Pubblichiamo un testo di Pietro Bellasi (*), apparso nel 2001 in occasione di una Rassegna dedicata alla Nouvelle Vague del Cinema Svizzero degli anni settanta, presentata in alcune città italiane. Sociologo e studioso di antropologia dell’arte, il prof. Bellasi è stato docente per decenni presso l’Università di Bologna e poi alla Sorbonne di Parigi, ed è scomparso nel 2018 all’età di 86 anni. Cittadino svizzero e italiano, laureatosi in Sociologia presso la Faculté de Sciences Economiques et Sociales di Ginevra, nel 1971 Bellasi iniziò ad insegnare Sociologia a Bologna, dove è stato titolare della cattedra sino al 2004, tenendo anche corsi di Sociologia dell’arte a Scienze della comunicazione pubblica e sociale.

“La Suisse n’existe pas”, scriveva Ben (Vautier) con la sua calligrafia candidamente tonda e ostentatamente diligente. Che poi la Svizzera esista o meno credo non importi più niente a nessuno; che cioè da qualche parte in Europa ci sia qualcuno dedito a eseguire con cura miniaturistica, maniacale, il bricolage dei resti di una cultura alpestre collassata e sbriciolata come i detriti di quelle montagne che disegnano i paesaggi tra i più belli del mondo. Qui dove, nella totale indigenza di altre materie prime, si trovavano, al contrario, giacimenti inesauribili di nostalgia: di natura selvaggia, di avventure e di “rischio frenato”, di originarietà pastorale e di purezza montanara. Così, come sostiene l’antropologo ginevrino Bernard Crettaz, gli svizzeri, forse ispirati e aiutati anche dalle dimensioni miniaturistiche del loro paese e dai delicati meccanismi a orologeria del loro sistema politico divennero, a partire dalla Belle Epoque, i più straordinari creatori del “joli”, cioè del “grazioso” e del pittoresco. Leggende, sogni, aure, fantasmi contro i quali sembra scatenarsi prima la grande Storia e poi l’avvento dei consumismi e delle culture di massa. Cade il mito più “svizzero” della “riserva naturale” sotto i colpi della disneylandizzazione della natura residuale, un mito che, in comune forse solo col Giappone, sembrava potersi conciliare se non addirittura poter equilibrare, esorcizzare la presenza dei giganti inquinanti dell’industria chimica.

Ma cade anche il mito del perbenismo istituzionale sotto i colpi degli scandali politici; e quello dell’altruismo nazional-popolare, della neutralità e della “terra d’asilo” sotto i colpi degli storici della seconda guerra mondiale. Allora, forse potremmo dire: “La Suisse n’existe plus”: il ché corrisponde a dire con lo scrittore zurighese Hugo Lötscher che la Svizzera, ora, si presenta come un “paese normale” e che finalmente anche agli svizzeri è concesso il grande privilegio della mediocrità. La riconquista della mediocrità: questo potrebbe essere il titolo della rassegna “nouvelle vague” del cinema svizzero degli anni ’70. Un cinema che improvvisamente, sorprendentemente, direi con coraggiosa crudeltà disvela le miserie culturali, spirituali e umane del mito capitalistico del paradiso elvetico e delle sue leggende metropolitane e paesane. Tuttavia questo risultato, sia pur importante all’interno dell’”immaginario elvetico”, da solo non rende ragione dello shock che il cinema svizzero produsse al momento anche fuori dal paese d’origine. Io credo che l’elemento allora di assoluta novità fosse l’analisi spietata di una dimensione di cui la “cultura svizzera” (pur con tutte le articolazioni delle sue componenti così differenziate) era sempre stata impregnata: quella della vita quotidiana, della sua trivialità, della sua anepicità, della sua ripetitività costellata di riti minimi; una quotidianità la cui temporalità ciclica poteva ben apparire come un securizzante rifugio dall’assedio angoscioso del tempo lineare della grande Storia considerata in qualche modo come “la follia di tutti gli altri”. Ad ogni modo si trattava di una dimensione stagnante, sorda e opaca, privata ormai di ideologia, ma anche di utopia, di sogni, di progettualità, di entusiasmi, di prospettive, di generosità intellettuali e dei sentimenti; in una parola, desertificata di epicità e di eticità nel dissolversi d’ogni plausibile dover-essere. A volte sordida, sempre subdolamente tragica, come ancor prima del cinema, ce l’avevano narrata, attraverso il loro male di vivere, grandi scrittori quali Robert Walser anzitutto e poi anche Annemarie Schwarzenbach e Friedrich Dürrenmatt e Max Frisch e Fritz Zorn: tutti autori che potremmo dire disperatamente svizzeri.

L’unidimensionalità, ovvero questa superficializzazione della rappresentazione sociale del tempo, già post-industriale e post-moderna tanto fortemente presente per esempio negli Stati Uniti con espressioni così forti come la pop e l’iperrealismo, planerà come un effetto-serra sulla fine degli anni ’70 un po’ in tutta l’Europa, fino allora ancora assai stordita dagli ultimi schiamazzi dei velleitarismi rivoluzionari e sovversivi. Per la Svizzera era una cultura già ben consolidata del jour-après-jour, nata forse nel fuoco dei suoi due grandi paradossi: da un lato il livello avanzatissimo delle scienze, delle tecnnologie, delle industrie da anni aperte al mondo nella loro antica vocazione multinazionale, dall’altro la difesa caparbia e quasi nevrotica di una specificità etnico-nazionale fatta di genuinità e di nitori originari. Un contrasto a volte drammatico tra megalizzazione centrifuga e miniaturizzazione centripeta che ritroviamo nell’altro paradosso elvetico, che può essere sintetizzato nel dire che l’identità svizzera consiste proprio nella mancanza d’identità: cosmopolitismo e localismo esasperati ne sono la conseguenza, vale a dire ancora una volta l’estremizzazione degli opposti, il centrifugo e il centripeto.

Così, in questo paese non troviamo segni forti, tracce profonde, monumenti che testimoniano quella strana fluorescenza boreale d’identità: troviamo piuttosto ciò che potremmo definire una segnaletica d’identificazione fatta soprattutto proprio di quella estetizzazione della vita quotidiana che ha fornito a base a tanti luoghi comuni su questo paese: la pulizia puntigliosa, la finizione e la manutenzione ossessiva dei manufatti, dagli arredi urbani ai treni, ai marciapiedi, alle cataste di legna degli chalet alpini. Cosmogonie di oggetti destinati ad una durata eterna stringono d’assedio la caducità di fragili esistenze. Proprio per questo una delle chiavi stilistiche di questi film è un certo iperrealismo, una sorta di nitida allucinazione d’ambienti e di suppellettili inerti del mondo che fanno da cornice a rapporti sociali balordi, a ferrei luoghi comuni, a insignificanti e triviali miti collettivi, ad esotiche rêveries ed evasioni da impiegati di banca e commesse di grandi magazzini. Vi è poi la componente visionaria e, al contempo, espressionistica, interpretata soprattutto da Daniel Schmid e che Harald Szeemann ha mirabilmente illustrato nella mostra La Suisse visionnaire. È una lunga tradizione che nelle arti visive potremmo reperire addirittura da Füssli e Böcklin, al tardo Hodler e agli espressionisti svizzeri come Schürch, Epper, i fratelli Gubler, Pauli fino a Klee e allo stesso Alberto Giacometti. La tragicità del tempo ciclico di una vita quotidiana prigioniera della coazione a ripetere col suo carico d’istinto di morte, accartoccia e macera storie individuali esiliate dalla grande Storia, dalle sue tragedie corali, dalle sue catastrofi, dalle sue nemesi e resurrezioni. Proprio come in Alberto Giacometti, grumi di esistenze emergono dal nulla e si sgretolano camminando.
(*) Testo apparso nel Quaderno n. 35, “I quaderni del Lumière”, Nouvelle Vaghe CH. Il Nuovo Cinema Svizzero degli anni ’70, a cura di Maelia Carera e Sandro Vitali, febbraio 2001. Edito in occasione della rassegna omonima a cura di Maelia Carera e Sandro Vitali, promossa da Pro Helvetia – Fondazione Svizzera per la Cultura, Ente Mostra Internazionale del Cinema Libero, Cineteca del Comune di Bologna.
