INCONTRO CON ROBERTO ROVERSI di Anna Albertano e Bruno Brunini

L’intervista è parzialmente apparsa sul numero 14 della rivista “TempOrali” del gennaio 1994. La riportiamo qui in versione integrale, comprensiva di parti che per ragioni di spazio, erano rimaste escluse.

Come è entrata la canzone con i suoi ritmi, i suoi tempi, nella tua storia e nella tua attività di scrittore?

Tutto è cominciato, così come spesso si avviano occasioni nuove e diverse, per caso. Per un caso. Due miei testi teatrali erano stati messi in scena al Piccolo Teatro di Milano, per convinzione di Paolo Grassi. Nel primo, intitolato Unterdenlinden, c’era una scena di spogliarello abbastanza audace in un night sofisticato. Da qui, mi era venuto il proposito abbastanza determinato di scrivere una commedia musicale, una vera completa commedia musicale, con molta musica, con molte canzoni e balli. Per l’intrapresa e anche solo per cominciare mi era indispensabile una conoscenza, certo una conoscenza non superficiale e più diretta, del rapporto delle parole con la musica. Almeno delle mie parole, con la musica. Così, tramite Cremonini che lavorava e lavora tuttora con Dalla, mi fu possibile fare arrivare a Lucio un gruppetto di testi, variamente composti proprio per saggiare le varie direzioni e ricontrollati per l’occasione. Questi testi poco dopo entrarono nelle canzoni del nostro primo disco.

Nella tua poesia e narrativa c’è un costante riferimento alla realtà bolognese e a quella nazionale, e quindi ai temi contemporanei più incalzanti. In molte canzoni che hai scritto c’è invece un volo nel futuro (ad es. Il motore del 2000), che ci pone in una dimensione più fantastica. Forse per le elaborazioni delle canzoni prevale un immaginario diverso da quello del Roversi scrittore? Se questo è vero, come convivono questi tuoi aspetti diversi: quello più impegnato, critico, morale e quello più fantasioso e leggero delle canzoni. Come convive il poeta che scrive e fustiga il costume della nostra società e l’autore di canzoni di successo?

Almeno a me, non pare che ci sia divaricazione in quel che faccio, con convinzione e per quello che vale. Non c’è un fiume in mezzo, né due rive separate. Il motore del 2000 è l’unico testo, in trenta e più canzoni, che guarda appena oltre il naso, le altre stanno tutte legate all’ombra dei piedi, o all’ombra della testa. Il motore del 2000 era una delle canzoni di uno spettacolo forte molto bello che Dalla ha portato in giro per l’Italia e che aveva per titolo Il futuro dell’automobile. Si partiva da I muri del ventuno, la prima occupazione delle fabbriche Fiat e Lancia a Torino nel 1921 per arrivare appunto alla canzone sopracitata, attraverso un percorso tematico fortemente politicizzato, direi fortemente ideologizzato. La storia d’Italia, nelle sue implicazioni drammaticamente negative, dico la storia d’Italia di cinquant’anni di questo secolo, era appuntata, annotata, direi era descritta attraverso l’automobile, lo sviluppo dell’automobile. Nuvolari, per esempio, era centrato perché con le Mille Miglia e le altre corse combattute con auto come le Ferrari, le Alfa Romeo 1750, le Cisitalia, aveva contribuito in modo determinante ad accentrare l’interesse del pubblico più vasto sull’automobilismo, che si andava rapidamente sviluppando, e quindi a sollecitare la asfaltazione delle maggiori strade italiane, molte delle quali non erano modificate di molto dal periodo napoleonico: Napoleone in Italia portò, come si sa, grande attenzione e grande premura in merito. Nel disco, il complesso delle canzoni ridusse il titolo, per decisione della casa discografica, a Automobili per questo decisi di non firmare il disco se non con uno pseudonimo, per l’esattezza, Norisso, un poeta dell’Arcadia romana del Settecento. Un nome preso a caso. In un contesto così delineato, Il motore del 2000 è appena un timido sguardo a un futuro molto ravvicinato.

 A proposito di Napoleone e dei tuoi interessi per la storia. Nel tuo primo romanzo “Caccia all’uomo”, hai parlato del dominio francese nella Calabria del primo ottocento, del brigantaggio, della violenza e oppressione sul popolo. La poesia siciliana, poi, è il tema della tua cinquattottesima descrizione in atto, e con Dalla in alcune canzoni hai affrontato la condizione degli emigrati meridionali al nord, negli anni sessanta. Si potrebbero elencare molti altri esempi. La tua attenzione è spesso rivolta all’Italia meridionale, è così?

L’Italia meridionale è sempre trascurata dalla storiografia ufficiale e nella prassi scolastica, si tende a mettere da parte. Ci sono vicende drammatiche da raccontare. Il mio interesse è cominciato con la lettura delle canzoni di Tommaso Campanella,  la pietra miliare del mio cammino. Dalla vita di quel frate indomabile, legato nelle segrete vaticane, è cresciuta la mia attenzione per gli autori meridionali e per la ricchezza di quella cultura.  La canzone napoletana, i poeti siciliani, Viviani, De Sanctis, il Genovesi, il Giannone, sono maestri straordinari, la loro scrittura la trovo sempre nella realtà, nella vita contro le avversità. E’ una scrittura forte che ti dà tutto.

Alla fine degli anni sessanta, nella scelta di ciclostilare e distribuire in proprio Le descrizioni in atto e in seguito nella tua attività molteplice, svolta anche insieme ad altri, hai cercato con autonomia strade nuove e hai affrontato il problema della comunicazione letteraria. Puoi dirci qualcosa in proposito?

Foto Città Metropolitana Bologna

Erano cambiate le condizioni in in cui la cultura veniva prodotta. Con la scelta del ciclostilato, ho cercato un modo autonomo, più preciso, veloce, capillare, di distribuzione al di fuori delle leggi del consumo. Così intendevo inserirmi nel cuore di un problema determinante. Già a metà degli anni sessanta ho avvertito l’importanza che stava assumendo la gestione della comunicazione e aggiungo della distribuzione, l’altro polo del problema. Costruire una comunicazione e distribuzione autogestita, militante, diretta, esterna ai grandi circuiti commerciali, rispondeva al bisogno di contrastare il monopolio della comunicazione ufficiale. Il vero scontro politico ormai era nei centri di produzione e distribuzione della comunicazione. Era lì che si giocava la possibilità di cambiare la nostra storia.

Durante il periodo della contestazione degli anni sessanta, hai sempre sostenuto le istanze e le problematiche portate dai movimenti giovanili di protesta, contemporaneamente nei tuoi scritti hai rivolto la critica a chi dall’interno dei movimenti proponeva l’uso della violenza, l’“impazienza scriteriata”. E hai ribadito invece la necessità di una maggiore riflessione, di una pazienza non rassegnata…

Si certo, la pazienza e la disponibilità all’ascolto, la pazienza di cercare il nuovo e aprire strade inesplorate è l’unica possibilità per raggiungere gli obiettivi. La violenza che in parte vedevo in quegli anni,  poteva solo giustificare la violenza contrapposta del potere. Quella violenza era inutile non insegnava nulla, vanificava la forza di comunicare problemi urgenti e di fondo, tanta partecipazione e speranze.

Nella tua attività di scrittore e di promotore di cultura ti sei mosso a diversi livelli. Sei stato fondatore con Pasolini, Leonetti ed altri di una rivista come “Officina” e di altre iniziative che hanno avuto un ruolo centrale nel dibattito e nella storia della letteratura contemporanea. Negli anni ’70 poi hai sostenuto diverse attività nate per così dire dal basso (per opera di giovani aspiranti poeti, ecc.) al di fuori dell’Università e dei canali privilegiati. Che rapporti ci sono stati tra esperienze così diverse e come puoi giudicarle nel loro insieme?

Prima “Officina” per cinque anni, poi “Rendiconti” per diciassette, poi varie scritture personali e il lavoro decennale con gli altri amici con “I fogli dei sei giorni”, dei “Dispacci”, dei “Prati di Caprara”, della “Tartana degli influssi”, della rivista di prima istanza “Numero Zero”, e questo lavoro che chiedeva grande pazienza, grande umiltà da tutti, grande entusiasmo e grande convinzione e aggiungo, grande partecipazione, si è potuto svolgere senza intoppi per il contributo determinante, essenziale, sopra tutti, di Maldini, Jemma, Milli, Petazzini, Brunini, e per “Numero Zero” anche con Gobbato e Giorgini. Poi il bell’impegno de “Lo spartivento” ormai diventato una quercia robusta, a cui mi pare indispensabile, necessario, inevitabile partecipare, ma che è soprattutto opera creata e perseguita da Gabriele Milli, con un vero risultato. Condividendo l’inquietudine costante nella riflessione e nella ricerca politica, adesso mi coinvolge la collaborazione a “Nunatak”, che mi avvicina ad amici molto più giovani ma che mi accettano, stimolandomi. Con questi riferimenti costanti non ci si può impigrire e si deve pedalare, dentro il grigiore tempestoso dei giorni. Io, per me, sento tutto legato quello che ho fatto o a cui ho partecipato dall’interno, un’unica corda, grossa, per la salvezza. Non certo dalla storia ma, si può dire dalla vita, che se ti aggrappa secondo la norma o ti distrugge o ti riempie d’odori. L’impegno è stato dunque di cercare, insieme ad altri, una riflessione comune attraverso la scrittura. Il giudizio su tutte le cose fatte? Sono state fatte, dopo tutto, e con l’attenzione dovuta. Adesso contano e si giudicano le cose che si stanno facendo o da farsi. Basta un semplice sasso per ricordarci del cammino già percorso.

Oggi molte esigenze sono mutate, certo negli ultimi decenni è stato importante, in particolare a livello sociale e politico, creare nuovi spazi di comunicazione per mettere in luce la scrittura sommersa, capire cos’era, lasciando libera la spontaneità. Nel frattempo molte iniziative spontanee e marginali si sono moltiplicate e forse hanno perso quel senso di rottura e di innovazione. Inoltre si è esteso un forte processo di omologazione culturale e sociale per cui tanto nelle associazioni di base quanto nelle cerchie letterarie più ambiziose emergono gli stessi condizionamenti derivati dagli standard televisivi, fumettistici e cinematografici. Cosa ne pensi? 

Dico soltanto che è molto vero che quasi tutto è cambiato, stravolto, non modificato. È un fatto che si prevedeva ma non, almeno, con così forsennata rapidità e, aggiungerei, incostanza. Se ne è preso atto, con la dovuta preoccupazione, con il necessario interesse e con la costante attenzione e anche con un poco di ironia. Certo è che ciò che era consentito fare con urgenza nel decennio passato oggi avrebbe un peso del tutto irrilevante e, nelle eventuali operazioni, direi mortificante. Sembra quasi passato un secolo. Anche se ripeto, non c’è nulla da rinnegare. Il lavoro svolto è un nodo, o vari nodi, in una lunga corda tesa che si prolunga.

Si può parlare oggi di letteratura ufficiale e non? E dove è lo spartiacque? È una questione di linguaggio, di tematiche, di concezione diversa del ruolo dello scrittore e della letteratura o è rimasta semplicemente una distinzione riferita al modo di produzione e di distribuzione, dal momento che spesso troviamo nell’ambito delle pubblicazioni indipendenti scritture di epigoni che ambiscono a una forma letteraria accademica e che quindi non riescono a veicolare idee nuove. 

Si può parlare, a mio parere di letteratura dentro le istituzioni o fuori. Magari ancora fuori e in attesa di entrarci. Nessun giudizio moralistico in merito ma solo di collocazione, con un collegamento diretto con chi non accetta neppure alla lontana la cultura, e la gestione della cultura, in atto, contrassegnata da un generale disegno della società e da un generale disimpegno dalla società che ritengo si debbano rifiutare in toto. È il nuovo regno della foresta che ci viene elargito e proposto, con insinuazioni convincenti ma dove gli alberi sono di plastica lavabile mentre le belve all’interno sono vere, e micidiali. Con la più completa semplicità e con dura convinta ingenuità, si va alla ricerca di un modo solo giusto e onesto per tutti, ma per tutti davvero. Un risultato che poteva sembrare un poco vicino e che invece è andato perduto. Da ritrovare. Non ci manca la pazienza, tanto più che gli scienziati proprio in questi giorni ci hanno appena avvertiti che il mondo, la terra, prima di esplodere sotto la sferza dirompente del sole è certo che durerà per duecento miliardi di anni. Cosa vogliamo di più? Ne abbiamo di tempo per ricucire ogni tela.

Di questi tempi è difficile orientarsi tra i prodotti dell’editoria. Si trova un po’ di tutto e il panorama generale è più indistinto. Se una volta la piccola editoria si qualificava per certe scelte di qualità e promuoveva con più lungimiranza l’autonomia di ricerca, adesso la situazione è più complicata e spesso si ha la sensazione che le parti si siano invertite, nel senso che certe scelte più coraggiose e innovative sembrano provenire maggiormente da certi filoni della grande editoria.

La piccola editoria ha vita grama e quella che appare più costante e intraprendente è quasi sempre appoggiata o collegata alla grande. L’autonomia, l’autogestione è scelta stupenda e quasi disperata. Ma anche così stando le cose è da perseguire. In quanto alle scelte più coraggiose, non mi lascerei molto lusingare. Nella società della foresta e del profitto inevitabile, se il forte ti premia l’inghippo è assicurato. Vuole magari soltanto succhiare da te il tuo giovane sangue. E ti fa una carezza. E poi dal potere forte, dal potere comunque organizzato, bisogna sempre stare alla larga in ogni caso. Non lo dico io, poveraccio, condivido soltanto questo aureo consiglio, ma lo dicono i grandi classici. Che spesso hanno pagato di persona.

Torna al numero completo XX – ROBERTO ROVERSI