“Nel 1943 sono stato fatto prigioniero, impacchettato e portato in Germania. Siccome eravamo degli allievi ufficiali dell’Accademia Navale i tedeschi ci hanno considerato come soldati e per fortuna mia mi hanno messo insieme ai soldati che erano contadini e operai meridionali e settentrionali. A quell’epoca non c’era così tanta differenza come adesso e così io ero un ragazzo abbastanza grossolano, privo di esperienze, in condizioni difficili e mi sono trovato un po’ scoperto con questi operai e contadini. Credo che sia stato determinante perché avevo una visione della vita completamente distorta e appunto in queste condizioni di vita quasi impossibili ho capito, ho avuto amicizie, frequentazioni e da allora è cominciata questa idea fondamentale dell’ingiustizia dal punto di vista culturale che poi con il tempo ho approfondito con l’esperienza. In poche parole, ripetendo quello che diceva don Milani, ho capito che una persona che conosce cinquecento parole non è inferiore a quella che ne conosce duemila. Non so se avete visto La Sicilia rivisitata. Non c’è mai un professore, ci sono solo contadini ed operai che magari non hanno le parole adatte però hanno il sentimento delle cose e mi ha sempre colpito questo stato della cultura, non dico italiana, ma proprio mondiale per cui la cultura è una cosa alla portata solo di una minoranza eletta che la gestisce, la monopolizza e poi c’è una base completamente esclusa, che fa poche scuole elementari, quando le fa, e poi viene completamente estromessa. Credo che sia stato questo l’impulso, per esempio, per cominciare a fare i documentari sugli operai e i contadini cercando di togliere la voce fuori campo, che è sempre un punto di vista dell’autore, e facendo in modo che questa cultura si vedesse e si manifestasse da sè. Questo poi è accaduto in fondo con Diario di un maestro, con In Calabria con La Sicilia rivisitata. Quindi gran parte del mio lavoro è stato dedicato a questo”. (Dall’intervista di Marcello Cella a Vittorio De Seta pubblicata su “Celluloid Digital Portraits”)

“Ho sentito il Neorealismo come un momento di solidarietà, di presa di coscienza della realtà, di sintesi sociale, per cui la cultura entrava infine in contatto con il mondo popolare. E’ stato un momento raro, di breve durata. Mentre dovrebbe esistere sempre, dovrebbe continuare sempre. Anche oggi che si potrebbe sostenere che il mondo popolare quasi non esiste più. Ma allora si cambia, e il problema è sempre il rapporto con la società, con quelli che ne sono vittime (…) Il problema è quello di una solidarietà sociale, morale, che nel neorealismo c’era e che ho sempre sentito molto” (*)

“Io ho usato un cinema atletico, ho corso tra le storie, e la realtà, ho reagito, non ho subìto né ho giocato con la realtà facendo l’intellettuale che dà la sua ricettina, la sua provocazione, la sua storiella.”(*)
”Per me la finalità è sempre la stessa: portare lo spettatore sul posto! In fondo, il documentario è più complesso della fiction, viaggia su binari assai meno prestabiliti. Nel documentario si possono impiegare più fattori compositivi: le immagini, le interviste, la voce over, le foto, i film di repertorio, la musica (…)“(*)
“Solo una ‘strutturazione poetica’ che conti sul sentimento oltre che sul pensiero, fa sì che a distanza di tempo un documentario sopravviva, che abbia un senso (…)“(*)
“(…) Negli ultimi anni non ho fatto altro che leggere e rileggere Tolstoj. Non il romanziere, il narratore ma il saggista. Ci sono delle opere bellissime di cui non si parla mai perché poi, ripeto, in un certo senso è stato il primo scrittore a negarsi come scrittore ed è intervenuto con i saggi, intravvedendo che la funzione dello scrittore, dell’uomo di cultura, dell’intellettuale doveva essere soprattutto questa” (Dall’intervista di Marcello Cella, op.cit.)

“Oddio, che s’intende per ‘ombra‘? Lo diciamo in senso junghiano? Certo che il mio film (Un uomo a metà, ndr) è stato l’ombra dell’altro, nel senso che Otto e ½ ha riscosso un successo mondiale, visto da milioni di persone, vinto premi, riconoscimenti, mentre Un uomo a metà è stato distrutto dalla critica, apparso fugacemente nelle sale, insomma, ricoperto d’obbrobrio. Solo Pasolini e Moravia e pochi altri l’hanno sostenuto. Tuttavia a distanza di 40 anni viene ancora proposto. L’anno scorso l’ho rivisto negli Stati Uniti. Ci saranno state 500 persone, (e lì quasi tutte hanno fatto l’analisi), ma alla fine, mi è sembrato, ha suscitato ancora imbarazzo, disagio. È un film casto, eppure in Francia, nel ’67, la censura l’ha vietato ai minori di 18 anni. Che dire? Mi piacerebbe parlarne con Fellini. Certamente mi aiuterebbe a capire. Ma non ha molto senso chiedere a un autore un giudizio sulla sua opera, su quella degli altri. Un film è un tessuto fitto di sentimenti, pensieri, intuizioni. Perché tentare di sezionarlo col bisturi della cosiddetta “ragione”? Vorrei dire solo due cose: Un uomo a metà non è consolatorio e – come gli altri miei lavori – è un “film della realtà”, sia pure psichica.” (Dall’intervista di Amedeo Caruso a Vittorio De Seta pubblicata su “Psichearteesocietà.it”)
“Qualcuno all’epoca mi ha accostato anche ad Antonioni, secondo me incongruamente, perché il soggetto era anche di Tonino Guerra ed era, secondo la moda dell’epoca, piuttosto astratto. Non c’era psicologia, infatti mi ricordo la fatica che ho fatto per strutturarlo con una psicologia. Ma anche quel lavoro aveva un fine, come sempre quando una persona è in crisi, quindi mi sembrava giusto parlare di queste cose, voleva essere anche una parola di tolleranza sui rapporti, sui possessi. Perché in fondo poi nel film ci sono due adulteri. Loro l’hanno letto, nel momento in cui si parlava di divorzio, come un film contro il divorzio. In realtà nel film ci sono due adulteri. Sono sempre le categorie a comandare, ‘questo è intimistico, questo non lo è’…Bisognerebbe cominciare invece a dire se il film sta in piedi o non sta in piedi. Invece questo non succede quasi mai”(*)

“Certo, l’influenza della psicanalisi è stata decisiva. Mi ha tirato fuori dal marxismo, dal materialismo. Con l’influenza junghiana ho riscoperto il senso del mistero, mi sono avvicinato alla religione. Mi è sembrato di tornare alla fede. Ma non ero soddisfatto, c’era qualcosa che non andava, non riuscivo a rinunciare alla ragione. Infine sono stato aiutato in modo decisivo dai saggi morali e religiosi di Tolstoj. Vede, è stato un percorso continuo. In sostanza non ho fatto i miei film dopo aver capito le cose, li ho fatti per comprenderle. Non mi sono mai specializzato. I film più che un fine sono stati un mezzo, (per questo sono pochi e diversi tra loro). Ma non vorrei prendermi troppo sul serio. È per dire che proprio il dinamismo, il coinvolgimento continuo, in prima persona, mi hanno impedito di naufragare nel nichilismo. Certo che il mio ultimo film Lettere dal Sahara risente del lavoro con Bernhard. Lui ha segnato la mia vita, in modo decisivo”.(Dall’intervista di Amedeo Caruso, op.cit.)
“Sono scomparsi i parametri tradizionali della cultura dell’uomo da un milione di anni: perché era un vivere insieme in villaggi di cinquecento persone; tanto è vero che l’uomo memorizza cinquecento fisionomie e cinquecento nomi nel suo cervello, non di più. Lavorare insieme, aiutarsi reciprocamente e produrre cultura, perché a quell’epoca cantavano tutti e se c’era qualcuno che cantava un po’ meglio, nessuno gli chiedeva l’autografo. In un ambito poverissimo in cui tutto veniva fatto con le mani, paradossalmente, ogni oggetto era decorato: il vasellame, le selle, i carretti siciliani, le chiese, poteva sembrare uno spreco. E i canti, i dialetti … Insomma tutti i legami con il territorio, con la lingua, con il costume. Anche in Sicilia si distinguevano gli abitanti di un villaggio da quelli di un altro dal modo di vestire e dal modo di parlare. Tutto questo è stato cancellato, praticamente c’è stato un genocidio culturale, non ricordo chi l’abbia detto”. (Dall’intervista di Nicola Cordone a Vittorio De Seta pubblicata su “Schermaglie.it”)

“Prima del conflitto il documentario non esisteva, c’erano i cinegiornali. Subito dopo la guerra c’è stata una fioritura di documentari in bianco e nero con lo speaker: si può dire che sia stato io a rivoluzionare un po’ le cose, anche se non ho avuto seguito; però ho rotto certi schemi, perchè tutti concentravano la loro attenzione sulle periferie cittadine: N.U. di Antonioni, Ombrellai di Maselli, S di Pontecorvo, La stazione di Zurlini sono tutti documentari in bianco e nero con una bella fotografia e con lo speaker che era l’ossatura portante del film. La maggior parte dei cortometraggi dell’epoca prestava poca attenzione al suono: usavano musiche di repertorio, classiche. Forse l’unico documentario veramente interessante del periodo che precede la guerra è stato Il pianto delle zitelle di Pozzi Bellini.” (Dall’intervista di Nicola Cordone, op.cit)

“In quel caso (Banditi a Orgosolo, ndr) si trattò, di una accortezza tecnica: poiché abbiamo girato delle scene in notturna, nel paese, non potevo usare il colore, per la scarsa illuminazione. Io comunque ho molta nostalgia del bianco e nero. Nel ’63 Fellini girò Otto e ½, e in bianco e nero: già allora c’era una sorta di resistenza da parte di alcuni autori. Anche Un uomo a metà era in bianco e nero, col colore sarebbe stato difficilissimo da realizzare. Il bianco e nero arrivava a 200 asa, il colore solo a 50: la pellicola in bianco e nero era quattro volte più sensibile, e noi eravamo pochissimi a illuminare le strade di Orgosolo; con il colore non ce l’avremmo fatta, e comunque i contrasti luministici del film erano molto belli, non riesco ad immaginare Banditi ad Orgosolo a colori”.(Dall’intervista di Nicola Cordone, op.cit.)
(*) Citazioni di Vittorio De Seta tratte da: Paolino Nappi, L’avventura del reale. Il cinema di Vittorio De Seta, Rubbettino Editore, 2015 e da Marco Bertozzi, Storia del documentario italiano. Immagini e culture dell’altro cinema, Marsilio Editore, 2008.