XXIX – GIAN MARIA VOLONTÉ

Numero XXIX – Luglio 2023

Sommario:

in A ciascuno il suo (1967) di Elio Petri

NOTA BIOFILMOGRAFICA

Nato a Milano il 9 aprile 1933, ma cresciuto a Torino, dove la famiglia si era trasferita, Gian Maria Volonté nutre, sin da giovanissimo, un vivo interesse per il teatro, e vi si accosta lavorando, sedicenne, come segretario della compagnia teatrale itinerante “I carri di Tespi”. A Roma entra all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, dove si diploma nel 1957. In seguito recita in teatri come il Sant’Erasmo a Milano, lo Stabile di Trieste, dove peraltro frequenta il teatro off “La Cantina”. Raggiunge la popolarità grazie alla televisione, con un adattamento di Saul di Alfieri, in cui Volonté recita nei panni di David, con Salvo Randone, ma più ancora con L’idiota di F. M. Dostoevskij, in cui interpreta Rogožin, a fianco di Giorgio Albertazzi (programmato su RAI 1 nell’autunno del 1959). Nel 1960 Volonté ha l’occasione di entrare in contatto, a Roma, con la compagnia degli Attori Associati – che privilegia una pratica teatrale che si richiama ai fatti di cronaca – composta, tra gli altri, da Ivo Garrani, Enrico Maria Salerno e Giancarlo Sbragia. Collaborerà per due stagioni, in particolare nello spettacolo Sacco e Vanzetti (1960), diretto da Giancarlo Sbragia, dove interpreta Nicola Sacco.

Parallelamente al teatro, cui fa spesso ritorno, si unisce anche al Teatro di Strada (Flavio Bucci), è regista di due documentari, La tenda in piazza e Reggio Calabria, che documentano il suo impegno politico e l’attivismo. È il brigadiere Graziano in Io ho paura (1977) di Damiano Damiani.

ne I senza nome (1970) di Jean-Pierre Melville

Nel cinema, esordisce in un ruolo secondario nella pellicola di Duilio Coletti, Sotto dieci bandiere (1960) in cui, sul set, fa la conoscenza di Giuliano Montaldo e Carlo Lizzani. Il passo successivo avverrà due anni più tardi, è il sindacalista Salvatore Carnevale ne Un uomo da bruciare (1962) di Paolo e Vittorio Taviani. Nel 1964 (con lo pseudonimo di John Welles) è il bandito di Per un pugno di dollari  e l’anno successivo recita in Per qualche dollaro in più entrambi diretti da Sergio Leone. È regista, a teatro, de Il Vicario di Rolf Hochhuth, testo riguardante il silenzio della Chiesa e di Papa Pio XII, in tema di deportazioni ebraiche. A Roma, la rappresentazione sarà interrotta dall’irruzione della polizia, il 13 febbraio 1965. Lo spettacolo sarà successivamente presentato a Firenze e in altre città italiane. Nel 1965 con L’armata Brancaleone di Mario Monicelli interpreta l’unico ruolo comico del suo percorso attoriale. Fa la conoscenza di Elio Petri con cui avvierà una proficua collaborazione, con A ciascuno il suo (1967) – Nastro d’argento per la migliore interpretazione – , Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), La classe operaia va in Paradiso (1971) e Todo Modo (1976).

con Carla Gravina ne I sette fratelli Cervi (1968) di Gianni Puccini

Un altro incontro importante nella carriera di Volonté è quello con Carlo Lizzani, che lo dirige in Svegliati e uccidi (1966)e in Banditi a Milano (1968), e da ultimo L’amante di Gramigna (1969). Lungo gli anni settanta si consolida l’interesse da parte di Volonté verso un cinema di impegno civile. Lavora con Giuliano Montaldo in Sacco e Vanzetti (1971) e in Giordano Bruno (1973). Con Francesco Rosi, dopo Uomini contro (1969) è il protagonista nel Caso Mattei (1972), in Lucky Luciano (1973), in Cristo si è fermato a Eboli (1979) e avrà ancora occasione di collaborare nel film Cronaca di una morte annunciata (1987).

L’inizio degli anni ottanta, dopo un forzato ritiro dalle scene per ragioni di salute, lo vede impegnato a teatro in un adattamento schnitzleriano del Girotondo (ottobre 1981), insieme a Carla Gravina.

Ritorna al cinema, dopo la malattia, con La morte di Mario Ricci (1983) dello svizzero Claude Goretta, con cui ottiene la Palma d’oro come migliore interprete. Cinque anni più tardi collabora con André Delvaux ne L’opera al nero (1988), tratto da Marguerite Yourcenar. In Italia lavora con Giuseppe Ferrara nel Caso Moro (1986, Orso d’argento a Berlino, come migliore interprete)con Gianni Amelio in Porte aperte (1990, David di Donatello come migliore attore protagonista), con Carlo Vanzina (Tre colonne in cronaca, 1990) e con Emidio Greco in Una storia semplice (1991), con cui firma la sua ultima pellicola italiana. A Venezia, la Mostra del cinema nel 1991 lo premia con il Leone d’oro speciale alla carriera.

Gira, in America Latina, Funes, un gran amor (1992) di Raoul de la Torre e Il tiranno Banderas (1993) di José Louis Garcia Sanchez. Torna al teatro a Velletri dove con Angelica Ippolito allestisce Tra le rovine di Velletri, tratto dal libro-diario di Padre Laracca. Successivamente, nel 1994, collabora alla versione italiana del filmato dedicato all’opera Il canto sospeso che Luigi Nono aveva composto nel 1956 in memoria dei morti della Resistenza in Europa. Inizia le riprese del nuovo film di Theo Anghelopoulos, Lo sguardo di Ulisse, ma morirà sul set del film, il 6 dicembre 1994 a Florina, in Grecia.

Nei Senza nome di Jean-Pierre Melville

GIAN MARIA VOLONTÉ. I VOLTI DI UN GRANDE INTERPRETE DEL CINEMA DI IMPEGNO CIVILE di Luisa Ceretto 

 Io credo di aver sempre dato ai film un contributo consapevole, cosciente, ma non credo che esista un mio cinema.  Esiste il cinema d’autore, di Petri, il cinema di Rosi, il cinema di Maselli, il cinema di Montaldo, il cinema di Amelio.  A me è capitata l’avventura, abbastanza straordinaria, di attraversare un periodo legato a questi autori, a questo cinema, del nostro paese e ho dato il mio contributo. Tutto qui.  (Gian Maria Volonté, 1991) 

Protagonista di una stagione cinematografica unica, che iniziata a metà degli anni sessanta, ha raggiunto l’apice nel decennio successivo, Gian Maria Volonté ha dato vita ad una variegata e composita galleria di personaggi, interprete ineguagliabile delle ansie e delle contraddizioni della società italiana  di quegli anni. Figura chiave di un cinema di impegno civile, che si impone negli anni settanta, con registi come Giuliano Montaldo, Francesco Maselli, Paolo e Vittorio Taviani, Gillo Pontecorvo, ma soprattutto Francesco Rosi ed Elio Petri – che dopo la fortunata pagina del Neorealismo e del cinema degli anni cinquanta e inizi sessanta, ha fatto parlare di sé a livello internazionale, ottenendo importanti riconoscimenti -, di rado, le scelte professionali di un artista hanno coinciso con tanta coerenza con le scelte di vita. Gian Maria Volonté proviene dal teatro, cui farà spesso ritorno, e concepisce il mestiere dell’attore come testimonianza ideologica, ne è prova la scelta di film che corrispondano ad una certa idea di cinema, ogni titolo costituisce una tappa importante, di riflessione, ma al di là delle sue scelte di campo ha sempre perseguito un rigore professionale. Schivo, solitario, meticoloso, prodigioso, Volonté è un attore che ha spesso scelto di interpretare “uomini contro”, un punto irrinunciabile per lui, che lo ha orientato nel lavoro e nella scelta, appunto, dei personaggi. Personaggi con tale comune denominatore, eppure diversissimi tra loro, frutto di un lavoro “bizantino e indefesso”, quasi ossessivo, esercizio di studio, dalle mille sfaccettature. Camaleonte dalla versatilità senza pari, Volonté affronta i suoi protagonisti reinterpretandoli, racchiudendone l’essenza in un gesto, in uno sguardo, come ricorda Francesco Rosi, “s’impadroniva dell’animo del personaggio”.

in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri

Nasce a Milano il 9 aprile 1933, ma la famiglia di lì a poco si trasferisce  a Torino, dove trascorre l’infanzia e l’adolescenza. In uno scenario su cui incombe il conflitto bellico, nell’autunno del 1942 le continue incursioni aeree costringono i Volonté  a lasciare il capoluogo subalpino per rifugiarsi nell’astigiano, a Valfenera, dove il giovane Gian Maria potrà ultimare le elementari. Torino, sullo sfondo della ricostruzione del dopoguerra, è la città dove Volonté scopre l’interesse per il teatro. Dopo aver interrotto gli studi e svolto lavori saltuari, comincia a frequentare lo Studio Drammatico Internazionale i Nomadi, una scuola di recitazione fondata da Edoardo Maltese, dove ha la sua prima esperienza sulle scene ne L’Antigone.  Nell’autunno del 1951 è alla ricerca di una nuova compagnia, si rivolge al Teatro itinerante dei “Carri di Tespi” di Mario Ruta di passaggio, appunto, a Torino. All’inizio è impiegato come aiutante di scena, successivamente con ruoli via via più importanti. Come egli stesso ricorda: “Giravamo l’Italia del Nord…si montava in piazza il tendone con le capriate in legno, le sedie per il pubblico, la pedana per gli attori e, d’inverno, le grosse stufe a segatura, finchè non avevamo esaurito il repertorio” (1). Nel 1953 lavora con la compagnia di Alfredo De Santis, calcando palcoscenici di teatri importanti come il Politeama Giacosa di Napoli o ancora il Carignano di Torino. L’anno successivo riesce ad entrare nell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, a Roma, dove si diploma nel 1957.

in Cristo si è fermato a Eboli (1979) di Francesco Rosi

Il legame col Piemonte lo conserva nel tempo nell’interpretazione di personaggi subalpini memorabili.  Unica la capacità di calarsi nei protagonisti di pellicole importanti come Banditi a Milano (1968), Sacco e Vanzetti (1971) e Cristo si è fermato a Eboli (1979). All’indomani dei primi successi cinematografici coi western firmati da Sergio Leone (1965-1966), nel novembre 1967, Volonté si trasferisce a Milano, per le riprese del film ispirato alle vicende della banda Cavallero – un gruppo di rapinatori politicizzato che aveva terrorizzato il Nord Italia, il cui ricordo era ancora vivo nell’immaginario collettivo -, per interpretare il ruolo del leader, Pietro Cavallero. Diretto da Carlo Lizzani, Banditi a Milano inaugura il filone del poliziesco all’italiana. Interessante ciò che dichiara il regista su Volonté/Cavallero, che “si presentava al contempo come protagonista e antagonista. Un bandito, un uomo che andava battuto, che doveva rappresentare un perdente ma al tempo stesso aveva una carica di ambiguità, di populismo”(2). E ancora Lizzani, ricordava: “Eravamo nascosti nel sedile posteriore della macchina, con cui Volonté/Cavallero fuggiva dalla polizia; a me venivano i brividi quando sentivo la sua voce sarcastica urlare contro la polizia le stesse battute che mesi prima il vero Cavallero aveva pronunciato. Se io avevo i brividi mentre lo ascoltavo quando lui urlava, non era perché sembrava vero, ma perché la sua sensibilità interpretativa aveva creato uno straordinario effetto di realtà reinventata (…) Siamo rimasti tutti colpiti dal modo in cui ha saputo cogliere quel sarcasmo, quell’ironia tipica del personaggio Cavallero ed anche la sua mitomania (…) Volonté fa affiorare questo groviglio inestricabile che c’è nell’uomo tra bene e male, tra valore e non valore”(3).

Gian Maria Volonté in Banditi a Milano (1968) di Carlo Lizzani

Come ha osservato Fabrizio Deriu, “Volonté inizia a sperimentare per il personaggio di Cavallero alcune soluzioni di trasformazione dei tratti della fisionomia. Nel gioco che stabilisce tra il volto dell’attore e la maschera del personaggio si comincia a leggere il consolidarsi di un modo di lavorare sul fisico che si perfezionerà di lì a poco nel disegno di personaggi sorprendentemente potenti. Il modo di sorridere e sogguardare di Cavallero è studiato con precisione” (4). Del resto coglie perfettamente le esclamazioni, scandite in un inconfondibile accento torinese, e presta altrettanta attenzione nell’aspetto fisico: “portamento eretto, all’occorrenza spavaldo o amichevolmente accattivante (non lontano da quello che vedremo più tardi nel commissario di Indagine)”(5).

con Riccardo Cucciolla in Sacco e Vanzetti (1971) di Giuliano Montaldo

Nel 1971, in Sacco e Vanzetti,  la pellicola diretta da Giuliano Montaldo, Gian Maria Volonté interpreta Bartolomeo Vanzetti, emigrato piemontese di Villafalletto, nel cuneese, che raggiunge, ventenne, Plymouth in Massachusetts, e che, insieme a Nicola Sacco, il 23 agosto 1927, sarà ingiustamente condannato alla pena di morte, pellicola che ha sensibilmente contribuito alla riabilitazione storica e morale di Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco negli Stati Uniti. Gian Maria Volonté tornava sullo stesso soggetto dello spettacolo teatrale di undici anni prima, con un’inversione di ruolo, nei panni, difatti, del piemontese Bartolomeo Vanzetti, al fianco di Riccardo Cucciolla in quelli del pugliese Vincenzo Sacco. Volonté aveva lo stesso atteggiamento protettivo che Vanzetti aveva con Sacco. Come racconta Cucciolla: “Con Gian Maria c’è sempre stata una lotta…: ‘No, in questo primo piano devi andare avanti tu perché è giusto che sia così’ …E io facevo la stessa cosa con lui… “(6). Sul set, Volonté era preparatissimo: “Come di consueto aveva ricopiato minuziosamente le battute della sceneggiatura, annotando e sottolineando le parole, i silenzi, un lavoro che trasformava la sceneggiatura in uno spartito musicale. Tra lui e Montaldo non ci furono momenti conflittuali, come in altre occasioni, rimaneva nella parte anche nelle pause: un piemontese schivo, di poche parole”(7).  A proposito del lavoro di Volonté sul personaggio di Bartolomeo Vanzetti, Montaldo ricorda: “Direi che proprio in Sacco e Vanzetti ho visto cosa vuol dire lo studio, l’assimilazione immediata di certi aspetti, la ‘spugna’. Mi ricordo che feci vedere a Gian Maria alcune sequenze che avevo portato dagli Stati Uniti trovate alla Libreria del Congresso e alla Cineteca Nazionale di Washington. Gli feci vedere alcuni momenti un po’ stentorei che aveva questo anarchico dolce ma dall’aspetto forte. Bisognava quindi mettere insieme questi due aspetti, questo della stentoreità un po’ proterva e questo piacere, come dire?, di passare alla storia che Vanzetti avvertiva. Via via che il movimento popolare nel mondo stava crescendo, c’era (…) un uomo, un pescivendolo, che stava diventando sempre più attento, aveva sempre di più appreso, capito, studiato in questi anni di carcere. Quindi facendogli vedere quel materiale, dove si intuiva questo tipo di doppio lavoro che c’era dentro questo personaggio (…) Gian Maria lo aveva colto al volo. E devo dire che se adesso dovessi ripensare a un momento che abbiamo rifatto (…) Se adesso dovessi dire quale dei due documentari fosse quello vero e quello presentato da Gian Maria, ho delle difficoltà a dirlo” (8).

con Paolo Bonacelli in Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi

Per quanto, come è stato affermato, l’impiego di Volonté nel film sia quantitativamente minore rispetto a quello di Riccardo Cucciolla, “qualitativamente, tuttavia, quella di Vanzetti è una delle più intense interpretazioni date da Volonté nell’arco della sua carriera d’attore (…) c’è un’adesione ideale nei confronti non soltanto del film in generale, ma anche della specifica parte (…) verso quella che fu appunto la battaglia umana e civile di cui Bartolomeo Vanzetti fu suo malgrado il protagonista e il simbolo (9). Allora, risolto il problema dell’aspetto esteriore del personaggio nel modo più semplice e diretto (ma in ogni caso con meticolosa accuratezza, recuperando i tratti caratteristici della figura di Vanzetti come fissata nei documenti fotografici e cinematografici: folti baffoni scuri, capelli corti (…) forte inflessione dialettale della terra piemontese d’origine), Volonté concentra il suo lavoro sulla resa dei contenuti interiori e intellettuali della parte” (10).

nel Sospetto (1975) di Francesco Maselli

Nel 1979 firma la penultima collaborazione con Francesco Rosi, è Carlo Levi nel romanzo autobiografico, Cristo si è fermato a Eboli (che racconta del periodo in cui lo scrittore torinese è condannato dal regime fascista nel 1935-36 a vivere al confino, in Basilicata), che Volonté aveva avuto modo di conoscere a metà degli anni sessanta. “Il libro di Levi”, sono parole di Volonté, ”ha proprio agito in profondità, ha lasciato un grosso segno, e stando lì si sente anche maggiormente che è proprio la sintesi di un’esperienza molto profonda (…) Quello che a Rosi interessava, e anche a me, era la mediazione che questo personaggio poteva fare fra l’occhio di Franco, che era quello della macchina da presa, e il mondo contadino che pian piano si andava scoprendo: quindi un rapporto di mediazione continua. E ci interessavano a grandi linee non tanto i segni esteriori di Levi ma l’idea di un intellettuale di tipo europeo, cresciuto e formatosi in uno spazio culturale come quello di Torino di quegli anni” (11). La recitazione di Volonté in questo film non presenta particolari invenzioni. “Eppure il suo personaggio è la chiave di volta dell’architettura compositiva sulla quale si regge la trasposizione cinematografica del romanzo. In primo luogo Volonté sostiene il film al giusto livello di esecuzione e di recitazione, ovvero su quel piano dove si realizza l’incontro di attori diversi che devono coordinare e armonizzare le singole parti e gli stili individuali di recitazione in un insieme che deve risultare omogeneo (…) Levi è uno ‘straniero’ nel Sud, dunque un elemento estraneo e non familiare di fronte al quale reazioni e atteggiamenti non naturali o, più precisamente, di naturalezza simulata o recitata possono essere giustificati (…) In secondo luogo Volonté sostiene eccellentemente la non facile impresa di traduzione dei complessi temi e rapporti presenti nel romanzo in una diversa materia espressiva, che è quella propria della recitazione. È noto lo scrupolo con cui Volonté si addentrava nella conoscenza del testo originale nel caso di sceneggiature tratte da opere letterarie, ma il Cristo si è fermato a Eboli potrebbe essere l’oggetto-modello di un inedito studio sulle modalità in cui l’attore entra in gioco nella riscrittura e nella ricomposizione delle strutture narrative nel passaggio dal romanzo al film”(12). 

nel Caso Mattei (1972) di Elio Petri


Ma come Gian Maria Volonté ha saputo tratteggiare con maestria e puntuale precisione idiomatica e caratteriale i protagonisti delle pellicole qui sopra citate, altrettanto ha saputo calarsi in figure appartenenti ad altre culture e latitudini geografiche. Si pensi, ad esempio, alle opere di Leonardo Sciascia, di cui è stato accuratissimo interprete in A ciascuno il suo (1967) e Todo modo (1976) di Elio Petri, poi in Porte Aperte (1990) di Gianni Amelio o ancora in Una storia semplice (1991) di Emidio Greco. Volonté svolge un lavoro accuratissimo portando all’attenzione linguaggi settoriali, come quello politico, burocratico, giuridico. Riesce ad essere con uguale bravura il commissario di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), così come il metallurgico della Classe operaia va in Paradiso  (1971) entrambi diretti da Petri, il presidente dell’Eni del Caso Mattei (1972) di Rosi o ancora il militante comunista del Sospetto (1975) di Maselli. Dopo un allontanamento forzato nei primi anni ottanta dalle scene, nel frattempo la cinematografia italiana sembra allontanarsi dalla sua vocazione e interesse verso un cinema impegnato, si apre un nuovo capitolo artistico per Volonté in cui lo stile recitativo muta sensibilmente, dove mette in scena un animo ferito, tormentato, dando vita a personaggi che arricchiscono ulteriormente la sua gamma di ritratti, è il caso del giornalista televisivo Bernard Fontana ne La morte di Mario Ricci (1983) dello svizzero Goretta, o di Zenone dell’Opera al nero di André Delvaux (1988).

in La classe operaia va in Paradiso (1971) di Elio Petri

Quando nel 1991 a Venezia ottiene il Leone d’oro alla carriera, Volonté dichiara: “Francamente non ho mai pensato al mio lavoro di attore in termini di carriera. Fin dagli inizi, sia quando ero all’accademia, sia quando ho interpretato i primi ruoli, persino quando ho fatto il suggeritore, mi piaceva il luogo, la ‘casa’ del teatro, che poi in seguito è diventata la casa del cinema. E forse non c’è mai stata un’idea di carriera, come di un percorso obbligato. Ecco perché di volta in volta mi riferisco al film che faccio e mi concentro nel personaggio” (13). Può essere interessante, a tal proposito, elencare i film che ha rinunciato a interpretare. Scinde il contratto già firmato di Metti una sera a cena (1968) di Giovanni Patroni Griffi. Successivamente, il rifiuto più noto riguarda la proposta da parte di Federico Fellini di fare Il Casanova (parte che poi sarà di Donald Sutherland). Rinuncia all’offerta di Bernardo Bertolucci di lavorare in Ultimo tango a Parigi e poi in Novecento, come nel Padrino di Coppola. Dopo essersi proposto, declina l’invito ad interpretare il protagonista di Padre padrone dei fratelli Taviani. Per quanto riguarda il lavoro e la tecnica di Gian Maria Volonté, il docente universitario Ferruccio Marotti evidenzia la singolare capacità, da un lato, di usare mezzi della tradizione, e dall’altro una totale novità di presenza e nell’uso di strumenti interpretativi, individuandone la modernità nel suo essere “attore di spettacolo”, al di là del mezzo tecnico che aveva di volta in volta a disposizione, poteva trattarsi di televisione, cinema, teatro.  Lo studioso suggerisce, infatti, di tenere presente, nell’universo figurativo dell’attore, questi due aspetti: il primo, dato dal rapporto con la grande tradizione italiana (e in particolare vanno ricordati Orazio Costa e Sergio Tofano dell’Accademia romana, dove Volonté si era diplomato); il secondo, invece, era rappresentato da Strehler. “Realmente Gian Maria rappresenta quello che in qualche modo è stato il mito degli ultimi anni di Stanislavskij, la capacità di entrare nel personaggio dall’esterno o dall’interno a seconda delle situazioni, il ‘metodo delle azioni fisiche’.

in Porte aperte (1990) di Gianni Amelio

Era un attore che da un lato giungeva ad una comprensione graduale, progressiva e profonda del personaggio, e dell’altra si estraniava dal personaggio stesso. Le sue interpretazioni più famose, infatti, danno un’immagine totalmente straniata (…) Ecco la cosa straordinaria per me, storico dello spettacolo, è questa capacità di Gian Maria di dare del personaggio sempre i due aspetti, l’oggettivo e il soggettivo insieme.” (14) Attore dalle straordinarie capacità tecniche, il suo percorso artistico si contraddistingue per l’unicità nel rigore, nella serietà, oltre che per l’assoluta dedizione ai progetti ai quali ha partecipato. Un “autore-attore”, tra i maggiori interpreti del cinema mondiale, come è stato definito da Welles, da Bergman, che ha dato vita sullo schermo a figure dall’interiorità tormentata, complesse, mai scontate, molto distanti dai personaggi che più facilmente vengono attribuiti alla tipologia nazionale, legata a certa tradizione del cinema nostrano. 

Nel Magnifico cornuto (1964) di Antonio Pietrangeli

Nello scorso decennio il Museo Nazionale del Cinema di Torino, per celebrare uno degli interpreti più grandi del cinema italiano, ha istituito un Fondo Gian Maria Volonté grazie alla figlia, Giovanna Gravina Volonté, che ha donato l’intera documentazione in suo possesso relativa al padre. Il Fondo documenta una parte importante dell’attività di Volonté, in particolare l’ultima parte del suo percorso, gli anni ottanta e novanta, con documenti come contratti, corrispondenza, scritti e documenti personali risalenti anche alla fine degli anni cinquanta e fino ai settanta. Oltre alle sceneggiature, ai documenti di lavoro e ai contratti dei film interpretati da Gian Maria Volonté, un’ampia sezione è costituita da una serie di soggetti e sceneggiature, di film realizzati o meno, che furono inviate e proposte allo stesso Volonté. Non mancano le testimonianze in campo teatrale con testi e copioni di spettacoli diretti e/o interpretati da Volonté o semplicemente vagliati dall’attore. Tra i documenti di carattere privato, oltre ad appunti, scritti e corrispondenza, spicca un’ampia raccolta di carte nautiche, testimonianza della passione per la barca a vela da parte di Volonté. Tra il 17 maggio e 15 settembre 2017 si è svolta a Torino la mostra Sotto il segno di Volonté, attraverso i materiali che Giovanna Gravina Volonté aveva donato poco prima.  Per ricordare il grande attore che lo scorso aprile avrebbe compiuto 90 anni, proponiamo un’intervista alla figlia Giovanna e a due registi che hanno lavorato con lui.

Nel Caravaggio (1967) di Silverio Blasi

Giovanna Gravina Volonté, figlia di Gian Maria Volonté e di Carla Gravina, è ideatrice e direttrice del Festival “La valigia dell’attore”. Ci siamo conosciute diversi anni fa, in occasione di una delle prime edizioni del Festival, e ci siamo di recente nuovamente incontrate. E’ stata l’occasione per chiederle di raccontarci delle iniziative in ricordo del padre, della manifestazione che si tiene ogni anno in luglio alla Maddalena, che rende omaggio a Gian Maria Volonté e a pagine del cinema che lo hanno avuto come straordinario protagonista e che, attraverso un laboratorio attoriale, “Valigialab”, è anche rivolta al futuro, agli interpreti di domani.

A seguire, proponiamo due interviste rilasciate nel 1998 da André Delvaux, regista belga, scomparso nel 2002, e Claude Goretta, regista svizzero scomparso nel 2019, che avevamo incontrato, in occasione di una manifestazione in memoria di Gian Maria Volonté, promossa da Cineteca di Bologna, Museo Nazionale del Cinema di Torino e Palazzo delle Esposizioni di Roma. Avevamo chiesto di raccontarci la loro collaborazione con lui, protagonista, rispettivamente, de L’opera al nero (1988) e de La morte di Mario Ricci (1983) (15).

In Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi

NOTE:

  1. Mirko Capozzoli, Gian Maria Volonté, pag. 26, add editore, Torino, 2018
  2. Fabrizio Deriu, Gian Maria Volonté. Il lavoro d’attore, pag. 211, Bulzoni Editore, Roma, 1997
  3. Carlo Lizzani in, Valeria Mannelli (a cura di), Gian Maria Volonté. L’immagine e la memoria, pag. 55, Transeuropa/Cineteca di Bologna, Ancora, 1998
  4. Fabrizio Deriu, op. cit. pag. 212
  5. Ivi, pag. 212
  6. Mirko Capozzoli, op. cit., pag. 163
  7. Ivi,  pag. 1
  8. Fabrizio Deriu, op. cit. pag. 2
  9. Nella vicenda reale è Bartolomeo Vanzetti ad aver lasciato la maggior parte dei documenti scritti. È sui suoi testi  che Woody Guthrie compone un ciclo di canzoni e Joan Baez la ballata per il film di Montaldo. Si rimanda al numero XIV di “Primi Piani” al testo di Anna Albertano su Sacco e Vanzetti, Heres to you Bartomeo Vanzetti e Nicola Sacco
  10. Fabrizio Deriu, op. cit. pag. 224-225
  11. Mirko Capozzoli, op. cit., pag. 21
  12. Fabrizio Deriu, op. cit., pag. 250
  13. Mirko Capozzoli, op. cit., pag. 279
  14. Ferruccio Marotti in Fabrizio Deriu, op. cit. pagg. II-VI
  15. Entrambi gli incontri sono pubblicati nel volume, Gian Maria Volonté. L’immagine e la memoria (a cura di Valeria Mannelli) nella sezione “Incontri con i cineasti della sua vita”, 1998, Ancona, Transeuropa/Cineteca.
In Sbatti il mostro in prima pagina (1972) di Marco Bellocchio

CONVERSAZIONE CON GIOVANNA GRAVINA VOLONTÉ di Luisa Ceretto

Giovanna Gravina Volonté, per gentile concessione di Associazione Quasar – La valigia dell’attore, edizione 2020. Dipinto di Tina Loiodice ©Benedetta Scatafassi

Giovanna, tu sei figlia d’arte, quali sono i tuoi primi ricordi di tuo padre, Gian Maria Volonté?  Come sei riuscita a coniugare l’immagine privata con quella pubblica?

Sono nata da due attori giovanissimi, all’epoca mia mamma aveva vent’anni e mio padre ne aveva 28. Riportandoli ad oggi, erano veramente piccoli, poi, all’epoca, erano vent’anni diversi.

In un contesto tra l’altro assurdo dove esisteva una legge per cui io non potevo essere riconosciuta perché mio padre era già sposato, infatti fu uno scandalo incredibile, la vicenda della ragazza madre. E non potevo essere riconosciuta, altrimenti sarei diventata automaticamente la figlia della moglie di mio padre. Questo era il contesto in cui sono nata. Ovviamente ci ho messo un po’ per capire che i miei genitori facevano gli attori e cosa significasse essere attori. Però, ricordo un episodio suggestivo, ero seduta in braccio a Gian Maria, avrò avuto cinque o sei anni al massimo, ed eravamo tutti e due davanti alla televisione, rigorosamente in bianco e nero, a guardare il Caravaggio di Blasi (1), che lui aveva interpretato. Nell’ultima scena è raffigurato Caravaggio mentre muore nella spiaggia della Fertilia e io, ad un certo punto, comincio a piangere disperatamente e Gian Maria che invece continuava a tranquillizzarmi e a consolarmi dicendo, ‘ma io sono qui, quella è una finzione’. Ecco, forse è stato il primo momento in cui ho capito che le cose erano separate.

in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri

E so di un altro episodio, me lo ricorda mia madre, che a teatro, ero piccolina, vedendola svenire in scena, ho urlato. Successivamente i miei si sono separati, ho vissuto un po’ anche con lui, poi con una zia, sicuramente la mia non era una famiglia normale. Però anche la ricchezza, al di là delle mancanze, erano genitori che lavoravano tantissimo, in giro per il mondo e non li vedevo moltissimo, ma altrettanto, appunto, la ricchezza di andarli a trovare, di viaggiare, di essere stata sul set di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, o su quello de La classe operaia va in Paradiso, o del Cristo si è fermato a Eboli.

Ho avuto l’opportunità di stare tanto dentro ai teatri, mia mamma ha anche fatto una carriera teatrale, in tournée. Diciamo che, come al solito, c’è il bene e il male come in tutte le cose, una vita abbastanza strapazzata ma straordinaria.

La parte con Gian Maria più importante per me, la memoria più intima tra padre e figlia, io l’ho vissuta con lui nei nostri viaggi in barca, una dimensione fortunatissima, un privilegio assoluto che ho avuto. Sono stati viaggi abbastanza straordinari che abbiamo fatto fino ad un certo punto, ovviamente, mi sembra fino al 1982-1983, la barca a vela fu poi venduta. Durante la mia adolescenza, abbiamo fatto un bellissimo viaggio io e lui da soli, dovevamo partire, pareva per un anno, avrei dovuto studiare da privatista, ma poi, in realtà, è durato tre mesi, gli hanno offerto un film e siamo rientrati, ma io ho comunque fatto l’anno scolastico da privatista.

Giovanna Gravina Volonté, per gentile concessione di Associazione Quasar – La valigia dell’attore, edizione 2021 ©Nanni Angeli

Questa sua dimensione altra, è quella che ho vissuto di più, anche negli anni in cui frequentavamo la Maddalena, ero bambina, e poi si trasferì a Velletri. 

Il legame vero, profondo è stato quello creatosi in quegli undici metri, si chiamava Arzachena. Sulla barca ho imparato tante cose perché, ad esempio, ero disordinata e lo sono ancora, però si deve invece avere una disciplina, lui era anche un po’ paranoico, ma un ottimo maestro di vita e di tutto.

E, nel tempo, come lo hai conosciuto attraverso il suo lavoro, i suoi film…

Per quanto riguarda il suo lavoro, Gian Maria ci teneva tantissimo, ricordo che ci rimaneva male se non andavo subito al cinema a vedere un suo film appena uscito, e poi mi coinvolgeva facendomi vedere le letture che faceva, una volta mi ha chiesto di aiutarlo per le pause.

Visto che per un certo tempo ho lavorato come assistente per il doppiaggio, allora mi coinvolgeva così, su piccole cose. Però poi quando interpretava un ruolo, c’era questa cosa per cui tutti noi, gli affetti che vivevano a stretto contatto con lui, o comunque chi lo frequentava quando si stava preparando, erano momenti in cui si alternava la meraviglia, ma anche il timore di mangiare con Moro, con Lucky Luciano o con non so chi, perché entrava proprio nel ruolo.

in Giordano Bruno (1973) di Giuliano Montaldo

Ricordo una volta in cui mi trattava come una cretina, e io mi domandavo perché mi stesse trattando in quel modo, stava preparando Il tiranno Banderas. Quando ho visto il film, ho scoperto che il protagonista ha una figlia infelice, quindi mi stava usando, se glielo avessi chiesto razionalmente avrebbe negato, in molti casi gli attori sono anche un po’ vampireschi, ti vampirizzano…

A proposito del metodo di recitazione di Gian Maria Volonté, qual è la tua opinione in merito?

Il lavoro, oggi, è completamente diverso da quello di allora, lo sono i mezzi per farlo, è cambiato tutto. Secondo me Gian Maria aveva qualcosa di straordinario, al di là dell’attorialità. Questo lo vedo perché nell’immaginario collettivo, le persone ancora mi contattano e magari sono anche giovani, e stupisce, infatti, che lo possano conoscere, però ne hanno sempre un’idea di umanità, di quello che poi ha fatto anche per tante cause. Battaglie intraprese, pensiamo al ‘voce-volto’ (2), è intervenuto, anche umanamente, per cambiare questo mestiere.

in Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi

I contesti oggi sono diversi e forse non c’è neanche più il tempo di lavorare come faceva lui, i ritmi sono cambiati, però, indipendentemente da questo, lui partiva sicuramente da un’indagine di ricerca e di studio capillare, di documentazione. Poi il rapporto con gli autori-registi era fondamentale, infatti con alcuni, se non si creava, entrava in conflitto. Se ripensi ai suoi personaggi sono protagonisti assoluti, icone, è un risultato che il regista e l’attore devono creare insieme.

Dei tanti ruoli indimenticabili, qual era il suo personaggio preferito?

Giovanna Gravina Volonté e Ferruccio Marotti per gentile concessione di Associazione Quasar – La valigia dell’attore, edizione 2009 ©Barbara Calanca

Difficile dirlo, ripenso a Giordano Bruno di Giuliano Montaldo, ad esempio, lì l’ho amato moltissimo, ma come del resto in tutti i suoi film, come nella vita.

Ritengo che ci sia una fase precedente ed una successiva. Ci sono personaggi interpretati fino ad un certo punto, anche grotteschi, via via poi è andato sempre a togliere, se penso al suo sguardo nella prima scena del Cristo si è fermato a Eboli, in cui guarda il paesaggio, senza dire nulla, ma racconta tutto. È molto più per sottrazione, è di quella fase anche Una storia semplice, di Emidio Greco. Poi ci sono personaggi che rimangono più impressi, come il commissario (di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto), come Lulù Massa (La classe operaia va in Paradiso) però mi sembra che abbia fatto un percorso incredibile, anche in relazione alla sua età, alla sua storia e pensiero.

Figura carismatica, di grande spessore e presenza scenica, attore impegnato, il pubblico e gli studiosi lo conoscono per il grande zelo e serietà con cui lavorava su ogni nuovo personaggio. Quanto questa immagine corrisponde a quella che hai di lui, ci sono aspetti del suo carattere che necessariamente i più ignorano, di cui vuoi dire qualcosa?

C’è un lato istrionico di Gian Maria, spiritoso, scherzoso, che siamo in pochi ad aver potuto conoscere. Si divertiva come un matto a fare scherzi. Infatti, ad un certo punto del suo percorso artistico, c’erano in ballo e si sarebbero potuti forse fare due progetti, uno con Troisi e l’altro con Villaggio. Secondo me, lui avrebbe forse potuto tirare fuori, come in parte aveva fatto, ad esempio, interpretando Teofilatto in L’armata Brancaleone, una parte più ilare che era insita in lui, pur nella drammaticità delle tragedie familiari, al di là di tutto, in certe occasioni, era un giocherellone, inimmaginabile e provocatorio…

Lontano dall’essere una star, qual era il suo rapporto con gli spettatori?

con Ricky Tognazzi in Una storia semplice (1991) di Emidio Greco

Io ricevo se non tutti i giorni, ma quasi, messaggi attraverso i social, in particolare facebook, di persone, attestati di ammirazione, di grande affetto. Gian Maria è rimasto nell’immaginario del pubblico ma anche di chi lo ha scoperto da poco, dei più giovani. Del resto, come lui stesso diceva, ha avuto la fortuna di lavorare in una stagione straordinaria e in ogni suo film c’è un forte contributo personale.

Una stagione cinematografica unica, gli anni sessanta e settanta in Italia, che purtroppo è andata via via esaurendosi nel decennio successivo e che ad una personalità di quel calibro, non ha saputo offrire nuove opportunità lavorative…

Sì, Gian Maria non ha più lavorato in Italia, gli anni ottanta lo hanno escluso, è rimasto fuori. A parte Una storia semplice, ha lavorato e girato all’estero, in Belgio, in Argentina. Certo, ha ovviamente anche pagato certe posizioni prese, non era amatissimo da tutti…

L’ultimo personaggio a cui stava lavorando e che non è riuscito ad ultimare, era quello del direttore e custode della Cineteca di Sarajevo sotto le bombe in Lo sguardo di Ulisse per Theo Anghelopoulos, una figura che avrebbe interpretato benissimo. Per certi aspetti è il ruolo che stai svolgendo tu, quanto ti senti custode della sua memoria?

Per me è stato casuale, non casuale perché sono sua figlia, ma arrivare a creare questa manifestazione, ovviamente non sono stata da sola, mi hanno aiutato tantissime persone che ringrazierò per sempre. Eppure, mi sono resa conto che, creando questa situazione, ma non ne ero cosciente, sarei diventata un po’ il punto di riferimento di chi vuole scrivere libri, fare documentari, o sapere. Sento che sta acquisendo un certo peso, un onere troppo importante e difficile da sostenere, mi trovo in un momento di passaggio…

Un signore che non conosco su facebook mi ha chiesto se questo cordone ombelicale non sia forse ora di tagliarlo. Indipendentemente da questo, sei riconoscibile perché svolgi un’iniziativa pubblica, ti scrivono, ti telefonano ed è certamente un lavoro impegnativo anche faticoso. Però per me, e questo è un insegnamento di Gian Maria e anche di mia madre, senza la memoria non si va da nessuna parte e il fatto che adesso io ne abbia sempre di meno mi sconvolge.

per gentile concessione di Associazione Quasar –La valigia dell’attore, edizione 2021 ©Nanni Angeli

Ci puoi raccontare come nasce il tuo festival, con l’Associazione Quasar, nel 2003?

In realtà l’Associazione nasce molto prima, perché qui da noi, a La Maddalena, mancava il cinema. Così abbiamo aperto la prima arena e poi abbiamo fatto l’invernale, abbiamo riportato il cinema sull’isola. Poi nel 2003, avendo un rapporto col prof. Marotti dell’Università di Roma che dirigeva il Centro Teatro Ateneo de La Sapienza Università di Roma, che aveva promosso una rassegna dedicata a Gian Maria con cinque film, decidemmo di riproporla in inverno, nella sala isolana. Dopo di che abbiamo pensato di creare una manifestazione legata al lavoro d’attore, partendo da Gian Maria e andando oltre. La“Valigia dell’attore” è al suo ventesimo anno, mentre del “Valigialab”, il laboratorio gratuito di alta formazione per attori che segue la rassegna, è la tredicesima edizione. Devo dire che il laboratorio, la parte della formazione, è quella che mi premerebbe di più mantenere, anche perché il resto è sempre più difficile, è veramente un modo di lavorare improbo, però siamo andati avanti fino ad ora, con la passione, oggi mi sento una scellerata senza essermi preoccupata del mio avvenire, ma ho fatto quello che ho fatto sempre di getto e credendoci. Non è che non creda in ciò in cui ho creduto finora, il partire dalla memoria per ricordare e andare avanti ha sempre un senso, ma vedo che il mondo va veramente in un’altra direzione e a questo punto non so se mi interessa. Forse per l’età, o forse dovrei adeguarmi e proporre le serie tv, ma io non ho neppure Netflix, vivo su un altro pianeta, sono legata a quello che ho studiato del cinema di una volta. Largo ai giovani!

per gentile concessione di Associazione Quasar – La valigia dell’attore, Mostra dei manifesti originali dei film, edizione 2009 © Marco Sedda 2

In seguito, si è anche aggiunto il Premio Gian Maria Volonté, di cosa si tratta?

Sì, il premio è stato istituito da Felice Laudadio, prima a Roma poi a Taormina e, da ultimo, a Bari. Felice è solito istituire molti premi, allora gli ho proposto di trasferire a La Maddalena il Premio Gian Maria Volonté, dove si svolge una manifestazione dedicata a lui e mi sembrava il contesto più giusto per Gian Maria. È chiaro che non abbiamo la forza del Festival di Bari (BIF&ST), però, alla fine, lo abbiamo convinto e ce lo ha donato, anche se è già pronto a riprenderselo, appena ha sentito la mia intenzione di mollare tutto. Diciamo che non si tratta necessariamente di un riconoscimento all’attore o agli attori dell’anno, è soprattutto un premio all’eccellenza, un premio affettivo, dico io.

E con La Maddalena, qual era il suo legame con l’isola?

Gian Maria ha vissuto qui, è stato in porto e nell’arcipelago, l’ha frequentato e conosciuto molto bene, prima in barca poi la casa, le case, mia madre fu la prima ad acquistarne una. Qui se lo ricordano come una persona molto umile, tranquilla, andava al bar e chiacchierava con tutti. Era stato accettato molto bene perché non aveva alcun tipo di fanatismo, era una persona semplice e gli piacevano cose molto semplici, gli piaceva pescare, come del resto piace a me…

Il Museo del Cinema di Torino ha istituito un Fondo Gian Maria Volonté, com’è nato, ce ne vuoi parlare?

Io e Angelica Ippolito, l’ultima compagna di Gian Maria, abbiamo donato, lei le cose che conservavano nell’ultima casa dove hanno vissuto insieme a Velletri, e altre che avevo io, le abbiamo riunite, abbiamo acquisito tutti i manifesti originali, infatti abbiamo fatto una bellissima mostra. Gian Maria non era uno che come me conserva tutto, lui nei vari traslochi, lasciava o regalava. Dal Museo mi hanno chiesto informazioni sui Premi…a parte il Leone d’oro di Venezia che ha Angelica, i premi Gian Maria li dava via, forse li regalava, ma non li abbiamo mai trovati. Una volta ne aveva lasciato uno in aeroporto, non che non ci tenesse a prenderli, però l’oggetto in sé evidentemente non lo interessava. E invece tutti i suoi libri, le carte nautiche, tutti i copioni, buona parte anche di quelli che ha rinunciato a fare e poi la documentazione è tutto al Museo di Torino che ha dedicato un Fondo. Abbiamo deciso per il Museo, perché lì ci sono già i Fondi di Elio Petri, di Francesco Rosi, ci sembrava giusto. E poi, tra l’altro, Gian Maria ha vissuto a lungo a Torino.

Note:

  1. Caravaggio di Silverio Blasi soggetto e sceneggiatura di Andrea Barbato e Ivo Perilli, voce narrante di Riccardo Cucciolla, produzione RAI, 1967, 207 minuti, bianco e nero, 3 puntate.
  2. “Voce-Volto di Gian Maria Volonté” è la battaglia che l’artista intraprese affinché gli attori non venissero doppiati e quindi non si sentissero più meri elementi di un grande ingranaggio, ma valorizzati nella loro interezza. all’epoca gli attori venivano doppiati in sala di registrazione, perdendo così una parte importantissima – la voce appunto – della fase interpretativa. Nessuno aveva mai osato mettere in discussione questa granitica regola del cinema italiano, anche perché erano i produttori a volerlo – per ragioni economiche – e non era il caso di fare la guerra a chi poteva determinare le sorti di una carriera. Un dogma, il voce-volto, per tutti ma non per Gian Maria Volonté, secondo cui il ruolo dell’attore doveva completarsi a 360 gradi.
per gentile concessione Associazione Quasar –La valigia dell’attore, edizione 2019 ©Ugo Buonamici

GIAN MARIA VOLONTÉ NEL RICORDO DI DUE REGISTI

Proponiamo due interviste rilasciate nel 1998 da André Delvaux, regista belga, scomparso nel 2002, con cui Gian Maria Volonté ha realizzato L’opera al nero e Claude Goretta, regista svizzero, scomparso nel 2019, autore, tra gli altri lungometraggi, di La morte di Mario Ricci (1983) (*)

INCONTRO CON ANDRÉ DELVAUX di Luisa Ceretto

 

Accostandosi al romanzo L’opera al nero di Marguerite Yourcenar, ha pensato a Gian Maria Volonté quale interprete del personaggio del medico. Quando è accaduto?

Avevo già lavorato due anni sull’adattamento di L’opera al nero di Marguerite Yourcenar senza fissarmi per il ruolo di Zenone su di un attore in particolare. Dopo aver fatto una rapida carrellata dei nostri migliori attori europei la cui vita o l’etica personale potessero corrispondere a questo lato duro, emaciato che la Yourcenar aveva dato a Zenone, si è imposta quasi ad un tratto – ma molto tardi -, l’idea che potesse essere Volonté. Infatti ho scritto a Marguerite Yourcenar: ‘Gian Maria Volonté sarebbe forse uno Zenone notevole, non soltanto per il fisico (un po’ meno emaciato rispetto a quella Terracotta che lei mi ha inviato, ma con un aspetto più netto e bruciante), ma anche per il suo essere quasi muto. Parla poco, senza esuberanza, con parole misurate… È un uomo rigoroso, la cui carriera è irreprensibile: nessun compromesso, nessun film vergognoso’. Se in tutta la sua carriera omogenea si era visto un film un po’ a parte quello era Per un pugno di dollari, di Leone… ma poi ancora! Per me lui era davvero l’Uomo da bruciare dei Taviani, così come i diversi personaggi interpretati nei film di Rosi o Petri… Il nostro contatto è stato diretto e forte, con lunghi silenzi. Stava già ‘diventando’Zenone.

Vittima esemplare del razzismo, Zenone Ligre, potrebbe essere un eroe dei nostri giorni. Un ruolo che deve aver subito affascinato Gian Maria Volonté.

Una cosa stupefacente in lui che non ho scoperto in nessun altro attore: sin dal nostro primo incontro a Parigi, fino alla prima proiezione di L’ opera al nero a Cannes, ho sempre avuto la sensazione di non aver conosciuto in lui altri che Zenone, mai il ‘vero Volonté’. Lui stesso si fotografava, mi scriveva spesso note illeggibili, camminava curvo per strada, si piegava sulla tazzina del caffè in un dehors di un bar dove nessuno lo riconoscesse. Diventava e rimaneva Zenone nella sua vita più quotidiana, tanto che mi convinsi che per una fortuna incredibile, Volonté per la sua stessa natura assomigliasse al personaggio di Zenone che sognavo di scoprire. Immagini il mio stupore nel ritrovarlo due anni più tardi a Cannes, nei panni del giudice di Amelio per Porte aperte, irriconoscibile! Come poteva l’affascinante compagna di Gian Maria vivere la sua vita con più uomini dai caratteri e dai tratti fisici così radicalmente diversi tra loro?

Ne L’opera al nero c’è un cast davvero straordinario, che rende il film ancora più intenso, più forte. Con alcuni attori lei aveva già lavorato. Guardando al risultato finale si direbbe che anche con Volonté ci sia stata una buona intesa.

Il rapporto di Gian Maria Volonté con gli altri attori poteva essere o intenso, o nullo, ma sempre lucido e feroce, dipendeva dalla considerazione che lui poteva avere, buona o cattiva. Giudicava velocemente, senza errori: in due parole e con un gesto, mi dimostrava la sua incondizionata ammirazione per Samy Frey (Il Priore Cordelier) o per Jean Bouise (Il vecchio Campanus) o per Senne Rouffaer (il procuratore Le Cocq).

Il modo di recitare di Gian Maria Volonté, la sua straordinaria capacità di ‘diventare’ il personaggio che recitava, sfugge a qualsiasi definizione. È un attore moderno, ma al tempo stesso classico. È stato anche definito brechtiano, ma in qualche modo la sua impostazione è vicino al metodo di Stanislavskij. Rappresenta comunque un caso unico. Qual è la sua opinione?

Penso che, molto lontano da Brecht che rifiutava questo genere di identificazione, si fosse creato nella linea di Stanislavskij, ma spinto all’estremo, una tecnica d’identificazione che soltanto lui poteva confondere con la sua propria vita.

A proposito dei suoi film lei ha dichiarato che costituiscono come una sorta di corpo unico perché realizzati in una stessa direzione e concepiti secondo un principio che rimanda ad un’unica morale e modo di vivere con gli altri. Forse è la stessa sensazione che si può provare di fronte alla filmografia di Volonté, alla galleria dei personaggi che con coerenza e rigore ha costruito nel corso della sua carriera…

Vivo attraverso i film che faccio, e non ne faccio altri. Dicono ciò che sono, e mi fermerò quando avrò la sensazione di averlo detto abbastanza. Ho la certezza che Gian Maria Volonté fosse così. I suoi film dicono l’uomo che era. È stato quando ha detto tutto che la cosa si è fermata. È l’uomo che si era identificato nell’attore nel corso dei trenta film che ha interpretato? O piuttosto l’attore nell’uomo che ha dato vita a trenta personaggi fino all’ultimo ruolo?

INCONTRO CON CLAUDE GORETTA di Luisa Ceretto

Verso la fine degli anni settanta, la crisi che coinvolge in Italia soprattutto un certo cinema impegnato, sembra compromettere le stesse possibilità di lavoro per Gian Maria Volonté, quasi che l’attore potesse interpretare soltanto un certo tipo di ruoli, ruoli ‘politici’. Quali sono le ragioni che lo hanno spinto a scegliere Gian Maria per il personaggio del suo film?

Gian Maria in particolare nei film di Rosi, li ho visti tutti, mi è sembrato l’attore ideale per quello che volevo fare. Era un attore che interpretava all’americana, nel senso migliore del termine, era un attore molto fisico che sapeva riempire lo spazio dell’inquadratura e al tempo stesso ritenevo il suo percorso esemplare per le scelte che aveva fatto. Tra tutti gli attori europei era quello con cui avevo più voglia di lavorare.

Con La morte di Mario Ricci Volonté ottiene la Palma d’oro per la migliore interpretazione maschile, come è stato l’incontro con lui?

Ho conosciuto la prima volta Gian Maria a Genova, dove stava lavorando ad una messinscena con un gruppo di studenti. L’ho incontrato, insieme allo scrittore con cui avevo scritto la sceneggiatura, sul retro di una trattoria, ricordo che salutava e si comportava come una persona qualsiasi, penso di non aver mai visto un attore così umile. Ho pensato che Gian Maria potesse essere il solo attore capace di comprendere il mio progetto, infatti, già a Genova avevo avuto la conferma di quanto fosse attento agli altri. A Gian Maria ho raccontato la mia esperienza, cosa che lo ha molto interessato. Non è stato difficile per lui avvicinarsi a questo storia.

Qual è stata la sua esperienza lavorativa con Gian Maria?

Con Gian Maria si discuteva di tutto, ci completavamo. Quando andavamo a mangiare, la gente spesso gli diceva, ‘ma ho l’impressione di averla vista da qualche parte’, lui, però, non diceva chi era, al contrario, rispondeva, ‘sì, forse sono passato di qui un’altra volta’.

Gian Maria era il diavolo e il buon Dio, aveva i due lati, era questo che mi interessava. Quando nel film, per esempio, dà uno schiaffo al ragazzo, d’un tratto rivela il suo lato violento. Ci siamo forse scontrati una o due volte, ma ci siamo sempre adorati. C’è stato un lavoro molto fraterno tra noi, c’era una comunicazione permanente. A quell’epoca era uscito E.T. di Spielberg, ricordo che in un giornale francese di sinistra “Libération”, erano uscite almeno sei pagine su quel film. Entrambi reagivamo in modo molto simile, eravamo scioccati. Anche a Cannes, nessuno dei due aveva lo smoking, mi aveva detto che non voleva assomigliare ad un pinguino come tutti gli altri…

Se in altri film l’aspetto più rimarchevole è la sua capacità mimetica di assomigliare al personaggio, è il caso di Mattei o di Vanzetti, qui la forza risiede nella capacità di interpretare nell’immobilità e nella quasi assenza di dialogo. Un ruolo molto impegnativo…

È una recitazione nell’impotenza. La sua capacità di entrare nella pelle di un personaggio, è la qualità rara del grande attore ed è davvero affascinante. Gian Maria sapeva utilizzare ammirevolmente il proprio corpo. Per esempio, quando entrava in macchina, si sedeva in modo da riempire tutto lo spazio della scena, non c’era nulla da correggere. Spesso altri attori prendono pose teatrali. Gian Maria, invece, non amava questi limiti. Anche dopo le riprese, continuava a tenere gli stessi indumenti, la giacca era la mia.

Volonté non amava molto parlare di sé, né del suo metodo di lavoro. Cosa può dirci a questo proposito?

L’approccio di Volonté al lavoro era molto serio. Ci sono metodi che non si percepiscono perché si sono compresi a livello intuitivo. Durante le riprese del film c’erano sequenze per le quali aveva difficoltà – per esempio quando era ubriaco e doveva ironizzare sulle cose – a utilizzare un linguaggio diverso dal suo. Era un attore molto più tragico che comico.

Forse questa è una delle ragioni per cui, rispetto ad altri attori, il pubblico italiano lo ha amato meno?

Certamente Gian Maria voleva avere un rapporto serio e grave con la realtà, soprattutto politica. Gli interessavano film che facessero male, non si è mai preoccupato di farsi amare dal pubblico.

Vedendo La morte di Mario Ricci è difficile non pensare che il cinema italiano nei confronti di Volonté abbia perso delle occasioni e abbia avuto troppa poca considerazione del suo talento e della sua versatilità.

È davvero un peccato che un attore del genere sia stato così poco utilizzato nel cinema italiano. Da parte sua, la volontà di non entrare nel gioco delle star ha fatto sì che ci si dimenticasse di lui. Era troppo umano, preferiva nutrirsi della realtà e non vivere delle atmosfere privilegiate della gente che riesce nello show business. Penso non abbia mai accettato di mostrarsi nelle serate di gala per farsi fotografare e fare presenza. L’ultimo film, quello di Anghelopoulos (Lo sguardo di Ulisse) confermava ancora una volta la coerenza di una scelta per la qualità rispetto al successo. Mi ha colpito molto che sia morto durante le riprese. Era un attore ormai  disperato nel vedere quale fosse l’evoluzione della società, in particolare di quella italiana. Forse proprio questa disperazione, che lo ha distrutto, gli ha fatto scegliere ruoli drammatici, di resistenza.

con Yves Montand e Alain Delon nei Senza nome di jean-Pierre Melville

Un attore di valenza internazionale, unico per le sue scelte…

Bisogna dire che si tratta di un attore raro, perché è raro vedere un uomo scegliere con così tanta cura i personaggi. È uno degli attori più coerenti del cinema europeo, basta guardare il percorso intrapreso nella scelta dei personaggi, ciascuno dei quali racconta un pezzo della storia italiana. Forse soltanto tra qualche tempo, attraverso i suoi film si capirà meglio l’Italia come era. E questo è di una importanza enorme, è una scelta di vita prima ancora che di attore da parte di Gian Maria. Esprime il lato dell’attore un po’ maledetto, che non regalava nulla nei suoi giudizi, né cercava di addolcirli col miele.

Nota:

(*) Entrambi gli incontri sono pubblicati nel volume, Gian Maria Volonté. L’immagine e la memoria (a cura di Valeria Mannelli) nella sezione “Incontri con i cineasti della sua vita”, 1998, Ancona, Transeuropa/Cineteca di Bologna.

FILMOGRAFIA DI GIAN MARIA VOLONTÉ

con Irene Papas in A ciascuno il suo di Elio Petri

CINEMA

con Lou Castel in Quien sabe? (1967) di Damiano Damiani
con Angelica Ippolito

TELEVISIONE

Ne La strada più lunga (1965) di Nelo Risi
in La certosa di Parma (1982) di Mauro Bolognini

PREMI E RICONOSCIMENTI

Festival di Cannes, Premio per la migliore interpretazione maschile, 1982
Leone d’oro alla carriera, Mostra del cinema di Venezia, 1991
con Margarethe von Trotta alla cerimonia di Premiazione nel 1990 European Film Award
con Harvey Keitel sul set di Lo sguardo di Ulisse di Theo Anghelopoulos

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