
A partire dalla metà degli anni cinquanta, attraverso la sua cinepresa, lei scopre realtà fino ad allora poco conosciute, offrendo un’immagine del Meridione del tutto inconsueta…
Dal ’54 al ’59 ho realizzato una decina di film. Con questi documentari volevo rappresentare un mondo, una cultura via di estinzione. Ma, soprattutto, riscattare l’immagine, spesso negativa, di un sud poco noto.
Coerentemente con la lezione neorealista ed alcuni suoi dettami come il pedinamento e la realtà che parla da sola, nei suoi lavori lo sguardo è volutamente oggettivo, distaccato. Un atteggiamento per cui sovente è stato accusato di essere contemplativo e poco critico.
Non sono d’accordo con questa critica, perché ritengo che l’autore si possa esprimere anche senza prendere posizione. Forse manca uno schieramento partitico, ma c’è una presa di posizione che è politica.

Con Banditi a Orgosolo si misura col lungometraggio. Il film è frutto di un lungo lavoro iniziato con Un giorno in Barbagia e Pastori a Orgosolo sulla realtà sarda.
Nel film ho cercato di raccontare la storia di una cultura. È forse l’unico film che piaccia ai sardi sul fenomeno del banditismo. Si è trattato di una lunga collaborazione con la gente del posto. Non c’era un’idea precisa. Il film è un “film in atto”, senza regole. E i protagonisti della storia sono soggetti attivi, parti in causa.
Spesso l’eccessiva letterarietà dei dialoghi doppiati contrasta con la forza drammatica del racconto.
Sarebbe stato molto bello presentare il film in dialetto, con i sottotitoli in italiano. Ma purtroppo non sarebbe stato accettato né dal pubblico, né dalla distribuzione.

Con Un uomo a metà e L’invitata, abbandona l’indagine sociale, per esplorare l’universo psicanalitico e quello amoroso. Come ha proceduto per la sceneggiatura?
Sono stato fortemente criticato per questo cambiamento. Eppure ho sempre fatto ciò che sentivo. Per quello che riguarda la lavorazione, lascio molto all’improvvisazione. La sceneggiatura è solo una traccia, e non va seguita a tutti i costi.
Con Diario di un maestro, oltre a riallacciarsi all’esperienza realistica del suo primo lungometraggio, ha inizio la collaborazione con la televisione. C’è stata un’evoluzione nei suoi lavori, dai suoi primi documentari degli anni ’50 a quelli più recenti come Quando la scuola cambia o In Calabria degli anni novanta?

A partire dagli anni settanta, ma soprattutto dagli anni ottanta, ho rivolto la mia attenzione verso il documentario didattico. In questo senso c’è stata un’evoluzione nel mio lavoro, che riguarda soprattutto un modo diverso di girare ed una maggiore cura nel far comprendere il messaggio. Ho tolto di mezzo l’autore, quindi il mio punto di vista, a favore della chiarezza. Se all’inizio i miei film erano senza commento, ora considero la parola uno strumento essenziale.
(*) Apparsa su “Cineteca” maggio-giugno 1995
