Numero XXX – Ottobre 2023
Sommario:
- Claude Goretta, uno dei padri fondatori del nuovo cinema svizzero di Luisa Ceretto
- Incontro con Claude Goretta di Luisa Ceretto
- La nouvelle vague del cinema svizzero di Luisa Ceretto
- Il Paese che forse non c’è di Pietro Bellasi
- Filmografia
- Premi e riconoscimenti

CLAUDE GORETTA, UNO DEI PADRI FONDATORI DEL NUOVO CINEMA SVIZZERO di Luisa Ceretto
“Ad un mestiere come il nostro ci si deve aggrappare il più a lungo possibile e non abbandonarlo mai, anche se può capitare che dopo un insuccesso qualcuno lo lasci. Ma se guardiamo alla storia del cinema, non c’è nessun grande regista che non si sia sbagliato, che non abbia realizzato un film non riuscito (…) è importante non abbandonare l’obiettivo, resistere fino alla fine…” Claude Goretta
Tra i nomi più celebri della cinematografia svizzera romanda (di lingua francese), Claude Goretta regista, produttore e sceneggiatore, è tra i fautori del profondo rinnovamento del nuovo cinema svizzero, che negli anni settanta – una decina di anni dopo rispetto ai cugini francesi ribellatisi al “cinéma de papa” -, al fianco di personalità come Alain Tanner e Michel Soutter, con le proprie opere proponeva un’immagine della Svizzera lontana dalla cartolina stereotipata in voga in certe pellicole degli anni precedenti, facendo parlare di sé, suscitando l’interesse della stampa e raggiungendo platee internazionali e importanti vetrine festivaliere. Una trentina di titoli, alternando produzioni cinematografiche e televisive, lungo un arco temporale che va dalla fine degli anni cinquanta agli inizi del ventunesimo secolo, Goretta si muove con disinvoltura tra piccolo e grande schermo, realizzando documentari e film di fiction. Ritrattista di personaggi “normali”, di coloro che, per usare un’espressione che ha fatto propria, sono “vinti dalla vita, non hanno alcun appuntamento con la Storia”, Goretta si distingue per l’acutezza della propria indagine sociale e psicologica, narratore di anime, di sentimenti, autore colto e raffinato.

Tra le costanti del suo cinema, l’attenzione alla condizione femminile e alla sua evoluzione nella società dopo gli anni sessanta, oltre ad un’innata predisposizione per la direzione degli attori, nello svelare il talento di interpreti ancora poco noti, come, ad esempio, Isabelle Huppert, Nathalie Baye o ancora Jean-Luc Bideau, Gérard Depardieu e Bruno Ganz. Stimato dagli attori più noti, Charles Vanel (1), nel corso di un’intervista, lo definisce il miglior regista con cui abbia lavorato.
Nato a Ginevra il 23 giugno 1929 da padre di origini italiane – il nonno, Goretti, da Verbania si trasferì in Svizzera, a fare il falegname – e da madre tedesca, Julie Louise Seemüller, è fratello di Jean-Pierre Goretta, celebre reporter e intervistatore della Radio e Televisione Svizzera. Procuratore bancario, il padre di Claude, Jean-Louis, decide poi di cambiare la vocale finale del cognome, da Goretti in Goretta. Durante gli studi di giurisprudenza all’Università di Ginevra – intrapresi per assecondare la volontà paterna -, Claude fonda, nel 1952, insieme ad Alain Tanner, un Cineclub universitario nel quale sono programmati film del Neorealismo, insieme a pellicole della nouvelle vague, a documentari sociali tedeschi censurati dal nazismo. Collabora, inoltre, come critico cinematografico, al “Journal de Genève” e alla “Tribune de Genève”.

All’età di ventisei anni, è il 1955, Goretta parte per Londra, dove, insieme ad Alain Tanner lavora presso gli archivi del British Film Institute, istituzione che offrirà la pellicola per realizzare Nice Time, co-diretto con il suo sodale, cortometraggio che sarà premiato al Festival di Venezia nel 1957. È a Londra che il futuro regista ha modo di confrontarsi con gli angry young men del Free Cinema, Lindsay Anderson, Tony Richardson, Karel Reisz, promotori di un cinema che rivolgeva il suo sguardo al sociale, senza enfasi pedagogica o dogmatica, quanto piuttosto con una curiosità partecipe e consapevole delle radici e dei cambiamenti in atto a quell’epoca. Di ritorno in Svizzera, nel 1957, animato da un intento innovatore e di sperimentazione ispiratogli dall’esperienza londinese, Goretta debutta nella neonata TSR (Télévision Suisse Romande), come documentarista e, successivamente, negli anni sessanta collabora per la trasmissione Cinq colonnes à la Une per la televisione francese, RTF Télévision poi divenuta ORTF (tra i vari lavori, un reportage sull’India ed uno sull’Algeria girato nel 1965 sui francesi che vivevano nel Paese, a tre anni dalla dichiarazione di indipendenza dalla Francia). La televisione gli consente di misurarsi nei vari ambiti, a partire, appunto, dal reportage, ne realizza una ventina per il programma della televisione svizzera Continents sans visa, in seguito, Temps présent. Nei suoi lavori emerge una particolare sensibilità nell’avvicinarsi alla gente comune, che si tratti di un impiegato di banca, della madre di una famiglia numerosa, o degli zingari di Saint-Marie de la Maire, come di immigrati stagionali provenienti dalla Spagna o ancora di una operaia russa a San Pietroburgo (allora Leningrado). Formatosi nell’ambito televisivo, per Goretta la televisione costituisce il medium più diretto per dialogare con la realtà.

Anche tecnicamente, l’invenzione dell’éclair coutant, che consente la ripresa col suono diretto, rappresenta un’importante innovazione non solo tecnica, ma soprattutto sul piano espressivo, che libera, per certi versi, il modo di girare, consentendo di entrare nelle case delle persone e filmarle, rendendo così possibile la traduzione in immagini più immediata delle loro diverse vite. Ma col tempo, un’attitudine di rigore e correttezza induce Goretta ad abbandonare il documentario sociale per il timore di un’eccessiva invasività della cinepresa nella vita dei soggetti ripresi. Sempre per la televisione, difatti, Goretta realizza lungometraggi, cortometraggi, telefilm, adattamenti letterari e drammi teatrali. Tra i titoli, Racines di Arnold Wesker, Le jour des Noces – tratto da Una scampagnata di Guy de Maupassant, e due adattamenti dallo scrittore elvetico Walter Weideli, Le dossier Chelsea Street e La fusillade en réponse à Dostoievski. E ancora, alcuni titoli desunti da opere di Claudel, August Strindberg, John Osborne, Walter Weideli. Domenica di maggio è del 1962, Cechov o Le Miroir des Vies perdues di due anni più tardi.
Nel 1966 firma Jean-Luc persécuté, dall’omonimo romanzo del suo connazionale, Charles-Ferdinand Ramuz, un film considerato, per lo stile, precursore della Nouvelle Vague elvetica. Coprodotto da quattro televisioni, è la vicenda di un amore non corrisposto e del tentativo, malgrado tutto, di un’ipotesi di vita in comune. “Per noi, dopo i balbettii dei nostri cineasti ufficiali, tra il nulla e l’attesa, Jean-Luc persécuté segna un primo passo di valore. Ecco finalmente una creazione cinematografica decentralizzata, nella Svizzera romanda, e diffusa (anche se solo dalla televisione), che sembra uscire dal territorio dell’utopia.” (2). Dello stesso autore ventun anni dopo, Goretta adatterà per il cinema, Se il sole non tornasse (1987).

Nel frattempo, sull’onda del Sessantotto, fonda a Ginevra una casa di produzione, Groupe 5, con Alain Tanner, Michel Soutter, Jean-Louis Roy, Jean-Jacques Lagrande (sostituito in seguito da Yves Yersin), le cui opere hanno dato grande impulso al cinema svizzero, facendolo uscire dalle strettoie dei confini nazionali. Il suo esordio nel cinema avviene nel 1970 con Le fou, interpretato da François Simon, nei panni di un impiegato modello che diviene un abile rapinatore. Come dichiara Goretta “questo dramma di un cinquantenne che ha costruito la sua vita su un miraggio (…) è un’esperienza televisiva a causa della macchina da presa fissa, ad altezza d’uomo, frontale, dove l’apporto della tecnica è sostituito dallo sviluppo temporale. C’è una specie di insistenza sui gesti, sulle persone, una perpendicolarità dello sguardo nei confronti dei visi.” L’uscita un anno prima di Charles mort ou vif con cui Alain Tanner firmava il suo primo lungometraggio, interpretato dallo stesso attore scelto da Goretta, potrebbe forse averne offuscato un po’ la portata, non riuscirà difatti a trovare una distribuzione nelle sale cinematografiche. È con L’invitation, tre anni più tardi, che ottiene i meritati riconoscimenti, come il premio speciale della Giuria, a Cannes. L’imprevista fortuna economica di un impiegato diviene l’occasione, nelle mani di Goretta, per analizzare e denunciare le frustrazioni e le ipocrisie di una piccola comunità. Un film in cui il regista, come è stato detto, osserva con sguardo cecoviano quel mondo di impiegati, di “petits gens”, in cui ritrova “sia chi soffre sia chi cerca di vivere”, da considerarsi l’opera più riuscita e graffiante della nuova onda.

Tra l’altro la pellicola rappresenta anche la prima di una serie di coproduzioni franco-svizzere firmate da Goretta, che da quel momento girerà alternativamente al di qua e al di là della frontiera. Il nome di Claude Goretta è ormai definitivamente uscito dai confini svizzeri. «Preferisco fare il cineasta all’estero piuttosto che lo spazzino a Ginevra” ricorderà nel corso di un’intervista, ”scherzi a parte, devo molto a un paese come la Francia (…), se L’invitation non fosse stato del tutto casualmente invitato al Festival di Cannes, non avrei mai potuto fare quello che ho fatto». (3) Per Pas si méchant que ça (1974), una sorta di «Bonnie e Clyde alla svizzera», amato dalla critica internazionale, si avvale di attori ancora poco noti come Marlène Jobert e Gérard Depardieu.
Una delle preoccupazioni dell’autore, che rappresenta il filo rosso nella sua ricerca artistica, è l’attenzione rivolta a personaggi indifesi e solitari la cui estrema sensibilità, può rischiare di restare inespressa per la difficoltà di comunicare, per mancanza di cultura. È il caso della protagonista del quarto film, Pomme, ingenua parrucchiera che non sosterrà l’abbandono da parte di chi l’ha amata, interpretata da una giovanissima e sconosciuta Isabelle Huppert – che ottiene la palma d’oro per la migliore interpretazione femminile. Il film, La merlettaia (1977), tratto dall’omonimo romanzo di Pascal Lainé che consacra il regista a livello internazionale. Con lo scrittore Pascal Lainé la collaborazione proseguirà ancora negli anni novanta, con titoli riguardanti Maigret di Simenon, a cui dedica una serie tv interpretata da Bruno Cremer.

Nel 1980 con La provinciale, tratteggia un altro personaggio femminile, Claire, interpretato da Nathalie Baye – al fianco di Bruno Ganz -, una donna e le sue disavventure lavorative e di inserimento nel contesto della grande metropoli e il suo ritorno in provincia. “La disoccupazione, qui, rimane al suo posto: un elemento di stress supplementare, un rivelatore dell’insicurezza sociale; ma Goretta parla di un disagio più vasto, quello causato da una società competitiva che distrugge poco o molto ognuno dei suoi membri. Una società dove l’assenza di rapporti veri, la mancanza d’amore, l’incertezza degli obiettivi trasformano la vita quotidiana in un incubo ricorrente” (4). Entrambe le pellicole privilegiano personaggi oppressi, vittime dell’arroganza di una società dell’apparenza e superficialità, tuttavia, rispetto, alla protagonista di La merlettaia, in Claire vi è il rifiuto di accettare le imposizioni dall’esterno e prevale invece una salda volontà di rimanere fedele a se stessa.

Con La morte di Mario Ricci (1983) l’autore ginevrino torna ad indagare sulle tensioni all’interno di un gruppo sociale, in questo caso nel Jura in un villaggio immaginario, dove un giornalista – magistralmente interpretato da Gian Maria Volonté premiato a Cannes per la migliore interpretazione maschile – farà luce sull’omicidio a sfondo razziale di un giovane operaio italiano emigrato in Svizzera. “La crisi che incombe sulla piccola comunità qui rappresentata non è che il riflesso di una crisi più generale: quella del nostro mondo, a cui nessuno può scappare (…) Se le azioni parallele che si svolgono nel film hanno come contesto un villaggio svizzero apparentemente senza storia, il loro significato ha una portata che va ben al di là di questo quadro ristretto. Si può pensare a una favola. E non è un caso che la lingua dei personaggi sia il francese, ma un francese fortemente segnato da diversi accenti (…) Ognuno di questi accenti riflette una mentalità particolare: insomma, un piccolo mosaico europeo in confetti elvetici!” (5)

Da ricordare, una regia lirica, una messinscena di Orfeo dall’opera di Monteverdi, nel 1985, che sarà presentata al Festival di Aix-en-Province e poi al Grand Théâtre di Ginevra e di cui Goretta girerà negli studi romani di Cinecittà una trasposizione cinematografica, avvalendosi del direttore della fotografia Giuseppe Rotunno. Con Se il sole non tornasse (1987) la vicenda si svolge in uno sperduto villaggio montanaro privato del sole per diversi mesi all’anno, dove un anziano profeta e stregone annuncia la fine del mondo, tratto, come più sopra ricordato, dall’omonimo testo letterario di Ramuz. Nel 1988 Goretta gira un documentario sulla mafia, Les ennemies de la mafia, che contiene una lunga intervista della giornalista Marcelle Padovani al giudice Giovanni Falcone. Il suo ultimo film lo gira nel 1991 con L’ombre, un melodramma a sfondo politico, con Jacques Perrin e Pierre Arditi. In quello stesso anno riprende la sua attività televisiva e da allora non ha più realizzato pellicole per il grande schermo. Tra le regie per la tv, il pregevole, Thérèse et Léon, nel 2001.

È del 2006 il suo ultimo film tv, Sartre, l’âge des passions, sulla vita di Sartre dal 1958 al 1964, le sue lotte e la sua relazione con Simone de Beauvoir, diviso in due parti, Maya Sansa, Anna Alvaro e Denis Podalydès gli interpreti. Come ricorda quest’ultimo: “Claude non è un cineasta che si accontenta di applicare la sceneggiatura alla lettera. Piuttosto se ne appropria attraverso una conversazione costante con gli attori, in un clima di effervescenza intellettuale”. Nel 2010 Goretta riceve il Quarzo d’onore, importante onorificenza del cinema svizzero. L’anno successivo gli viene riconosciuto il Pardo alla carriera al Festival internazionale del film di Locano per l’insieme della sua opera. Nel 2019, Claude Goretta, all’età di ottantanove anni, muore nella sua casa di Ginevra. La sua scomparsa avviene pochi giorni dopo quella del suo connazionale Bruno Ganz.

Note
- Interpreta il profeta in Se il sole non tornasse. In oltre mezzo secolo, Charles Vanel ha collaborato con registi, per citare i più noti, come René Clair, Francesco Rosi, Ettore Scola, Henri Clouzot, Luis Buñuel, Alfred Hitchcock.
- “Travelling” n° 13, estate 1966.
- Antonio Mariotti, Claude Goretta, il regista colto che amava il pubblico, “Corriere del Ticino” febbraio 2019.
- Michel Mardore “Le Nouvel Observateur”, dal Bollettino della Cinémathèque suisse, n. 264, novembre-dicembre 2011.
- Claude Goretta nel pressbook del film.
Abbiamo incontrato Claude Goretta nel 1998, in occasione di una rassegna cinematografica itinerante in più città italiane, dedicata a Gian Maria Volonté, che l’autore aveva diretto nella pellicola La morte di Mario Ricci (1983)
INCONTRO CON CLAUDE GORETTA di Luisa Ceretto (*)

Lei muove i suoi primi passi nella televisione, realizzando documentari e reportage. Cosa l’ha spinta ad avvicinarsi a quell’universo?
Per me significava in primo luogo andare verso la gente, testimoniare, attraverso le immagini, la vita degli altri. La televisione era un terreno di incontro, di ricerca magnifico. Consentiva di viaggiare e andare, appunto, di incontro con le persone. L’ambizione era di restare un creatore libero, indipendente, qualunque fossero le condizioni lavorative. Curiosamente è una situazione che ho trovato proprio alla televisione di stato, mi ha lasciato lavorare in condizioni di libertà costante. Nei ritratti realizzati, ad esempio, c’era una struttura drammatica che metteva in luce la lotta quotidiana di sopravvivenza dei soggetti filmati, che richiedeva un’attenzione che non riguardava la sfera professionale, quanto, piuttosto, l’attenzione e il mostrare un senso di solidarietà nei confronti di chi era ripreso, perché dietro certe esistenze, c’è il coraggio di vivere con mezzi di fortuna. Si trattava di lezioni di coraggio che ho cercato di filmare, spesso erano vittime di situazioni arcaiche, anacronistiche. E’ il caso, ad esempio, di una donna il cui marito, essendo pescatore, quando doveva partire per la grande pesca, stava via per lungo tempo. Non poteva essere presente per molti momenti importanti. Come si fa ad equilibrare una vita in questo modo? L’impressione era quella di assistere a condizioni di vita di un altro secolo, di vedere situazioni incredibili, come la convivenza di nove persone in tre stanze.

Ciò che era molto bello nel nostro lavoro, era che prima delle riprese avevamo il tempo di entrare in contatto, di creare una relazione sincera e profonda con la gente che filmavamo. Il mio modo di lavorare andava ben oltre il momento professionale. Al contempo, però, poteva essere difficile, doloroso e pericoloso.
Per quale ragione?
Si creavano rapporti un po’ eccezionali, idealizzati, con le persone riprese, ma avevano una scadenza, duravano il tempo di un film o di un reportage e poi necessariamente ce ne andavamo. La maggior parte di persone che avevo scelto non avevano i mezzi per difendersi, non avevano grandi difese intellettuali, i nostri rapporti duravano il tempo di un reportage.

Al termine delle riprese, la gente tornava alla vita quotidiana, ad una vita più o meno oscura, nell’ombra, e noi, come troupe, sapevamo bene che per quanto si dicesse che ci saremmo rivisti, questo probabilmente non sarebbe mai più accaduto. Forse saremmo andati in America Latina, o chissà dove, magari a girare un film sulle montagne svizzere. Si creava uno squilibrio che ad un certo momento mi ha disturbato, ed è stata una delle ragioni per cui sono passato alla finzione, per poterle anche maltrattare queste figure, era meglio passare alla fiction.
E quindi avviene il passaggio alla regia per il grande schermo, siamo agli inizi degli anni settanta…
In effetti, i primi film di finzione che ho fatto, sono come dei ritratti. Ad esempio la prima regia, Le fou (1970) è come un ritratto. Sono passato dal reportage alla finzione mantenendo la forma del ritratto, lo è il mio film, come lo è del resto La provinciale, e poi ancora La merlettaia (1977). C’è un personaggio principale, che è illuminato dalla presenza, dalla luce che gli altri personaggi gli apportano. Per rompere con l’idea del ritratto ho fatto svariati tentativi, ad esempio, Le jour de noces, che è come lo schizzo preparatorio de L’invitation che seguiva il racconto di dieci persone. Si tratta di due film che permettevano di raccontare più persone con l’idea che il denaro, ma come del resto anche la malattia, può rovinare le relazioni umane…

Dopo aver esordito sul grande schermo e realizzato pellicole che hanno ottenuto importanti riconoscimenti internazionali, non abbandona mai la televisione, anzi, anche a distanza di decenni, alterna la sua produzione cinematografica con quella televisiva, realizzando telefilm, film per la tv, adattamenti da testi letterari e teatrali. Cosa ci può dire al riguardo?

Lavorare per il piccolo schermo non significa lavorare peggio ma lavorare diversamente. Per convincersene basta vedere cosa riescono a fare registi inglesi come Stephen Frears o Mike Leigh quando girano per la BBC. Se i registi snobbano la tv, questa finirà sempre più fra le mani di semplici esecutori svogliati e senza fantasia. Per me, lavorare per la televisione significa poter scegliere i soggetti che m’interessano. Temi universali in grado di interessare anche il grande pubblico.
Dopo il suo esordio con Le fou, seguono L’invitation e La Provinciale. Nel 1977 firma La merlettaia, prima di affrontare un tema riguardante l’emigrazione italiana in Svizzera con La morte di Mario Ricci, che ha per protagonista Gian Maria Volonté. A questo proposito, verso la fine degli anni settanta, la crisi che coinvolge in Italia soprattutto un certo cinema impegnato, sembra compromettere le stesse possibilità di lavoro per Volonté, quasi che l’attore potesse interpretare soltanto un certo tipo di ruoli ‘politici’. Quali sono le ragioni che l’hanno spinta a scegliere Gian Maria per il personaggio del suo film?
Appartengo alla generazione dei registi che sono stati segnati dal Neorealismo italiano e Gian Maria, in particolare, nei film di Rosi – li ho visti tutti – mi è sembrato l’attore ideale per quello che volevo fare. Era un attore che interpretava all’americana, nel senso migliore del termine, era un attore molto fisico che sapeva riempire lo spazio dell’inquadratura e al tempo stesso ritenevo il suo percorso esemplare per le scelte che aveva fatto. Tra tutti gli attori europei era quello con cui avevo più voglia di lavorare.
La morte di Mario Ricci – con cui Volonté ottiene la Palma d’oro per la migliore interpretazione maschile – è quindi la sua prima occasione di lavoro dopo una lunga pausa. Una scelta non facile per un ruolo molto vicino, in un certo modo, alla sua esperienza di vita. Com’è nata l’idea del film?
Ho conosciuto la prima volta Gian Maria a Genova, dove stava lavorando ad una messinscena con un gruppo di studenti.

L’ho incontrato, insieme allo scrittore con cui avevo scritto la sceneggiatura, sul retro di una trattoria, ricordo che salutava e si comportava come una persona qualsiasi, penso di non aver mai visto un attore così umile. Ho fatto dieci anni di reportage, dopo aver girato in India ed essermi trovato di fronte alla morte, sono rientrato e sono stato a lungo malato. Anche mio fratello, un grande reporter che ha seguito diverse guerre e fatto più volte il giro del mondo, aveva avuto problemi di salute. Tutto questo mi ha ispirato il tema del film. Riunendo le due esperienze personali, mi è stato possibile immaginare una storia che aveva a che fare con l’impotenza del giornalismo di fronte all’evoluzione o piuttosto alla distruzione della società. Ho pensato che Gian Maria potesse essere il solo attore capace di comprendere tutto ciò. Infatti, già a Genova avevo avuto la conferma di quanto fosse attento agli altri. Per il personaggio dello scienziato, mi sono rifatto a René Dumont, esperto della fame nel mondo, che a quel tempo denunciava tutto ciò che stava accadendo. Sentirlo era una rimessa in discussione del nostro lavoro di giornalisti. A Gian Maria ho raccontato le mie esperienze, cosa che lo ha molto interessato. Non è stato difficile per lui avvicinarsi a questa storia.

Sin dal titolo, il film svela realtà e personaggi in modo molto discreto ma intenso. Si scopre poco alla volta cosa c’è dietro ad una facciata che nasconde verità profonde. Tutto ruota intorno al giornalista, Bernard Fontana. Qual è stata la sua esperienza lavorativa con Gian Maria?
Sono di origine italiana, un puro prodotto dell’immigrazione e quindi la xenofobia mi ha sempre toccato molto, almeno quanto Gian Maria. Pur non essendo difficile per me immaginare questo racconto, dovevo tenere presente che in Svizzera le cose sono più dissimulate, meno violente, meno mortali, e così ho scelto di trattare l’argomento in modo più discreto. Sul set di questo film c’è stato davvero un incontro. Con Gian Maria si discuteva di tutto, ci completavamo. Quando andavamo a mangiare, la gente spesso gli diceva, ‘ma ho l’impressione di averla vista da qualche parte’, lui, però, non diceva mai chi era, al contrario, rispondeva, ‘sì, forse sono passato di qui un’altra volta’. Gian Maria era il diavolo e il buon Dio, aveva i due lati, era questo che mi interessava. Quando nel film, per esempio, dà uno schiaffo al ragazzo, d’un tratto rivela il suo lato violento. Ci siamo forse scontrati una o due volte, ma ci siamo sempre adorati. C’è stato un lavoro molto fraterno tra noi, c’era una comunicazione permanente. A quell’epoca era uscito E.T. di Spielberg, ricordo che in un giornale francese di sinistra “Libération”, erano uscite almeno sei pagine su quel film. Entrambi reagivamo in modo molto simile, eravamo scioccati. Anche a Cannes, nessuno dei due aveva lo smoking, mi aveva detto che non voleva assomigliare ad un pinguino come tutti gli altri…
Se in altri film l’aspetto più rimarchevole è la sua capacità mimetica di assomigliare al personaggio, è il caso di Mattei o di Vanzetti, qui la forza risiede nella capacità di interpretare nell’immobilità e nella quasi assenza di dialogo. Un ruolo molto impegnativo…

È una recitazione nell’impotenza. La sua capacità di entrare nella pelle di un personaggio, è la qualità rara del grande attore ed è davvero affascinante. Gian Maria sapeva utilizzare ammirevolmente il proprio corpo. Per esempio, quando entrava in macchina, si sedeva in modo da riempire tutto lo spazio della scena, non c’era nulla da correggere. Spesso altri attori prendono pose teatrali. Gian Maria, invece, non aveva questi limiti. Anche dopo le riprese, continuava a tenere gli stessi indumenti, la giacca era la mia. La difficoltà del film consisteva nel mostrare l’insuccesso di una persona che aveva lavorato per denunciare le ingiustizie nel mondo, rendendosi poi conto che tutto ciò non portava a nulla, perché più si grida la sofferenza e meno la si ascolta. Era questa la tematica del film, prima ancora della xenofobia. La filosofia del personaggio Bernard Fontana è quella della sconfitta, della ferita. È quella per cui non potrà più partire.

Volonté non amava molto parlare di sé, né del suo metodo di lavoro. Cosa può dirci a questo proposito?
L’approccio di Volonté al lavoro era molto serio. Ci sono metodi che non si percepiscono perché si sono compresi a livello intuitivo. Durante le riprese del film c’erano sequenze per le quali aveva difficoltà – per esempio quando era ubriaco e doveva ironizzare sulle cose – a utilizzare un linguaggio diverso dal suo. Era un attore molto più tragico che comico.
Forse questa è una delle ragioni per cui, rispetto ad altri attori, il pubblico italiano lo ha amato meno?
Ad un certo momento anche il Neorealismo non ha più interessato nessuno e lo stesso Rossellini ha trovato con fatica altre occasioni di lavoro. Sono stati relativamente pochi gli autori tragici dopo il Neorealismo, dopo la guerra. Certamente la gente preferiva ridere, invece Gian Maria voleva avere un rapporto serio e grave con la realtà, soprattutto politica. Risi, Castellani, facevano tutti commedia, film formidabili, ma comici. Mastroianni aveva un carisma sorridente. C’era Fellini ma, pur amando il suo cinema, non vedo come Gian Maria avrebbe potuto lavorare con lui, in un suo film. Gli interessavano film che facessero male, non si è mai preoccupato di farsi amare dal pubblico.
Vedendo La morte di Mario Ricci è difficile non pensare che il cinema italiano nei confronti di Volonté abbia perso delle occasioni e abbia avuto troppa poca considerazione del suo talento e della sua versatilità.
È davvero un peccato che un attore del genere sia stato così poco utilizzato nel cinema italiano. Da parte sua, la volontà di non entrare nel gioco delle star ha fatto sì che ci si dimenticasse di lui. Era troppo umano, preferiva nutrirsi della realtà e non vivere delle atmosfere privilegiate della gente che riesce nello show business. Penso non abbia mai accettato di mostrarsi nelle serate di gala per farsi fotografare e fare presenza. L’ultimo film, quello di Anghelopoulos (Lo sguardo di Ulisse), confermava ancora una volta la coerenza di una scelta per la qualità rispetto al successo. Mi ha colpito molto che sia morto durante le riprese. Era un attore ormai disperato nel vedere quale fosse l’evoluzione della società, in particolare di quella italiana. Forse proprio questa disperazione, che lo ha distrutto, gli ha fatto scegliere ruoli drammatici, di resistenza.

Un attore di valenza internazionale, unico per le sue scelte…
Bisogna dire che si tratta di un attore raro, perché è raro vedere un uomo scegliere con così tanta cura i personaggi. È uno degli attori più coerenti del cinema europeo, basta guardare il percorso intrapreso nella scelta dei personaggi, ciascuno dei quali racconta un pezzo della storia italiana. Forse soltanto tra qualche tempo, attraverso i suoi film si capirà meglio l’Italia come era. E questo è di una importanza enorme, è una scelta di vita prima ancora che di attore da parte di Gian Maria. Esprime il lato dell’attore un po’ maledetto, che non regalava nulla nei suoi giudizi, né cercava di addolcirli col miele.
(*) Riproponiamo l’intervista, parzialmente edita nel volume, Gian Maria Volonté, L’immagine e la memoria (a cura di Valeria Mannelli), 1998, Ancora, Transeuropa/Cineteca di Bologna.
LA NOUVELLE VAGUE DEL CINEMA SVIZZERO di Luisa Ceretto

Traendo ispirazione dal cinema d’autore in voga in altri paesi, una nuova generazione di registi emerge negli anni sessanta del secolo scorso. Politicamente impegnati, anticonformisti e animati dall’intento di voler raccontare la vita vera, il disagio tra gli immigrati e gli emarginati, entrano, con le loro cineprese 16mm, nelle scuole e nelle fabbriche e successivamente fanno i conti con la Storia. Attenti ad una Svizzera “reale” e non a quella mitica, idealizzata, espressione di un nazionalismo che aveva del Paese una concezione di realtà a parte, di un caso unico rispetto al resto dell’Europa – come precisa lo studioso Martin Schaub nel suo volume, L’usage de la liberté -, in primo luogo tutti i registi erano attenti a descrivere fenomeni che riguardavano un paese uguale a tutti gli altri. La svolta arriva nel 1964, con la serie di cortometraggi La Suisse s’interroge di Brandt e col documentario Les Apprentis di Tanner, entrambi presentati all’Esposizione Nazionale Svizzera (1), a Losanna nel 1964, la prima del dopoguerra. Composto da cinque cortometraggi – La Suisse est belle, Problèmes, La course au bonheur, Croissance,Ton pays est dans le monde -, La Suisse s’interroge è firmato da Henry Brandt, avvicinatosi da autodidatta alla fotografia e al cinema nel 1953, dove esordisce con Les nomades de soleil con cui vince a Locarno come miglior film etnografico nel 1955. La pellicola propone una visione critica della Svizzera, dove tra paesaggi da favola si nascondono problemi come l’immigrazione e la xenofobia.

Les Apprentis di Alain Tanner è un documentario sui lavoratori apprendisti nelle fabbriche, che si ispira al cinema vérité, sarà presentato successivamente al Festival di Locarno e poi alle Giornate di Soletta, ottenendo un riscontro positivo dalla stampa. Si tratta della cronaca di vita di alcuni adolescenti che seguono uno stage professionale, undici tra ragazze e ragazzi, che provengono dalla Svizzera romanda, chi dalla città, chi dalla campagna, e, filmati, si raccontano nella loro quotidianità. Parallelamente, anche sul versante tedesco, si stava muovendo qualcosa. Il vero “tuono che risvegliò brutalmente il cinema svizzero tedesco assopito dopo la fine della guerra” come scrive il fondatore della Cinémathèque Suisse e storico del cinema, Freddy Buache, fu il documentario, Siamo italiani (1964), realizzato da Alexander J. Seiler, che per la prima volta portava sul grande schermo la figura dello straniero. Come è stato osservato: “Per la prima volta il cinema svizzero rompeva con i clichés dell’Heimatfilm, mostrando la dura realtà dei lavoratori italiani nel nostro paese, proprio quando il vento della xenofobia soffiava minaccioso, e presentandoli in quanto esseri umani, quando invece erano considerati semplicemente come ‘manodopera’ e trattati al pari di un branco di animali. Come dirà Max Frisch nella prefazione al libro di Seiler che uscì dopo il film, ‘si sono volute delle braccia, ma sono venuti degli uomini’. Dopo questo film, il cinema svizzero non sarà più lo stesso. Nel decennio successivo si consoliderà la tendenza a puntare la macchina da presa sulla realtà del paese, indagandone le zone d’ombra e portando alla luce il malessere che covava sotto l’immagine perbenista che si voleva dare della nazione. cioè quello che sarà chiamato il ‘Nuovo cinema svizzero’.” (2)

È a Soletta (Soluthurn in tedesco, Soleure in francese), nel corso di un incontro inedito tra cinefili, che darà il via alle prestigiose “Giornate cinematografiche”, (si tratta della manifestazione festivaliera più importante della Svizzera), dove viene sancita ufficialmente la fine del cinema tradizionale e la nascita del Nuovo Cinema Svizzero, un cinema d’autore, poetico e irriverente. Fino agli anni ottanta, i film di Alain Tanner, Claude Goretta, Michel Soutter, Richard Dindo, Daniel Schmid, Freddy Murer faranno difatti parlare di sé in Europa e oltreoceano, segnando un’epoca d’oro, un “piccolo miracolo svizzero”, come è stato definito dalla stampa internazionale. Il primo titolo a varcare il confine elvetico è Charles mort ou vif (1969), esordio nel lungometraggio dello svizzero romando Alain Tanner e del direttore della fotografia ticinese Renato Berta. Vero e proprio manifesto, influenzato dal movimento sessantottino francese, il film racconta la storia di un anziano imprenditore che decide di lasciarsi alle spalle il suo stile di vita. Soletta e le “Giornate”, anche per tutto il decennio successivo a quello della nascita del festival, hanno rappresentato un luogo di scambio – grazie anche alla sua posizione geografica- dove i registi romandi e quelli tedeschi, potevano ritrovarsi, e dove il terreno di incontro avveniva soprattutto attraverso le immagini, vero trait d’union di tutti e dove poi anche i registi ticinesi hanno trovato un loro spazio. Fin dai primi tempi, nella Svizzera francese è la finzione ad imporsi, grazie al ruolo pionieristico della televisione pubblica che produce i primi lavori del Groupe 5. Giovani autori tra cui, per l’appunto, Claude Goretta.
Il GROUPE 5
Agli inizi dei sessanta, cinque registi che lavoravano alla Télévision Suisse Romande,alla TSR, decidono di fondare un gruppo, per poter girare i loro lungometraggi di finzione. Creato nel 1968, il Gruppo era composto da Alain Tanner, Claude Goretta, Michel Soutter, Jean-Jacques Lagrande (sostituito in seguito da Yves Yersin), e Jean-Louis Roy, costituitosi per produrre film indipendenti con un accordo di co-produzione con la TSR, accordo che prevedeva la programmazione nelle sale cinematografiche, prima del passaggio televisivo. Opere emblematiche di un’epoca, originali e impegnate, espressioni di un cinema artigianale, girato in 16mm, dove recitano attori come Jean-Luc Bideau, Bulle Ogier, Serge Gainsbourg, Marie Dubois, Jacques Dufilho, Miou-Miou. Pellicole come Le fou, L’invitation, La merlettaia di Claude Goretta, come La Salamandre di Alain Tanner o L’inconnu de Shandigor di Roy.

Registi che avanzano nella carriera cinematografica e parallelamente in quella televisiva, nel tempo libero. L’esperienza professionale, formatasi nell’ambito televisivo arricchisce quella cinematografica e viceversa. Ad esempio, Goretta realizza Le fou, il suo primo lungometraggio per il cinema, in tre settimane, durante le sue vacanze, nel 1969. In seguito, un accordo di co-produzione con la Germania e Francia ha permesso la realizzazione di opere più ambiziose, poco alla volta il 16mm sarà abbandonato per privilegiare invece il 35mm.
Note:
- L’Expo 64 declinava le esigenze della moderna società del consumi e trasporti, con la riflessione sui valori della società elvetica sotto il motto, “croire et créer”.
- Michele Dell’Ambrogio, Alexander J. Seiler pioniere del nuovo cinema svizzero, “La Regione Ticino”, marzo 2014.

IL PAESE CHE FORSE NON C’È di Pietro Bellasi
Pubblichiamo un testo di Pietro Bellasi (*), apparso nel 2001 in occasione di una Rassegna dedicata alla Nouvelle Vague del Cinema Svizzero degli anni settanta, presentata in alcune città italiane. Sociologo e studioso di antropologia dell’arte, il prof. Bellasi è stato docente per decenni presso l’Università di Bologna e poi alla Sorbonne di Parigi, ed è scomparso nel 2018 all’età di 86 anni. Cittadino svizzero e italiano, laureatosi in Sociologia presso la Faculté de Sciences Economiques et Sociales di Ginevra, nel 1971 Bellasi iniziò ad insegnare Sociologia a Bologna, dove è stato titolare della cattedra sino al 2004, tenendo anche corsi di Sociologia dell’arte a Scienze della comunicazione pubblica e sociale.

“La Suisse n’existe pas”, scriveva Ben (Vautier) con la sua calligrafia candidamente tonda e ostentatamente diligente. Che poi la Svizzera esista o meno credo non importi più niente a nessuno; che cioè da qualche parte in Europa ci sia qualcuno dedito a eseguire con cura miniaturistica, maniacale, il bricolage dei resti di una cultura alpestre collassata e sbriciolata come i detriti di quelle montagne che disegnano i paesaggi tra i più belli del mondo. Qui dove, nella totale indigenza di altre materie prime, si trovavano, al contrario, giacimenti inesauribili di nostalgia: di natura selvaggia, di avventure e di “rischio frenato”, di originarietà pastorale e di purezza montanara. Così, come sostiene l’antropologo ginevrino Bernard Crettaz, gli svizzeri, forse ispirati e aiutati anche dalle dimensioni miniaturistiche del loro paese e dai delicati meccanismi a orologeria del loro sistema politico divennero, a partire dalla Belle Epoque, i più straordinari creatori del “joli”, cioè del “grazioso” e del pittoresco. Leggende, sogni, aure, fantasmi contro i quali sembra scatenarsi prima la grande Storia e poi l’avvento dei consumismi e delle culture di massa. Cade il mito più “svizzero” della “riserva naturale” sotto i colpi della disneylandizzazione della natura residuale, un mito che, in comune forse solo col Giappone, sembrava potersi conciliare se non addirittura poter equilibrare, esorcizzare la presenza dei giganti inquinanti dell’industria chimica.

Ma cade anche il mito del perbenismo istituzionale sotto i colpi degli scandali politici; e quello dell’altruismo nazional-popolare, della neutralità e della “terra d’asilo” sotto i colpi degli storici della seconda guerra mondiale. Allora, forse potremmo dire: “La Suisse n’existe plus”: il ché corrisponde a dire con lo scrittore zurighese Hugo Lötscher che la Svizzera, ora, si presenta come un “paese normale” e che finalmente anche agli svizzeri è concesso il grande privilegio della mediocrità.
La riconquista della mediocrità: questo potrebbe essere il titolo della rassegna “nouvelle vague” del cinema svizzero degli anni ’70. Un cinema che improvvisamente, sorprendentemente, direi con coraggiosa crudeltà disvela le miserie culturali, spirituali e umane del mito capitalistico del paradiso elvetico e delle sue leggende metropolitane e paesane. Tuttavia questo risultato, sia pur importante all’interno dell’”immaginario elvetico”, da solo non rende ragione dello shock che il cinema svizzero produsse al momento anche fuori dal paese d’origine. Io credo che l’elemento allora di assoluta novità fosse l’analisi spietata di una dimensione di cui la “cultura svizzera” (pur con tutte le articolazioni delle sue componenti così differenziate) era sempre stata impregnata: quella della vita quotidiana, della sua trivialità, della sua anepicità, della sua ripetitività costellata di riti minimi; una quotidianità la cui temporalità ciclica poteva ben apparire come un securizzante rifugio dall’assedio angoscioso del tempo lineare della grande Storia considerata in qualche modo come “la follia di tutti gli altri”.
Ad ogni modo si trattava di una dimensione stagnante, sorda e opaca, privata ormai di ideologia, ma anche di utopia, di sogni, di progettualità, di entusiasmi, di prospettive, di generosità intellettuali e dei sentimenti; in una parola, desertificata di epicità e di eticità nel dissolversi d’ogni plausibile dover-essere. A volte sordida, sempre subdolamente tragica, come ancor prima del cinema, ce l’avevano narrata, attraverso il loro male di vivere, grandi scrittori quali Robert Walser anzitutto e poi anche Annemarie Schwarzenbach e Friedrich Dürrenmatt e Max Frisch e Fritz Zorn: tutti autori che potremmo dire disperatamente svizzeri.

L’unidimensionalità, ovvero questa superficializzazione della rappresentazione sociale del tempo, già post-industriale e post-moderna tanto fortemente presente per esempio negli Stati Uniti con espressioni così forti come la pop e l’iperrealismo, planerà come un effetto-serra sulla fine degli anni ’70 un po’ in tutta l’Europa, fino allora ancora assai stordita dagli ultimi schiamazzi dei velleitarismi rivoluzionari e sovversivi. Per la Svizzera era una cultura già ben consolidata del jour-après-jour, nata forse nel fuoco dei suoi due grandi paradossi: da un lato il livello avanzatissimo delle scienze, delle tecnnologie, delle industrie da anni aperte al mondo nella loro antica vocazione multinazionale, dall’altro la difesa caparbia e quasi nevrotica di una specificità etnico-nazionale fatta di genuinità e di nitori originari. Un contrasto a volte drammatico tra megalizzazione centrifuga e miniaturizzazione centripeta che ritroviamo nell’altro paradosso elvetico, che può essere sintetizzato nel dire che l’identità svizzera consiste proprio nella mancanza d’identità: cosmopolitismo e localismo esasperati ne sono la conseguenza, vale a dire ancora una volta l’estremizzazione degli opposti, il centrifugo e il centripeto.

Così, in questo paese non troviamo segni forti, tracce profonde, monumenti che testimoniano quella strana fluorescenza boreale d’identità: troviamo piuttosto ciò che potremmo definire una segnaletica d’identificazione fatta soprattutto proprio di quella estetizzazione della vita quotidiana che ha fornito a base a tanti luoghi comuni su questo paese: la pulizia puntigliosa, la finizione e la manutenzione ossessiva dei manufatti, dagli arredi urbani ai treni, ai marciapiedi, alle cataste di legna degli chalet alpini. Cosmogonie di oggetti destinati ad una durata eterna stringono d’assedio la caducità di fragili esistenze. Proprio per questo una delle chiavi stilistiche di questi film è un certo iperrealismo, una sorta di nitida allucinazione d’ambienti e di suppellettili inerti del mondo che fanno da cornice a rapporti sociali balordi, a ferrei luoghi comuni, a insignificanti e triviali miti collettivi, ad esotiche rêveries ed evasioni da impiegati di banca e commesse di grandi magazzini. Vi è poi la componente visionaria e, al contempo, espressionistica, interpretata soprattutto da Daniel Schmid e che Harald Szeemann ha mirabilmente illustrato nella mostra La Suisse visionnaire. È una lunga tradizione che nelle arti visive potremmo reperire addirittura da Füssli e Böcklin, al tardo Hodler e agli espressionisti svizzeri come Schürch, Epper, i fratelli Gubler, Pauli fino a Klee e allo stesso Alberto Giacometti. La tragicità del tempo ciclico di una vita quotidiana prigioniera della coazione a ripetere col suo carico d’istinto di morte, accartoccia e macera storie individuali esiliate dalla grande Storia, dalle sue tragedie corali, dalle sue catastrofi, dalle sue nemesi e resurrezioni. Proprio come in Alberto Giacometti, grumi di esistenze emergono dal nulla e si sgretolano camminando.
(*) Testo apparso nel Quaderno n. 35, “I quaderni del Lumière”, Nouvelle Vaghe CH. Il Nuovo Cinema Svizzero degli anni ’70, a cura di Maelia Carera e Sandro Vitali, febbraio 2001. Edito in occasione della rassegna omonima a cura di Maelia Carera e Sandro Vitali, promossa da Pro Helvetia – Fondazione Svizzera per la Cultura, Ente Mostra Internazionale del Cinema Libero, Cineteca del Comune di Bologna.

FILMOGRAFIA
Cinema
- Nice Time – cortometraggio, co-diretto con Alain Tanner (1957)
- Le retour – cortometraggio (1961)
- Un dimanche de mai – cortometraggio (1963)
- La miss à Raoul – cortometraggio (1963)
- Le Fou (1970)
- L’invito (L’invitation) (1973)
- Il difetto di essere moglie (Pas si méchant que ça) (1975)
- La merlettaia (La dentellière) (1977)
- Le Jour de noces (1977)
- La provinciale (1981)
- Bonheur toi-même – cortometraggio (1980)
- La morte di Mario Ricci (La mort de Mario Ricci) (1983)
- Orfeo (1985)
- Se il sole non tornasse (Si le soleil ne revenait pas) (1987)
- Les ennemis de la mafia (1988)
- Gesichter der Schweiz – documentario, episodio “Nicole Niquille, Bergführerin” (1991)
- Visages suisses – documentario (1991)
- L’ombre (1992)

Televisione
- Inventaire chez Jacques Prévert (court métrage (13 min 19 s), Télévision suisse romande (1961)
- Le Dossier Chelsea Street (téléfilm d’après la pièce de Walter Weideli (1961)
- Continents sans visa – serie TV, 1 episodio (1963)
- Jean-Luc persécuté – film TV (1966)
- Vivre ici – film TV (1969)
- Le temps d’un portrait – film TV (1971)
- Passion et mort de Michel Servet – film TV (1975)
- L’épistémologie génétique de Jean Piaget – film TV (1977)
- Les chemins de l’exil ou Les dernières années de Jean-Jacques Rousseau – film TV (1978)
- L’heure Simenon – serie TV, 1 episodio (1987)
- La grande collection – serie TV, 1 episodio (1994)
- Het verdriet van België – miniserie TV, 2 episodi (1995)
- Il commissario Maigret (Maigret) – serie TV, 3 episodi (1991-1996)
- L’histoire du samedi – serie TV, 2 episodi (1996-1997)
- Le dernier été – film TV (1997)
- Thérèse et Léon – film TV (2001)
- La fuite de Monsieur Monde – film TV (2004)
- Sartre, l’âge des passions – film TV (2006)

PREMI E RICONOSCIMENTI
- 1973 : Premio della Giuria al festival de Cannes pour L’Invitation.
- 1977 : Premio della Giuria Ecumenica al festival de Cannes pour La Dentellière.
- 2010 : Quartz d’honneur del cinema svizzero.
- 2011 : Pardo d’oro alla carriera al Festival international du film de Locarno per l’insieme della sua opera.

© RIPRODUZIONE RISERVATA