a cura di Margi Fenoglio
L’etica protestante
“La continua negazione del piacere che c’è nei miei personaggi credo sia tipica della mentalità protestante. L’ideologia protestante si basa proprio sul principio che non si deve provare piacere nella vita, e appena ci si trova in questa condizione, scatta subito il senso di colpa. Forse non è un caso che Juliane apprenda della morte di sua sorella proprio mentre è in vacanza con il suo uomo, in un momento d’amore e di spensieratezza”.
“Lo spirito protestante ha a mio avviso due aspetti: da un lato c’è il rigorismo morale, la rinuncia alla gioia di vivere ed alla gioia in genere, l’autocastrazione di ogni tipo di godimento, ma allo stesso tempo questo essere rigorosi in modo assolutamente radicale nei confronti di se stessi porta alla ricerca della verità più profonda e questo, in un momento in cui tutti tentano di rimuovere il passato, può diventare una qualità. È vero, è lo spirito protestante che riemerge alla fine di Anni di piombo, ma direi che lo fa nel suo lato positivo. È come nella scelta in cui c’è l’uomo che suona il violoncello e la sorella dice ‘Voglio essere necessaria, voglio vivere per qualcosa’. C’è dunque una ricerca che continua sul perché della vita, non basta vivere tanto per vivere, si ha anche bisogno di vivere per qualcosa, anche se questo comporta il sacrificio. Le due sorelle vivono per un ideale.”
Nazismo
“Da bambina non sapevo che i tedeschi fossero responsabili della seconda guerra mondiale e dell’Olocausto. A casa e a scuola, siamo stati cresciuti nel silenzio sul passato: si sono dati molto da fare per tenere una generazione all’oscuro, vivevamo sotto una cappa di piombo. Ma nel film il padre delle due bambine, Christiane e Gudrun Ensslin, un pastore protestante, uomo severo e durissimo, fa vedere Notte e nebbia, il film di Alain Resnais sui campi di concentramento che per molti in Germania fu una rivelazione sulla verità del nazismo. A differenza dei registi italiani che, come ha ricordato Scola, sono stati spinti subito dopo la guerra a darsi da fare perché amavano il loro Paese, noi tedeschi non abbiamo mai amato la Germania, l’abbiamo odiata. I miei ricordi di Berlino erano macerie”.
“Non ci fu presa di coscienza, è questo il dramma. Nel dopoguerra tutti tentarono di dimenticare. C’era la distruzione, la fame, ma nessuno parlava delle colpe che avevano portato a questo. Noi eravamo responsabili, il popolo tedesco aveva cominciato la guerra. Ma un bambino non sa, si sente solo vittima, capisce molto dopo di essere parte di un popolo che ha commesso questi crimini”.
“Mia madre era apolitica. Parlava del passato perché era nata a Mosca, ma non del nazismo. A scuola niente. Nessuno mi ha detto la verità. All’inizio degli anni ’60 sono andata a Parigi e ho incontrato degli studenti francesi che mi hanno aggredito in quanto tedesca e io non sapevo neppure cosa rispondere perché non sapevo di cosa parlassero. È lì che è iniziato il mio interesse per il passato. Sono tornata in Germania e a quel punto volevo sapere. Questa negazione della verità ci ha reso ribelli.”

Margarethe von Trotta sul set di Die abhandene welt
Sulle donne
“Non so se la mia opinione intorno alla libertà e all’indipendenza sono cambiate molto rispetto ai miei primi film. Io credo di essere ancora sulla strada che ho intrapreso anni fa. Forse in Europa la libertà e l’indipendenza delle donne sono un po’ cresciute in confronto ai tempi in cui ho iniziato a fare la regista, ma se si guarda al mondo, in Africa e nel Medio Oriente la condizione della donna è ancora terribile. Un po’ di indipendenza per la donna significa sempre anche un certo grado di libertà nella società. E un certo grado di democrazia nella società è sempre segno che si è realizzata una certa indipendenza della donna. Perché il punto è che le donne non vogliono il potere, ma l’indipendenza. Sono gli uomini che cercano sempre il potere. Noi vogliamo semplicemente avere la libertà di scegliere quello che è bene per noi, per la nostra vita, per il nostro sviluppo.”
Sulla realtà odierna
“Dopo certe dichiarazioni di Schaeuble un’amica mi ha detto “mi vergogno di essere tedesca” e sono tanti che pensano come lei. Con tutta la nostra storia il fatto di essere così arroganti, così crudeli, così privi di umanità nei confronti dell’infelicità degli altri mi sembra davvero terribile. Siamo andati indietro di oltre trent’anni, nel ’68, poi negli anni Settanta e Ottanta siamo stati molto coscienti di quello che avevamo fatto nel passato. Ho l’impressione che dopo aver vinto i campionati del mondo la Germania sia sentita di nuovo forte e potente e i tedeschi di colpo abbiano riscoperto il nazionalismo”.
Anni di piombo, 1981
“Il termine militante mi rimanda ad una persona che ha sempre un coltello tra i denti, ed io così non lo sono mai stata. Questo termine lo trovo poi anche molto riduttivo. Nei miei film c’è l’aspetto politico, c’è l’attenzione al femminile ma anche altro e molto di più. Un esempio? Uno dei miei film più noti lo girai nel 1981 ed è Anni di piombo. Il titolo l’ho preso da una pagina di Friederick Hölderlin e recitava più o meno così: ‘E’ come se fossimo negli anni di piombo…’ e rimandava ad un concetto molto più vasto e poetico. Era un riferimento ambiguo e parlava di due cose: degli anni del terrorismo ma anche di quella cappa plumbea e pesante che si respirava in Germania all’epoca del post-nazismo. In Italia quest’espressione è stata ridotta solo alle pallottole ed al periodo del terrorismo.”
Rosa Luxemburg, 2003
“Accettai solo a condizione che mi fosse permessa una mia strada per descriverla. Su di lei c’erano tanti scritti politici, ma io avevo bisogno della ‘carne’, di capirla come persona umana e allora ho letto per cinque volte le sue 2.500 lettere e alla fine ho deciso di usare ciò che mi era rimasto in testa. Oggi non si scrivono più lettere, ma solo messaggi telegrafici, non so come si potrebbe ricostruire un grande personaggio attraverso gli sms o le email. Le lettere ci danno veramente il ritratto di una persona nelle sue sfaccettature”.
Vision, 2009
“Quello che più mi interessava mostrare, era come una donna nel Medio Evo, che viveva sotto certe regole – regole della religione e della società – era riuscita a trovare la strada adatta a lei e al suo talento. Lei è suora in un monastero dove c’è un abate che detiene l’autorità, e lei deve essere obbediente, umile, modesta. Sente che ha dentro di sé delle cose che in quelle condizioni non può esprimere. Allora ha delle visioni (…) Io non credo alla natura divina di quelle visioni. Io credo che sia tutto dentro di lei, che sia il suo inconscio che le viene in aiuto. Lei le esterna, e questo le permette di salire al rango di visionaria, profetessa accettata come tale dal Papa, da san Bernardo di Chiaravalle. Questo la mette in grado di scegliere la sua strada. Perfino di lasciare il suo convento, cosa totalmente proibita, per fondarne un altro. L’autorevolezza riconosciutale per quelle visioni le permette di lasciare il primo convento e di fondarne altri due. E lì ha la possibilità di studiare le scienze, praticare la musica, fare ricerche sulle piante, sulla fisiologia umana, eccetera. Il suo inconscio le dà lo slancio vitale per soddisfare il suo talento, che è poliedrico. Forse oggi sarebbe diventata una scienziata”.

Volker Schlöndorff, Margarethe von Trotta, Il colpo di grazia
“Ho scelto come protagonista Barbara Sukowa che avevo già diretta in Rosa Luxemburg e Anni di piombo. Per me lei era la garanzia di non rischiare di cadere nel kitsch o nel cliché. Grazie alla sua recitazione ero certa che avremmo reso un’immagine equilibrata di questa figura femminile. Vision è un film minimalista, perché si svolge dietro alle mura di un convento. Uno dei momenti più interessanti della storia è quando Ildegarda ha deciso di lasciare un convento per fondarne un altro nonostante avesse giurato fedeltà all’abate che, dal canto suo, non voleva permetterle di andare via per timore di perdere le offerte delle famiglie ricche che davano molti soldi in virtù della fama e della notorietà di Ildegarda come visionaria”.
“Quando si realizza un film su un personaggio del passato il regista lo filtra necessariamente attraverso la cultura e la società di oggi. Ho cercato di individuare quali potessero essere gli aspetti più attuali della figura di Ildegarda. Tra questi senza dubbio il suo interesse per la medicina alternativa e la necessità di entrare in armonia con le forze della natura. A Federico Barbarossa suggerisce di non farsi prendere dall’avidità e dall’ingordigia del potere: un messaggio che credo sia oggi più che mai attuale.”

Barbara Sukowa in Hannah Arendt
Hannah Arendt, 2012
“Oggi siamo tutti dei piccoli Eichmann. Come il criminale nazista di cui Hannah Arendt ha saputo cogliere l’intima essenza, evitiamo di pensare. Il totalitarismo ha vinto anche se ha perso come sistema politico. Per reazione ha prodotto un individualismo che è vuoto di pensiero”.
“Io non sono certo all’altezza di Hannah Arendt, una pensatrice che ha avuto grandi idee e che le ha difese con grande coraggio. Ma certamente quando si vuole affrontare il mondo con le proprie forze e guardarlo coi propri occhi, bisogna mettere in conto l’isolamento. E se scopri una verità, hai il dovere di dirla anche correndo il rischio di restare isolata.”
“Proprio questo coraggio di pensare con la propria testa, senza legarsi a una teoria o a una verità costruita da altri. Guarda coi suoi occhi e pensa con la sua testa. Va a Gerusalemme per il processo a Eichmann, pensando come tutti che si tratti di un mostro, di un criminale terribile. Lo guarda, e scopre che questa idea di lui che tutti avevano non corrisponde alla verità. Matura tutta un’altra concezione di questo criminale di guerra. Per me come regista è importante far partecipare lo spettatore alla sua osservazione, fargli vedere Eichmann come lo vede la Arendt, e permettergli di arrivare alla stessa conclusione.”
“Arendt lascia la Germania quando i nazisti arrivano al potere. In Francia viene imprigionata perché è tedesca. In America si sente finalmente a casa e gli attacchi contro di lei dopo gli articoli sul processo Eichmann sono come un nuovo esilio”.
“Non cerco di dare un messaggio, e qui se ce ne è uno, è che si deve sempre pensare con la propria testa. Arendt in questo è stata una grande maestra”.

Marian Seidowsky, Margarethe von Trotta, Rainer Werner Fassbinder in Baal
Sugli attori
“Gli attori devi amarli perché, in fondo in fondo, hanno paura di stare davanti alla macchina da presa. Molti miei colleghi pensano che gli attori siano degli automi a cui dire: ‘Vai da lì a lì’. L’attore, invece, è una creatura vulnerabile, debole, ed è una cosa di cui occorre tenere conto. Bisogna lasciarlo libero di inventare e di proporre ciò che desidera. Ci sono attori con cui puoi discutere e altri che cominciano a piangere non appena gli rivolgi la parola. Un regista deve capire immediatamente chi ha di fronte, dev’essere un po’ uno psicoanalista.”
“Avrei voluto fare un film con Gian Maria Volonté o Marcello Mastroianni, in Germania è difficile trovare due attori così bravi. Peccato che siano morti perché adesso avrei il coraggio di chiederglielo”.

Giuliano Montando in Il lungo silenzio
A proposito di Ettore Scola
“Avrei voluto essere una delle sue attrici, io l’ho conosciuto a Venezia dopo Anni di piombo. Avevo visto e ammiravo profondamente i suoi film. Voleva che scrivessi una sceneggiatura per lui, me lo disse per farmi un complimento, in realtà la cosa non lo interessava, ma non poteva dirmi: ‘Tu sei brava’. Ogni volta che ho portato un film in Italia, lui è venuto a vederlo. Mi diceva: ‘Mamma mia, non c’è niente da ridere nel tuo cinema’, mi sembri Dreyer. Pensava che il mio cinema fosse troppo tedesco.”
…
“Avevo girato da un anno Sorelle, fu una premonizione: avevo chiamato le protagoniste Maria e Hannah, pensavo che fossero nomi troppo biblici e volevo cambiarli ma non l’ho fatto. Poi ho scoperto che la mia sorella segreta, che ha quindici anni più di me, si chiama Hannah, e il mio secondo nome è Maria”.
“In occasione dell’uscita del film, la tv mandò in onda un’intervista in cui per la prima volta parlavo di mia madre, morta da poco. Raccontavo che era di una famiglia nobile dell’Est, che ero nata quando lei aveva 42 anni e portavo il suo cognome perché non era sposata con mio padre. Ho ricevuto una lettera, una donna mi chiedeva se mia madre si chiamasse Elizabeth e fosse nata a Mosca, cose che nell’intervista non avevo detto. Le chiesi come facesse a saperlo, la pregai di dirmi se aveva altri ricordi. Mi scrisse ‘sono tua sorella'”.