicità sia stata solo passiva o anche attiva, come sta venendo fuori negli ultimi anni, lo diranno gli storici, che ci stanno lavorando. Comunque c’è un libro, appena uscito, proprio su questo argomento, della studiosa Siobhan Nash-Marshall intitolato I peccati dei padri, Negazionismo turco e genocidio armeno. Negli ultimi vent’anni, gli studi sulla tragedia armena si sono moltiplicati, non solo perché oggettivamente fu una grande tragedia, ma per la sua valenza di primo genocidio del XX secolo, diciamo che purtroppo ha indicato una strada, che è stata poi percorsa da Hitler. Hitler ha pronunciato la famosa frase nel ’39: “Noi possiamo fare quello che vogliamo, chi si ricorda oggi dello sterminio degli armeni?”, e lo ha detto ai suoi collaboratori, perché tutti in Germania sapevano cosa era successo con gli armeni.
La sua famiglia è stata in gran parte sterminata dai turchi. Dopo aver scritto nel 1998 il racconto Il nido e il sogno d’Oriente, nel 2004 scrive La masseria delle allodole, romanzo ispirato ai racconti di suo nonno, in cui, attraverso il massacro della sua famiglia, racconta lo sterminio del popolo armeno, romanzo che ha avuto un’enorme fortuna in Italia ed è stato premiato e tradotto in tutto il mondo. Lei ha detto che per trasformare in narrazione un evento come il genocidio era essenziale l’emergere di un nucleo emotivo. È prevalso in lei l’aspetto autobiografico, nel riportare un ricordo indiretto di qualcosa che la toccava da vicino, o la scelta di una forma efficace per raccontare e tramandare una storia collettiva? Nella Masseria delle allodole c’è un respiro narrativo che va oltre la testimonianza e assume la forma di narrazione corale.
Ha ragione, è un romanzo, non è un memoir, io ci tenevo molto a fare questa distinzione, perché come lei dice è una narrazione, e ha la forma di un romanzo, le storie oggi si raccontano attraverso romanzi. Ogni essere umano ama le storie, ma ogni epoca ha le sue forme, io avevo i racconti del nonno, li avevo sì come deposito interno, personale, non negati, non dimenticati ma diciamo depositati, ed era qualche cosa che avrebbe potuto rimanere lì, ma sia la lettura e la traduzione soprattutto di Varujan che poi dei concerti di musica armena che ho sentito, sa, la musica a volte è una potente stimolatrice, e qualche altro episodio, mi hanno in qualche modo tolto via la polvere da quei racconti e mi hanno fatto capire che da un lato sentivo il bisogno di raccontarli, un bisogno di testimonianza, certo indiretta, ma che doveva calarsi in una forma che ben conoscevo, cioè la forma romanzo, ma nello stesso tempo non volevo assolutamente che fosse un romanzo scritto da un professore, capisce? Queste sono cose che un po’ alla volta maturano dentro, è maturata dentro di me questa necessità di raccontare, per me prima di tutto, ero io che ne avevo bisogno, poi è venuta anche la valenza del libro, quasi come un rapporto di ciò che era avvenuto, ma soprattutto come la nascita di, diciamo di proposte di carattere, di persone, che hanno attraversato quelle cose, esseri umani e quindi del loro interagire, com’è poi la vicenda, come nasce qualsiasi romanzo che sia autentico, ecco.
In quanto tempo ha scritto questo romanzo?
Indirettamente diciamo in cinque o sei anni, poi, quando finalmente sono riuscita a cominciare a scrivere, e quello è stato il punto più difficile, perché non ero sicura di riuscire a evitare il linguaggio accademico e di raccontare veramente, mi son detta: alla fine sei una cantastorie, è la storia del nonno, è la storia che devi raccontare, e grazie a un’amica che mi ha spinta a cominciare, improvvisamente ho messo semplicemente la penna su un foglio e ho cominciato, ho cominciato proprio dall’inizio.
Nelle testimonianze di sopravvissuti, spesso prevale l’orrore che ogni volta, chi ha attraversato una esperienza di questo tipo, necessariamente riattraversa, mentre forse avere come fonte ricordi familiari, quindi vicini, ma senza averli vissuti direttamente, ha consentito quella distanza necessaria per raccontare una materia così drammatica.
Certo, è proprio così, perché le persone che hanno vissuto qualcosa e poi lo raccontano, spesso hanno fra l’altro dei salti temporali. Mentre in un romanzo devi far confluire tutto, in una storia che il lettore capisca e che segua volentieri, non puoi saltare l’età dei personaggi o dei mesi senza spiegarlo, se leggi il racconto di un sopravvissuto, ad esempio di un bambino, spesso è molto fedele su tutte le cose che racconta tranne che sul passaggio del tempo, perché, mettiamo, un bambino di cinque anni non sta a ricordarsi se sono passati tre o sei mesi.
Ha ritrovato lo spirito del suo romanzo nel film che ne hanno tratto i fratelli Taviani?
Sì, di quel film sono molto contenta, conoscevo il lavoro dei fratelli Taviani, e mi hanno cercata loro, dicendomi che volevano fare il film. Io ho rispettato la loro professionalità, cioè ho detto che non intendevo in alcun modo inserirmi nella sceneggiatura perché loro dovevano scegliere, vedere cioè dei vari episodi del libro quale li interessava, il che è inevitabile, in un film devi lavorare con le immagini, mentre in un libro lavori con le parole scritte. Mi sono solo riservata il diritto di controllare la sceneggiatura una volta finita, per vedere che non ci fossero errori storici, personaggi con nomi magari strani, cioè quel tipo di cose in cui potevo collaborare. Poi gli ho dato dei suggerimenti su cose che appunto io conoscevo, per esempio la musica armena, loro non la conoscevano, la musica è per gli armeni una delle espressioni più originali della cultura, hanno fatto un bellissimo lavoro sotto questo aspetto, ho indicato io la cantante di un famoso brano, loro invece hanno ritrovato la canzone di cui io ricordavo solo le parole. Poi, per qualche altra cosa, ci siamo sentiti, tenuti in contatto, ma io assolutamente non ho voluto interferire sul film, perché volevo che riuscisse come film.

La masseria delle allodole di Paolo e Vittorio Taviani
Della realtà armena il cinema è stato a lungo il principale mezzo di diffusione, oltre a riuscire a raggiungere un pubblico a diverse latitudini, restituisce visivamente, con immediatezza, aspetti di un territorio e di una cultura sconosciuti. Le opere, fra gli altri, di Paradjanov e di Atom Egoyan, hanno fatto conoscere l’Armenia sugli schermi internazionali. La masseria delle Allodole dei Taviani è forse il primo film a raccontare il genocidio armeno, e ha avuto una grande risonanza.
Certo, i film sono un potente mezzo di trasmissione di informazioni, quando La masseria delle allodole viene presentata, io lo raccomando sempre nelle scuole e dico, vengo volentieri, in un liceo, ormai solo le quarte e le quinte perché non è che possa far proprio tutto, però voi prima gli fate vedere il film, così da un lato insegnate agli studenti a distinguere il linguaggio scritto dal linguaggio visivo e poi se ne parla. Questo suscita moltissimo interesse negli studenti.
La strada di Smirne, è il secondo libro che ha dedicato alla storia armena. Uscito nel 2009 è la prosecuzione della Masseria delle allodole.
Sì, l’avevo in mente fin dall’inizio perché ho sempre pensato e anche da informazioni familiari sapevo che la tragedia fisicamente come morte, come sangue, avviene fra il 1915 e il 1916, un milione e mezzo di morti, c’erano valli intere in cui la puzza dei cadaveri le rendeva infrequentabili dai pastori, ma dopo, cosa è successo dopo? La guerra dura ancora, perché io penso sempre che le date sono anche importanti, il genocidio fisico avviene tra il ’15 e il ’16, con una coda terribile nel ’16, poi il ’17 e il ’18 quasi per intero sono ancora anni di guerra. Cosa è successo degli armeni sopravvissuti? E dopo, dopo la fine della guerra, cosa è realmente successo? Avevo delle informazioni in famiglia, ma poche, perciò ho studiato moltissimo per scrivere La strada di Smirne, ho lavorato a lungo perché dovevo trovare anche tutta la cornice storica, l’incendio di Smirne è stato l’atto definitivo della scomparsa di tutte le minoranze d’Anatolia, ma in Italia di quella tragedia praticamente nessuno se ne è mai occupato. Mentre facevo le ricerche avevo solo dei testi inglesi, francesi e tedeschi, quello che potevo leggere era in queste tre lingue, soprattutto in inglese. Per fortuna proprio allora è uscito un libro, la tesi di dottorato di uno studioso francese che era andato a leggersi le testimonianze registrate o trascritte ma mai pubblicate degli esuli greci da Smirne, quelli che sono stati cacciati nel famoso trasferimento di popolazioni nel 1921-1922, quindi una miniera, lui ripercorre tutti i giorni della fine di Smirne, uno per uno, ha praticamente raccontato l’incendio giorno per giorno, cosa succedeva il giorno tale, quali strade venivano messe a fuoco, cosa facevano i soldati turchi, perché, per esempio, per tre giorni Mustafa Kemal Atatürk non fa niente, perché aspettava che il tempo cambiasse, quando il vento è cambiato, il vento che poteva spingere le fiamme verso i quartieri cristiani, allora hanno dato fuoco. E lui, Hervé Georgelin (1) ha collegato tutti i dati, tutti i fatti anche con le testimonianze che sono ad Atene, e che non sono mai state stampate dei sopravvissuti. È diciamo un diario, quindi un canovaccio stupendo per me, e su quello io ho fatto agire i personaggi. Avevo la progressione assolutamente precisa, tutti i quartieri sono stati messi a fuoco, prima di tutti il quartiere armeno, perché c’erano numerosi armeni a Smirne, e poi tutti i quartieri greci, sono stati salvati solo quelli turchi, e tutta la prospettiva della Smirne ottocentesca che era stata costruita ispirandosi un po’ alla Parigi del Barone Haussmann della fine del secolo è stata distrutta. Ecco perché Smirne è una città totalmente nuova oggi.
La strada di Smirne ha per sfondo la distruzione della città di Smirne, che ha significato l’abbandono dell’Asia Minore delle comunità greche che vivevano lì da millenni. Sotto l’Impero ottomano convivevano culture diverse. Una composizione multietnica e una certa tolleranza che con la Turchia di Atatürk è venuta totalmente a mancare.
L’Impero ottomano, cioè i primi sultani erano gente molto intelligente, a partire da Maometto II che aveva 18 anni quando ha conquistato Costantinopoli, hanno stabilito da subito un controllo ferreo delle minoranze, ma anche il permesso alle minoranze di sopravvivere, perché fornivano una quantità di conoscenze, di relazioni, di potenzialità per l’impero che era prezioso. Le chiamavano le millet, millet vuol dire nazione, la millet armena, la millet greca, diverse insomma, allora all’interno di una millet c’era un minimo di autonomia. Smirne era una città assolutamente multietnica come si dice adesso, circa mezzo milione di abitanti, la maggioranza erano greci, poi c’erano 60.000 armeni, perché gli armeni di Smirne non erano stati eliminati durante il genocidio per volontà di un comandante tedesco, che non voleva che la popolazione armena della città di Smirne da lui governata fosse deportata. Questo dimostra comunque la complicità dei tedeschi, gli ufficiali e i soldati tedeschi erano giunti in Anatolia per riorganizzare l’esercito turco che era praticamente allo sbando, arrivarono già alla fine del 1914, e c’era spesso un comandante tedesco a capo dei turchi. Il comandante tedesco della piazza di Smirne era il generale Liman von Sanders, quando cominciò lo sterminio degli armeni, lo sterminio scientifico, von Sanders proibì che i suoi armeni venissero deportati. C’era un sopravvissuto in Italia morto da poco, aveva quasi cent’anni, che era sul treno che li stava conducendo verso la deportazione, a qualche chilometro fuori di Smirne il treno è stato fermato e riportato indietro, quindi sono stati salvati, e così altri armeni fuggiaschi da altrove, che in qualche modo sopravvissero, si rifugiarono a Smirne, dove per un po’ si salvarono, sono rimasti fino a quando la città è andata in fiamme. Smirne nel ’19 era stata conquistata da un esercito greco, questo è un altro dettaglio di quegli anni tumultuosi. La povera Grecia, infatti, piccolissima e provata dalla guerra è stata trascinata, lanciata dai suoi governanti in un’avventura bellica, la chiamarono la Megali Idea, la grande idea del sogno di riprendersi Costantinopoli, naturalmente non ce l’hanno fatta.
A Smirne, oltre a greci e armeni, c’erano ebrei sefarditi, italiani. Quali erano i rapporti fra quelle minoranze?
Nell’Impero ottomano erano quattro le etnie, armeni, curdi, assiri e greci. A Smirne c’erano greci, armeni, molti ebrei e tutto il gruppo di origine italiana dei levantini. Fra loro c’era sempre un po’ di rivalità, perché comunque sei una minoranza, sei in uno stato di soggezione, il sultano potrebbe toglierti una protezione a favore di un’altra ogni volta che vuole, quindi chiaramente le varie minoranze rivaleggiavano un po’ fra loro, ebrei con greci, greci con armeni e così via, ma di fronte poi alla tragedia e al pericolo incombente, hanno fatto anche fronte comune.
I turchi si sono avvalsi dei curdi per sterminare gli armeni…
Certo, c’era diciamo una difficile convivenza tra i curdi, che erano pastori, abitavano sulle montagne, e i contadini armeni delle pianure dell’est, parlo dell’estremo est dell’Anatolia. I curdi spesso esigevano vagamente una specie di jus primae noctis, portavano via le ragazze poi le riportavano la mattina dopo e gli armeni si acconciavano anche a questo, perché tendenzialmente come popolazione ormai erano piuttosto sottomessi e molto miti, poi ogni tanto i curdi si portavano via un po’ di pecore, un po’ di capre, un po’ di raccolto e così via. Questa convivenza diventa peggiore man mano che l’Impero ottomano perde pezzi nell’Ottocento, la Grecia all’inizio dell’Ottocento, col Trattato di Adrianopoli e poi più avanti, l’Egitto, la Bulgaria, la Romania, i Balcani, il Montenegro, l’Impero si sente sempre più minacciato e gli armeni sono purtroppo annidati nel centro dell’Anatolia, e non chiedono l’indipendenza, badi bene, non la chiedono, chiedono un minimo di autonomia, ma la situazione va via via peggiorando, e i curdi vengono usati alla fine come manovalanza contro gli armeni. Infatti il parlamento curdo in esilio a Bruxelles, qualche anno fa ha chiesto ufficialmente scusa agli armeni, ci sono state le scuse ufficiali dei curdi, sia da parte dei singoli, grandi personalità, che del loro parlamento. Va aggiunto poi che i curdi, come ho cercato di raccontare, erano organizzati in forma “clanica”, di clan, quello che dice il capo si deve eseguire, e ci sono alcuni celebri episodi, emersi recentemente, di capi clan curdi che hanno invece deciso di salvare gli armeni, per esempio sulla montagna del Dersim, nel mio ultimo libro (La bellezza sia con te, ndr) in un racconto di invenzione, alludo a questo.
Il Libro di Mush, uscito nel 2012, racconta di due donne che tra le rovine fumanti di un monastero durante la persecuzione turca, scoprono un antico manoscritto di sermoni e decidono di salvarlo, perché continui a testimoniare la cultura del loro popolo. Le donne sono sempre protagoniste delle sue opere, le donne armene erano alfabetizzate, e qui hanno un ruolo preponderante, nel preservare, salvaguardare, tramandare la cultura armena.
Sì, è il grande tema questo, un tema che cova sotterraneo attraverso tutto quello che scrivo, cioè il fatto che gli uomini venivano uccisi, per fortuna avevano sempre coltivato anche la cultura dell’istruzione, cioè dell’istruzione femminile, alle elementari e poi spesso anche alle scuole superiori, quindi anche le due povere donne del Libro di Mush, sono due donne del popolo però sono consapevoli dell’importanza dei manoscritti. Questa è proprio storia, non memoria familiare, avevo avuto l’invito a scrivere un piccolo libretto di una collana per la Skira, e quindi ho scritto questa storia bellissima, le due donne sanno leggere e quando trovano per terra questo libro, un manoscritto del 1202, concepito come il più grande manoscritto armeno esistente, alto un metro e del peso di 30 chili, lo dividono in due, io penso fossero più di due persone, perché non ti puoi portare su e giù 15 chili sulle spalle e da sola, e ho pensato che ci fossero un paio di greci, quindi li ho messi, però la base della storia, di queste due donne che salvano il libro è sicura e il libro esiste, esiste nella grande biblioteca del Matenadaran che è la biblioteca dove sono conservati migliaia e migliaia di manoscritti armeni sopravvissuti alla tragedia o salvati da donne, in questo modo, o nascosti nelle vesti. Il manoscritto è lì, esiste ed è stato ricomposto dai due pezzi ritrovati.
Il 24 aprile è il giorno della memoria del genocidio armeno. In Italia viene celebrato?
Viene ricordato a Roma, Milano, Padova e qualche altra città, dipende un po’ anche dai sindaci, dall’amministrazione, non è ancora una data così ufficiale. Sempre tenendo conto dell’ostinata, pervicace, pervasiva posizione del governo turco, il negazionismo è ancora oggi attivo, e come ha scritto la mia carissima amica e collega Siobhan Nash Marshall nel libro che ho citato prima, I peccati dei padri, Negazionismo turco e genocidio armeno, il negazionismo è l’ultima parte del genocidio, perché chi compie un genocidio vero lo nega fin da subito, non viene mai ammesso, si dice che si fa una pulizia, che si sposta una popolazione, che si rieducano i kulaki, che si potenziano i contadini, qualsiasi cosa, non si ammette mai che c’è un genocidio in atto, e nel caso specifico purtroppo della Turchia, a differenza di altri genocidi del XX secolo, il negazionismo è ancora presente ed è l’ultimo atto del genocidio. Il Parlamento europeo per tre volte ha sancito che la Turchia non poteva entrare nell’Unione europea se non riconosceva il genocidio armeno. Leggevo l’altro giorno la trascrizione in francese di un articolo di un giornalista turco, professore universitario, su un giornale turco, in cui ancora una volta si ribadiva che il genocidio non c’è stato, che bisogna lottare contro gli armeni, questo sputo di nazione, di 3 milioni di abitanti. In Turchia ci sono 75 milioni di abitanti e ancora non permettono di sanare questa ferita storica, è veramente una cosa terribile, lo dico sempre con un certo fatalismo e con una certa tranquillità, ma capisco bene che persone che parlano l’armeno, che sono inserite nelle grandi comunità americane, francesi, veramente non ne possono più, sta riaggravandosi la situazione, perché negli anni scorsi, soprattutto da parte della classe intellettuale turca, c’era stata una notevole presa di posizione, per esempio in un bellissimo libro, Hasan Cemal, nipote di uno dei protagonisti, dopo un lungo percorso personale, è giunto a riconoscere il genocidio e quindi la responsabilità di suo nonno, Cemal Paşa, un libro che si intitola 1915: Ermeni Soykırımı, che in turco vuol dire genocido armeno, sono riuscita a farlo tradurre (2).
La coscienza del genocidio armeno a quando risale? Si parla di un silenzio durato una sessantina di anni.
Sì, il silenzio è dovuto però a motivi assolutamente politici, cioè al fatto che mentre per la tragedia della Shoah il Tribunale di Norimberga, i giudizi di Norimberga non sono mai stati dimenticati, anche se un periodo di eclissi un po’ c’è stato, per quanto riguarda gli armeni c’è stato, con la complicità delle potenze occidentali, un voluto silenzio che è durato dal Trattato di Losanna del ’21 fino a praticamente quando la terza generazione ha cominciato a rendersene conto, a voler parlare, ma sono stati silenziati, dovunque, e nelle grandi comunità di Francia, degli Stati Uniti si sono parecchio chiusi in se stessi, così hanno conservato la cultura e la lingua, ma si sono anche un po’ isolati. In Italia è una cosa molto particolare, perché in Italia le persone di origine armena sono circa 4.000, quindi fra persone di origine armena e armeni al 100%, che magari sono arrivati di recente, forse un po’ più di 3.000 ma non si arriva alle 5000, rispetto ai 60 milioni di italiani sono proprio una goccia, perché chi arrivava in Italia, c’è stato il gruppo di Venezia, di Padova, per via dell’Isola degli Armeni a Venezia, di solito con i bambini, venivano poi trasferiti verso la Francia. Nessuno di noi ha avuto scuole armene, nessuno di noi ha avuto un’educazione né chiese perché chiesa e scuola sono le due basi nella conservazione dell’identità armena.
La presenza culturale armena in Italia è antica, a Venezia c’è l’isola di San Lazzaro degli Armeni, nella città di Venezia si celebrano messe con rito armeno. A Bologna la Mappa Armena della Biblioteca Universitaria venne commissionata nel 1691 da Luigi Ferdinando Marsili, un nobile bolognese, per documentare chiese e monasteri della “prima nazione cristiana”…
Sì, ha ragione, perché Venezia e gli armeni hanno una storia che dura dall’anno mille, c’è un bel libro intitolato La Venezia degli armeni. Sedici secoli tra storia e leggenda di Aleramo Hermet che racconta proprio di questo rapporto di Venezia, della Repubblica di Venezia con questo popolo che viveva in Oriente ma che era molto volto a Occidente, infatti lo chiamavano il “popolo ponte” tra Oriente e Occidente, popolo di mercanti, scienziati e studiosi. Il primo libro in lingua armena è stato pubblicato a Venezia nel 1512 per esempio, il primo rifugio per gli armeni fu creato da un doge verso l’anno mille, quindi lei ha perfettamente ragione, Venezia è così, noi andavamo alla messa di Pasqua, però per tutte le altre messe dell’anno non c’è una chiesa armena a Padova, come non c’è a Torino, non c’è a Bologna, c’è solo a Milano e allora gli armeni che volevano andare in chiesa, andavano in una chiesa di rito latino, ovviamente. La Mappa Armena di Bologna, bellissima, era in un angolo della biblioteca, la trovò la mia cara amica e collega che adesso è morta, Gabriella Uluhogian, è stata presentata al Met di New York, nella mostra che è ancora in corso, si chiama proprio “Armenia” e hanno fatto bene, da quella mappa si vede quante chiese, monasteri, quanti edifici c’erano, appartenenti agli armeni in tutta la Turchia, mentre adesso vorrebbero negare che ci siano mai stati. Questa è la cosa davvero terribile.
Lei va spesso nelle scuole, non vede il rischio che la memoria storica perda importanza, per il disinteresse collettivo per la storia, a cominciare dalla scuola?
Sì, certo che sta perdendo importanza, perché storia e geografia che sono collegate le fanno così male che questi poveri ragazzi sono persi. Ma io credo che la tragedia armena, le tragedie dei genocidi possano arrivare solo attraverso l’insegnamento di storia e letteratura, attraverso libri e film che la raccontino, dopo studiano i libri. Infatti io ho fatto pubblicare un libretto sul genocidio armeno, piccolino, una trentina di paginette, essenziale, per gli studenti, e sono tanti, che dopo aver letto la Masseria e magari visto il film, vogliono approfondire, fanno le tesine, spesso sono molto interessati. In due licei di Roma l’anno scorso, a maggio, mi hanno fatto domande per tre ore di seguito per esempio, non tutti i licei sono così. Quelli avevano insegnanti eccellenti, ovviamente dipende un po’ tutto da questo, oggigiorno ti trovi dei ragazzi che ti chiedono se la Russia è grande perché non hanno idea di quanto grande sia la Russia, nessuno glielo ha mai detto.
Di cosa parla il suo ultimo libro La bellezza sia con te?
La bellezza sia con te è un libro diverso, è un libro che mi è venuto in mente perché ho raccolto diversi racconti brevi e più lunghi che avevo scritto per dei periodici online o per occasioni particolari, dove erano stati letti e magari pubblicati, e allora ho cominciato a metterli un po’ insieme, su un grande tavolo, li spostavo, e poi mi è venuta in mente l’idea, in tutti c’è l’aspirazione alla bellezza, alla bellezza come autenticità, come profondità in se stessi, in tante persone c’è questa bellezza nascosta che riemerge, quando le guardi davvero, e così i testi si sono riordinati quasi da soli. Allora ho scritto un racconto intitolato Il ritorno dei magi, che è di ambiente armeno, di Re magi che tornano, ma non tornano per la stessa strada, come dice anche il Vangelo, ai loro paesi della Persia, tornano attraverso un’altra strada, che secondo una leggenda è l’Armenia, e poi diversi altri racconti, collegati fra loro da mie poesie, ballate che ho scritto ma mai pubblicate, e l’inizio è su una sosta alla stazione. Io amo molto le stazioni dei treni, ci vado spessissimo, ne conosco talmente tante in Italia. Alla stazione c’è un treno che devo prendere ma non arriva, arriva un vecchio treno merci, allora mi viene in mente la celebre poesia di Paul Celan, Fuga di morte, sulla Shoah ebraica, e subito dopo c’è una mia ballata e poi va via racconti diversi, racconti di bellezza, di poesia ma anche di fatica, di una statua trovata a Santa Maria del Popolo a Roma, in cui sono andata, ho scoperto questa statua di una bella ragazza morta col suo bambino, è nella stessa cappella dove ci sono i due grandi Caravaggio, tutti vanno a vedere i Caravaggio, nessuno va a vedere la statua di Teresa di Acquisgrana.
Un ritrovamento della spiritualità…
Sì, giusto, come forza, parte dello spirito che si plasma nelle epoche in modo diverso, per l’essere umano che aspira alla bellezza.
Oltre che scrittrice e studiosa, lei è ormai per certi aspetti anche ambasciatrice della cultura armena in Italia, fra l’altro direttrice artistica del “Dessaran Festival” di Padova, dedicato alla cultura armena…
Sì, lo sono diventata un po’, cerco di farlo con la massima serenità e anche autoironia. La “settimana armena” di Padova è andata proprio bene, son tre anni che la facciamo, è nata da una mia idea e ha avuto un grande successo. L’Italia si è innamorata della cultura e della civiltà armena, pensi che gli italiani sono il terzo popolo come numero che va in Armenia, perché l’Armenia attuale, l’Armenia ex sovietica ha una notevole attrattiva turistica, è un bellissimo paese, per le montagne, un grande lago, un clima straordinario estivo, ci vanno moltissimi americani, moltissimi francesi, ovviamente -penso-, di origine armena, ma dall’Italia vanno tanti italiani che non hanno niente a che fare con il sangue armeno, ci vanno perché si sono appassionati, perché hanno letto La masseria delle allodole, che adesso, e questo è bellissimo, è arrivato alla 38^ edizione, è fantastico.
La cultura millenaria armena oltre che in patria si è manifestata molto nella diaspora, nell’esilio. Bellissimo il quartiere armeno di Gerusalemme, e il quartiere armeno di Aleppo, prima della guerra, era forse il più bel quartiere della città. Aveva una luce che pareva giungere da altrove. Anche la musica armena può dare lo stesso effetto. Forse è espressione dell’incontro tra Oriente e Occidente?
È vero, il quartiere armeno di Gerusalemme, e il quartiere armeno di Aleppo, era bellissimo, per me che andai a trovare gli zii e rimasi lì tre settimane, è ancora oggi come un pugnale, dopo che è stato distrutto. Ma anche nell’Armenia attuale ci sono splendidi monasteri, che sono sempre in posizioni geografiche straordinarie, mai sulla cima perché le cime sono solo di Dio dicono gli armeni, e il monastero dev’essere più basso, in posizione più appartata, perché si rivolge verso Dio ma non si sostituisce a lui.
Lei ha scritto: “Sulle mie spalle si posa, inflessibile, il popolo scomparso ed oggi sento di nuovo questo peso, il peso di bambini e donne abusati, di uomini che non hanno potuto difendere le loro famiglie…”
Questa è una frase che ho scritto in aereo, è la parte finale del prologo del libro Lettera a una ragazza in Turchia, quello che viene prima di La bellezza sia con te, sono tre storie di donne armene che erano coraggiose e che hanno combattuto, una era un’imprenditrice, una ragazzina che è arrivata in America ed è riuscita a fare un’enorme fortuna, una era la mia bisnonna, di cui ho saputo e ho trovato dei documenti da un cugino vicino a Boston, e la terza è una prozia a cui è stato ucciso il marito ed è stata gettata nelle acque del mar nero a Trebisonda, ma ciononostante ha difeso se stessa.
Insieme alla presentazione del suo ultimo libro, il suo impegno nella divulgazione della storia e cultura armena prosegue. Sta lavorando a qualche nuova iniziativa?
Sì, abbiamo impiantato un programma in Nagorno Karabakh, che è quella enclave abitata da armeni che Stalin aveva attribuito all’Azerbaijan e che poi è diventata indipendente. Con Siobhan Nash Marshall, fondatrice insieme ad altri della “Christians In Need Foundation”, Fondazione di cui faccio parte, inizialmente rivolta soprattutto ai siriani, c’è un programma appunto in Nagorno Karabakh, nell’ex Unione Sovietica, di popolazione armena, programma con la doppia finalità di far vedere a studenti americani com’è la vita in zone difficili del pianeta, fuori dagli Stati Uniti, e allo stesso tempo dare aiuto agli abitanti del Karabakh, con l’insegnamento dell’inglese. I ragazzi americani vanno a insegnare inglese ai bambini e anche agli adulti del Karabakh, è un programma che ha avuto un grande successo. Adesso è stato allargato agli artigiani, artigiani italiani in pensione di varie regioni partono fra poco e restano là per prendere contatto nelle scuole del Karabakh, scuole dove è tutto nuovo. È un Paese nuovo, c’è una scuola professionale piena di buona volontà, ragazzi pieni di interesse, ma che ha bisogno di gente che insegni, e allora a questi artigiani che sono in pensione, viene offerto vitto e alloggio, la Fondazione gli paga il viaggio e questi vanno sei mesi ad insegnare per esempio il mestiere di carpentiere, di falegname, sono italiani bravi, bravissimi. Da parte loro, sono ragazzi pieni di buona volontà, a cui è offerta l’opportunità di imparare l’inglese da madrelingua inglese, e giovani potenziali carpentieri o falegnami a cui vanno ad insegnare artigiani italiani che sanno fare davvero il loro lavoro, là hanno una grande ammirazione per l’Italia e i 70 anni dell’Unione Sovietica hanno in un certo senso abolito l’artigianato, e siccome il futuro per l’Armenia e anche per il Nagorno Karabakh, regione di frontiera, è proprio il turismo, ci andrà anche uno che ha lavorato in un grande albergo, ad insegnar loro la propria esperienza nell’accoglienza turistica. Questo almeno è il sogno di Siobhan, vediamo se poi si realizza.
Anche nelle pulizie etniche nell’ex Unione Sovietica sono morti armeni.
Sì, ci sono alcuni grandi scrittori che sono scomparsi nell’inferno della Siberia, nei gulag, che dopo essere riusciti a sopravvivere al genocidio sono poi finiti in un gulag e scomparsi per sempre, fra cui la più grande scrittrice dell’epoca, si chiamava Zabel che poi è la trascrizione armena di Isabella, Zabel Yesayan, era giornalista e bravissima cronista già nel 1908, lei è sopravvissuta alle stragi del ’15, perché in qualche modo l’aveva saputo, aveva capito che li avrebbero deportati, era sveglia e riuscì a scappare dai tetti, e a rifugiarsi in Bulgaria. Poi è andata a Parigi, dove ha scritto dei reportages giornalistici straordinari su altre stragi che erano avvenute prima e poi è tornata, è rimpatriata in Unione Sovietica, sotto Stalin, era troppo indipendente, l’hanno mandata in un gulag e nessuno sa quando e dove sia morta.
Per la scrittura ha qualche nuovo progetto?
Ho un progetto che è ancora molto vago, cioè un racconto di ciò che è accaduto in Italia nei decenni precedenti, per una persona come me che è sempre stata italiana, ma anche armena, cioè il passare attraverso i tumulti, le storie, le tragedie dell’Università di Padova, i morti ammazzati a due strade da casa mia. Ai tempi delle Brigate rosse, sin dall’inizio, io ero già docente, gli anni di piombo li ho vissuti da vicino, quel clima di violenza, ogni giorno, nell’atrio dell’università, c’erano le varie scritte. A me non è mai successo nulla, perché allora non ero fra i professori più conosciuti, ma quando vedi scritto sul muro “Adesso tocca a te” e quello dopo qualche giorno viene gambizzato, non camminerà mai più bene, non è cosa da poco. E poi tante altre cose, conoscevo molta gente, uno che era stato mio allievo quando insegnavo al liceo, è finito nelle Brigate rosse. Strana persona, strano ragazzo, anche intelligente… Questa sarebbe un’idea che ho, di raccontare quegli episodi con un occhio un po’ esterno se vogliamo, che veniva da lontano, se mi riesce.
Note:
1)Hervé Georgelin, La fin de Smyrne. Du cosmopolitisme aux nationalismes, CNRS Editions, Paris 2005
2) 1915: Genocidio armeno di Hasan Cemal, prefazione e cura di Antonia Arslan, Guerini, 2015
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Opere
Dame, droga e galline. Il romanzo popolare italiano fra Ottocento e Novecento, Padova, Cleup, 1977.
Dame, galline e regine. La scrittura femminile italiana fra ‘800 e ‘900, Milano, Guerini e Associati, 1999. ISBN 8878029238
Hushèr. La memoria. Voci italiane di sopravvissuti armeni, Milano, Guerini e Associati, 2001. ISBN 8883352467
La masseria delle allodole, Milano, Rizzoli, 2004. ISBN 9788817016339
La strada di Smirne, Milano, Rizzoli, 2009. ISBN 9788817037259
Ishtar 2. Cronache dal mio risveglio, Milano, Rizzoli, 2010. ISBN 9788817043694
Il cortile dei girasoli parlanti, Piemme, 2011. ISBN 9788856619737
Il libro di Mush, Skira narrativa, 2012. ISBN 9788857211510
Il calendario dell’avvento, Piemme, 2013. ISBN 9788856631098
Il rumore delle perle di legno, Milano, Rizzoli, 2015. ISBN 9788858679050
Lettera a una ragazza in Turchia, Milano, Rizzoli, 2016. ISBN 9788817089999
La bellezza sia con te, Milano, Rizzoli, 2018. ISBN 9788817104869
PREMI E RICONOSCIMENTI
2004: Premio Selezione Campiello per La masseria delle allodole.
2004: Premio Giuseppe Berto per l’opera prima (La masseria delle allodole).
2004: Premio Stresa, per La masseria delle allodole.
2017: Premio Matilde Serao, I edizione