Proponiamo due interviste rilasciate nel 1998 da André Delvaux, regista belga, scomparso nel 2002, con cui Gian Maria Volonté ha realizzato L’opera al nero e Claude Goretta, regista svizzero, scomparso nel 2019, autore, tra gli altri lungometraggi, di La morte di Mario Ricci (1983) (*)
INCONTRO CON ANDRÉ DELVAUX di Luisa Ceretto

Accostandosi al romanzo L’opera al nero di Marguerite Yourcenar, ha pensato a Gian Maria Volonté quale interprete del personaggio del medico. Quando è accaduto?
Avevo già lavorato due anni sull’adattamento di L’opera al nero di Marguerite Yourcenar senza fissarmi per il ruolo di Zenone su di un attore in particolare. Dopo aver fatto una rapida carrellata dei nostri migliori attori europei la cui vita o l’etica personale potessero corrispondere a questo lato duro, emaciato che la Yourcenar aveva dato a Zenone, si è imposta quasi ad un tratto – ma molto tardi -, l’idea che potesse essere Volonté. Infatti ho scritto a Marguerite Yourcenar: ‘Gian Maria Volonté sarebbe forse uno Zenone notevole, non soltanto per il fisico (un po’ meno emaciato rispetto a quella Terracotta che lei mi ha inviato, ma con un aspetto più netto e bruciante), ma anche per il suo essere quasi muto. Parla poco, senza esuberanza, con parole misurate… È un uomo rigoroso, la cui carriera è irreprensibile: nessun compromesso, nessun film vergognoso’. Se in tutta la sua carriera omogenea si era visto un film un po’ a parte quello era Per un pugno di dollari, di Leone… ma poi ancora! Per me lui era davvero l’Uomo da bruciare dei Taviani, così come i diversi personaggi interpretati nei film di Rosi o Petri… Il nostro contatto è stato diretto e forte, con lunghi silenzi. Stava già ‘diventando’Zenone.
Vittima esemplare del razzismo, Zenone Ligre, potrebbe essere un eroe dei nostri giorni. Un ruolo che deve aver subito affascinato Gian Maria Volonté.

Una cosa stupefacente in lui che non ho scoperto in nessun altro attore: sin dal nostro primo incontro a Parigi, fino alla prima proiezione di L’ opera al nero a Cannes, ho sempre avuto la sensazione di non aver conosciuto in lui altri che Zenone, mai il ‘vero Volonté’. Lui stesso si fotografava, mi scriveva spesso note illeggibili, camminava curvo per strada, si piegava sulla tazzina del caffè in un dehors di un bar dove nessuno lo riconoscesse. Diventava e rimaneva Zenone nella sua vita più quotidiana, tanto che mi convinsi che per una fortuna incredibile, Volonté per la sua stessa natura assomigliasse al personaggio di Zenone che sognavo di scoprire. Immagini il mio stupore nel ritrovarlo due anni più tardi a Cannes, nei panni del giudice di Amelio per Porte aperte, irriconoscibile! Come poteva l’affascinante compagna di Gian Maria vivere la sua vita con più uomini dai caratteri e dai tratti fisici così radicalmente diversi tra loro?
Ne L’opera al nero c’è un cast davvero straordinario, che rende il film ancora più intenso, più forte. Con alcuni attori lei aveva già lavorato. Guardando al risultato finale si direbbe che anche con Volonté ci sia stata una buona intesa.

Il rapporto di Gian Maria Volonté con gli altri attori poteva essere o intenso, o nullo, ma sempre lucido e feroce, dipendeva dalla considerazione che lui poteva avere, buona o cattiva. Giudicava velocemente, senza errori: in due parole e con un gesto, mi dimostrava la sua incondizionata ammirazione per Samy Frey (Il Priore Cordelier) o per Jean Bouise (Il vecchio Campanus) o per Senne Rouffaer (il procuratore Le Cocq).
Il modo di recitare di Gian Maria Volonté, la sua straordinaria capacità di ‘diventare’ il personaggio che recitava, sfugge a qualsiasi definizione. È un attore moderno, ma al tempo stesso classico. È stato anche definito brechtiano, ma in qualche modo la sua impostazione è vicino al metodo di Stanislavskij. Rappresenta comunque un caso unico. Qual è la sua opinione?
Penso che, molto lontano da Brecht che rifiutava questo genere di identificazione, si fosse creato nella linea di Stanislavskij, ma spinto all’estremo, una tecnica d’identificazione che soltanto lui poteva confondere con la sua propria vita.
A proposito dei suoi film lei ha dichiarato che costituiscono come una sorta di corpo unico perché realizzati in una stessa direzione e concepiti secondo un principio che rimanda ad un’unica morale e modo di vivere con gli altri. Forse è la stessa sensazione che si può provare di fronte alla filmografia di Volonté, alla galleria dei personaggi che con coerenza e rigore ha costruito nel corso della sua carriera…

Vivo attraverso i film che faccio, e non ne faccio altri. Dicono ciò che sono, e mi fermerò quando avrò la sensazione di averlo detto abbastanza. Ho la certezza che Gian Maria Volonté fosse così. I suoi film dicono l’uomo che era. È stato quando ha detto tutto che la cosa si è fermata. È l’uomo che si era identificato nell’attore nel corso dei trenta film che ha interpretato? O piuttosto l’attore nell’uomo che ha dato vita a trenta personaggi fino all’ultimo ruolo?
INCONTRO CON CLAUDE GORETTA di Luisa Ceretto

Verso la fine degli anni settanta, la crisi che coinvolge in Italia soprattutto un certo cinema impegnato, sembra compromettere le stesse possibilità di lavoro per Gian Maria Volonté, quasi che l’attore potesse interpretare soltanto un certo tipo di ruoli, ruoli ‘politici’. Quali sono le ragioni che lo hanno spinto a scegliere Gian Maria per il personaggio del suo film?
Gian Maria in particolare nei film di Rosi, li ho visti tutti, mi è sembrato l’attore ideale per quello che volevo fare. Era un attore che interpretava all’americana, nel senso migliore del termine, era un attore molto fisico che sapeva riempire lo spazio dell’inquadratura e al tempo stesso ritenevo il suo percorso esemplare per le scelte che aveva fatto. Tra tutti gli attori europei era quello con cui avevo più voglia di lavorare.
Con La morte di Mario Ricci Volonté ottiene la Palma d’oro per la migliore interpretazione maschile, come è stato l’incontro con lui?
Ho conosciuto la prima volta Gian Maria a Genova, dove stava lavorando ad una messinscena con un gruppo di studenti. L’ho incontrato, insieme allo scrittore con cui avevo scritto la sceneggiatura, sul retro di una trattoria, ricordo che salutava e si comportava come una persona qualsiasi, penso di non aver mai visto un attore così umile. Ho pensato che Gian Maria potesse essere il solo attore capace di comprendere il mio progetto, infatti, già a Genova avevo avuto la conferma di quanto fosse attento agli altri. A Gian Maria ho raccontato la mia esperienza, cosa che lo ha molto interessato. Non è stato difficile per lui avvicinarsi a questo storia.

Qual è stata la sua esperienza lavorativa con Gian Maria?
Con Gian Maria si discuteva di tutto, ci completavamo. Quando andavamo a mangiare, la gente spesso gli diceva, ‘ma ho l’impressione di averla vista da qualche parte’, lui, però, non diceva chi era, al contrario, rispondeva, ‘sì, forse sono passato di qui un’altra volta’.
Gian Maria era il diavolo e il buon Dio, aveva i due lati, era questo che mi interessava. Quando nel film, per esempio, dà uno schiaffo al ragazzo, d’un tratto rivela il suo lato violento. Ci siamo forse scontrati una o due volte, ma ci siamo sempre adorati. C’è stato un lavoro molto fraterno tra noi, c’era una comunicazione permanente. A quell’epoca era uscito E.T. di Spielberg, ricordo che in un giornale francese di sinistra “Libération”, erano uscite almeno sei pagine su quel film. Entrambi reagivamo in modo molto simile, eravamo scioccati. Anche a Cannes, nessuno dei due aveva lo smoking, mi aveva detto che non voleva assomigliare ad un pinguino come tutti gli altri…
Se in altri film l’aspetto più rimarchevole è la sua capacità mimetica di assomigliare al personaggio, è il caso di Mattei o di Vanzetti, qui la forza risiede nella capacità di interpretare nell’immobilità e nella quasi assenza di dialogo. Un ruolo molto impegnativo…
È una recitazione nell’impotenza. La sua capacità di entrare nella pelle di un personaggio, è la qualità rara del grande attore ed è davvero affascinante. Gian Maria sapeva utilizzare ammirevolmente il proprio corpo. Per esempio, quando entrava in macchina, si sedeva in modo da riempire tutto lo spazio della scena, non c’era nulla da correggere. Spesso altri attori prendono pose teatrali. Gian Maria, invece, non amava questi limiti. Anche dopo le riprese, continuava a tenere gli stessi indumenti, la giacca era la mia.
Volonté non amava molto parlare di sé, né del suo metodo di lavoro. Cosa può dirci a questo proposito?
L’approccio di Volonté al lavoro era molto serio. Ci sono metodi che non si percepiscono perché si sono compresi a livello intuitivo. Durante le riprese del film c’erano sequenze per le quali aveva difficoltà – per esempio quando era ubriaco e doveva ironizzare sulle cose – a utilizzare un linguaggio diverso dal suo. Era un attore molto più tragico che comico.

Forse questa è una delle ragioni per cui, rispetto ad altri attori, il pubblico italiano lo ha amato meno?
Certamente Gian Maria voleva avere un rapporto serio e grave con la realtà, soprattutto politica. Gli interessavano film che facessero male, non si è mai preoccupato di farsi amare dal pubblico.
Vedendo La morte di Mario Ricci è difficile non pensare che il cinema italiano nei confronti di Volonté abbia perso delle occasioni e abbia avuto troppa poca considerazione del suo talento e della sua versatilità.
È davvero un peccato che un attore del genere sia stato così poco utilizzato nel cinema italiano. Da parte sua, la volontà di non entrare nel gioco delle star ha fatto sì che ci si dimenticasse di lui. Era troppo umano, preferiva nutrirsi della realtà e non vivere delle atmosfere privilegiate della gente che riesce nello show business. Penso non abbia mai accettato di mostrarsi nelle serate di gala per farsi fotografare e fare presenza. L’ultimo film, quello di Anghelopoulos (Lo sguardo di Ulisse) confermava ancora una volta la coerenza di una scelta per la qualità rispetto al successo. Mi ha colpito molto che sia morto durante le riprese. Era un attore ormai disperato nel vedere quale fosse l’evoluzione della società, in particolare di quella italiana. Forse proprio questa disperazione, che lo ha distrutto, gli ha fatto scegliere ruoli drammatici, di resistenza.

Un attore di valenza internazionale, unico per le sue scelte…
Bisogna dire che si tratta di un attore raro, perché è raro vedere un uomo scegliere con così tanta cura i personaggi. È uno degli attori più coerenti del cinema europeo, basta guardare il percorso intrapreso nella scelta dei personaggi, ciascuno dei quali racconta un pezzo della storia italiana. Forse soltanto tra qualche tempo, attraverso i suoi film si capirà meglio l’Italia come era. E questo è di una importanza enorme, è una scelta di vita prima ancora che di attore da parte di Gian Maria. Esprime il lato dell’attore un po’ maledetto, che non regalava nulla nei suoi giudizi, né cercava di addolcirli col miele.
Nota:
(*) Entrambi gli incontri sono pubblicati nel volume, Gian Maria Volonté. L’immagine e la memoria (a cura di Valeria Mannelli) nella sezione “Incontri con i cineasti della sua vita”, 1998, Ancona, Transeuropa/Cineteca di Bologna.