INCONTRO CON GIANCARLO PONTIGGIA di Bruno Brunini

Quando ha cominciato a scrivere versi, cosa l’ha avvicinata alla poesia?

Gli anni del ginnasio furono segnati da un prorompere appassionato e caotico di letture: prime furono le Fleurs du mal di Baudelaire, un poeta che non ho mai cessato di leggere, e non tanto per la carica trasgressiva dei suoi versi, quanto per la bellezza austera e malinconica, lenta e pregnante, della sintassi. Penso a Parfum exotique, con quell’incipit memorabile: Quand, les deux yeux fermés, en un soir chaud d’automne… O alla poesia che amo di più di quel libro in cui amo tutto, Le cygne, che si apre sul nome di Andromaca e si conclude su un suono di corno, mentre il pensiero va ai marinai dimenticati su un’isola, ai prigionieri, ai vinti. Ma furono soprattutto l’architettura del libro e il gioco sottile delle corrispondenze che lo tramavano a rivelarmi un nuovo modo di leggere, che era anche un modo del sentire e dello scrivere. Presto avrei scoperto il Canzoniere del Petrarca e le Bucoliche virgiliane, due libri che andavano componendosi, allo stesso modo, in virtù di parallelismi interni e di richiami a distanza.

Credo di esser sempre stato fedele, nel mio intimo, a un’idea di lirica che non si esaurisce nella singolarità di un testo, ma si muove per spirali e verticali, andando a costituire un organismo più vasto, una sorta di poema lirico che avrei riconosciuto, anni più tardi, nelle grandi raccolte montaliane: la lettura integrale degli Ossi e della Bufera costituì il momento cruciale della mia formazione poetica. Ma a scrivere non pensavo proprio. Forse perché ai miei contemporanei giunsi tardi, tra la fine del Liceo e i primi anni dell’Università, quando m’imbattei d’un sol colpo in Montale, Bertolucci, Luzi. Non puoi scrivere se non nella lingua del tuo secolo, così come non puoi pensare la dimensione poetica senza il respiro lungo della storia, la lezione dei grandi maestri dell’Occidente.

Lei è nato a Seregno e ha studiato a Milano: in quale modo la sua città d’origine, i luoghi dell’infanzia o dell’adolescenza, gli ambienti che ha frequentato e poi il confronto con Milano, hanno inciso sulla sua scrittura, sul suo immaginario?

Fin da piccolo, ho avvertito il potere che esercitava su di me il mondo dei campi, con i suoi viottoli polverosi; le corti delle cascine; l’odore dell’uva fragola e dei fichi maturi; il fieno delle stalle; i secchi di ferro rugginoso in cui batteva, con un suono malinconico e indicibile, la pioggia d’autunno; il fulgore delle ore meridiane, perenne teatro delle mie scorribande, a piedi o in bicicletta. Siamo ciò che abbiamo vissuto, e niente ci tocca più di quelle impressioni che si sono stampate negli anni della nostra infanzia. L’immaginario di Con parole remote, così selvatico e anacronistico, così estraneo alle rotte della poesia moderna, affonda in quelle origini.

Milano venne più tardi, quando mi iscrissi a Lettere, in Statale: e furono anch’essi anni di scoperte memorabili: il quadriportico di Sant’Ambrogio, con le sue profonde sonorità contemplative; i cinema d’essai, dove vidi per la prima volta – all’Orchidea di via Terraggio – il Rublev di Tarkovskij; il Piccolo di Strehler, con le sue meravigliose regie, che introducevano un nuovo modo di intendere la parola scenica; il cosmo lucente del Planetario; le Scuole Palatine del Parini; i tram del 1928, che sfidavano d’inverno la nebbia e la neve; e molto, molto altro ancora. Milano ha rappresentato per me uno spazio – colto e misurato – di civiltà: un luogo in bianco e nero, privo di eccessi, dinamico ma anche capace di stati di sospensione e di meraviglia, con i suoi cortili in pietra di fiume, i suoi fontanini incantati, i festoni di glicine che fioriscono tra maggio e il solstizio.

Negli anni Settanta, ha studiato alla Statale di Milano, laureandosi in Lettere, con una tesi sulla poesia di Attilio Bertolucci. Il periodo della sua formazione universitaria si è incrociato con i fatti della storia di quegli anni. Erano gli anni della contestazione studentesca, dell’irruzione del pubblico nel privato. Anni di fermenti, di sogni, ma come sappiamo, anche di tragici eventi e di violente dispute ideologiche, politiche. Come ha vissuto in quel clima il rapporto con la sua generazione? Com’era la sua vita da giovane studioso, in relazione alla poesia e a quello che stava accadendo nel nostro Paese?

Nel mio sonnolento Liceo di provincia, un collegio religioso dove giungevano, frammentariamente, gli echi dei fermenti ideologici dell’epoca, ma anche delle filosofie orientali alternative al grande pensiero classico d’Occidente, avevo letto, in totale solitudine, Rousseau e il giovane Marx, Sartre e Marcuse, e qualche maestro di vita sapienziale. Di quell’epoca, nella mia poesia, rimane traccia in un solo testo, Noi leggevamo, un tempo, i «Manoscritti», che si trova in Bosco del tempo: i «Manoscritti» sono una delle operine, giovanili e inconcluse, del Marx socialista e utopista, che qui si mescolano con il pensiero di un’India tutta fantastica, pervasa di beat generation e del suono metallico dei sitar di George Harrison e di Ravi Shankar. Ero tutto preso dai miei ingenui furori marxiani, quando in Statale, nell’autunno del 1971, feci la conoscenza dei collettivi studenteschi.

Ancora oggi, benché siano passati tanti anni, non riesco a parlarne senza inquietudine: e penso a ciò che può essere l’uomo, quando è dominato da furori ideologici, abbraccia una visione del mondo semplicistica, ma confortata dall’opinione dei più, e si dispone a ogni forma di falsificazione della realtà, pur di imporre i suoi deliri organizzati. Gli anni erano quelli della Rivoluzione culturale cinese, dei libretti rossi, quando la storia pareva mossa come da una sorta di mistica fatale. Entravo nel tempo del disumano, quando ogni dialogo non può che cadere nel vuoto, e la cultura non è altro che un teatrino di bandiere minacciose e sinistre. Distaccarmi da quel mondo implicò una nuova forma di solitudine: i miei compagni del Liceo erano sordi e indifferenti a ogni manifestazione di vita culturale; i nuovi compagni dell’Università subordinavano ogni lettura al devastante e meccanico primato della politica.

Eppure, in quella solitudine, maturarono lentamente letture decisive: alla storiografia latina di Tacito e di Sallustio (che avrei un giorno tradotto), come alla trattatistica politica del grande Rinascimento italiano (Guicciardini ancor più di Machiavelli) devo la limpidezza di un pensiero che sa misurarsi con la brutalità del reale senza dimenticare di essere pensiero.

Lei è stato protagonista di diverse stagioni poetiche. Dal 1977 al 1981 è stato fondatore e redattore di Niebo”, rivista milanese di poesia, dove ha pubblicato i suoi primi testi. Nel 1978 è stato curatore de La parola innamorata, storica antologia di poesia, nata in contrasto con la poesia della neoavanguardia e con l’ideologia allora imperante. Un volume nato da una scelta coraggiosa per quegli anni, che forse ha segnato una svolta nella poesia italiana. In quel periodo il dibattito letterario sulle idee di sperimentazione e il senso dello scrivere era molto aspro e gli schieramenti erano netti. Quale idea di poesia proponeva La parola innamorata e come si collocava rispetto alle istanze prevalenti in quel momento? Come giudica oggi quelle esperienze?

Benché radicalmente diverse nell’impostazione come nei linguaggi adottati, sia Niebo” sia La parola innamorata furono due esperienze di rottura nei confronti dell’ambiente poetico dell’epoca. L’intento era quello di riaffermare il valore autonomo della poesia contro la fissazione di una sorta di doppio “canone”, ideologico e sperimentale, che si era gradatamente imposto tra gli anni Sessanta e Settanta.

La debolezza di quelle esperienze poggiava sulla fragilità – intellettuale e culturale – delle forze in gioco, e non parlo solo delle nostre: la mancanza di chiarezza sulla natura del poetico dopo la rivoluzione romantico-decadente si univa alla frammentazione dei vari percorsi poetici in atto, e alla presunzione – che era il denominatore comune di quegli anni – di poter fare a meno degli esempi di una lunga tradizione, tutta appiattita sugli scintillii linguistici ed epistemologici della contemporaneità.

Vedevo – cosa che avrebbe dovuto inquietare, e invece affascinava – giovani poeti capaci di maneggiare con molta abilità i linguaggi del momento, senza alcuna preoccupazione per il senso di ciò che stavano facendo, come se quel che contava fosse solo esistere poeticamente: ma non c’è poesia senza un pensiero di civiltà; e un pensiero di civiltà implica una memoria, un respiro storico-antropologico, un’umiltà dello sguardo, e naturalmente una disciplina interiore.

Non sono mai riuscito a dissociare quel sentimento di mistero e di stupore cosmico che è fonte di ogni vera poesia, da preoccupazioni di ordine civile: persino ora, in un’epoca così avvilente per gli studi e per lo stato delle arti, così affascinata dalla dispersione delle forme e dal disordine dei pensieri, continuo a pensare a cosa sarà mai il mondo che ci aspetta: l’insofferenza per l’alta cultura; l’irrazionalismo profondo che agita le coscienze contemporanee; “l’amnesia pianificata” di cui già parlava Steiner in un saggio degli anni Novanta a proposito delle istituzioni scolastiche hanno prodotto generazioni di intellettuali di basso profilo culturale, indifferenti alle sorti dell’Occidente.

Distaccarmi da quelle esperienze fu inevitabile: entravo a poco a poco in un ordine rinnovato di riflessioni che esigevano una maturazione più lenta, come se dovessi uscire da una boscaglia di pensieri insani, confusi, che mi risultavano sempre più estranei. Ma in quel distacco era anche – e solo oggi me ne rendo conto – un ritorno alle origini, ai grandi maestri di un Occidente che stavano man mano eclissandosi nella coscienza collettiva, ma che a me parevano, proprio per questo, ancora più necessari.

Un aspetto che la distingue è che attraverso un grande equilibrio compositivo, ha saputo coniugare la classicità e la modernità. Nella sua opera, infatti, risuona in una forma nuova la parola dei classici greci e latini, ma anche quella della nostra grande tradizione lirica del Novecento. Ci può dire quali autori e letture hanno maggiormente influito sulla sua formazione poetica?

Il catalogo di quelle letture sarebbe troppo ampio, per poterlo esaurire in poche righe. Certamente comprenderebbe i tragici greci, capaci di penetrare come nessun altro mai nel contraddittorio e nell’oscillante degli eventi umani. E i grandi pensatori morali, da Seneca ad Epitteto a Marco Aurelio. Dagli storiografi latini ho appreso la forza drammatica di un pensiero capace di scrutare nel buio rovinoso della psiche umana, senza che per questo venisse meno il potere esemplare della virtù. Dal giovane Virgilio il sentimento della quotidianità, quella sorta di liturgia interiore che nasce dalla confidenza con le cose di ogni giorno, che si ripetono sempre uguali. E nei nostri grandi lirici, da Petrarca a Leopardi, ho ammirato la bellezza di una lingua che sa essere vaga e insieme profonda. Senza la lezione dei classici, non avrei potuto reggere il peso della modernità, la sua tensione scura e rovinosa, sempre sul filo dell’indicibile, benché così intensa, così baluginante di nuove prospettive. Anche per questo del nostro Novecento ho finito per privilegiare la limpida densità del verso che non rinuncia a fare ordine nel magma indifferenziato delle cose: e penso alla lezione di Montale, o dell’ultimo Luzi. Coniugare il sentimento classico della misura con la liquidità impetuosa e scheggiata dei moderni resta tuttora il cuore di ogni mio programma poetico.

Come poeta, nel 1998, vent’anni dopo la pubblicazione de La parola innamorata, ha esordito con successo, con la sua prima opera di poesia, Con parole remote, che ha ottenuto il premio Montale. Cosa è accaduto in questi venti anni, si è dedicato all’insegnamento e ad altre attività culturali? Cosa ha voluto dire per lei questo libro e questo periodo di silenzio, “la parola innamorata” è diventata “parola remota”? È mutato nel frattempo il suo modo di concepire la poesia? Com’è giunto alla composizione di quest’opera?

Con parole remote fu un libro inatteso, e parlo innanzi tutto per me: un libro-giardino, affondato nell’infanzia, che è poi l’infanzia del mondo, immerso nella materia di un’estate mitica. Un libro di pensieri e di nomi felici: una felicità che nasceva dalla percezione materica, fisica del mondo che ci viene incontro, carica di sensazioni e di cose come potevano oscillare in noi la prima volta che ci aprimmo alla vita. E dunque anche un libro di misteri, di natura sentita e svelata. Ma anche un libro che ambiva a ripensare, nell’esercizio della lingua e nel moto delle parole, le origini della poesia occidentale, e che poteva dunque sentire un verso delle origini greco-latine nella sua corrente viva, presente, attuale, al pari di un verso dei poeti contemporanei: di qui le “parole remote”, che provenivano cioè, nel loro respiro verticale, da una lunga storia.

Una rivoluzione dello sguardo e del pensiero, rispetto agli anni di “Niebo” e della Parola innamorata, e che certo devo in gran parte agli studi sul mondo classico, che ripresi con passione, dopo l’oblio degli anni universitari, proprio all’inizio degli anni Ottanta, e che culminarono nei tre volumi della Letteratura latina che scrissi, insieme a mia moglie, per l’editore Principato. Ma di quegli anni, e del modo in cui la poesia tornò a parlarmi, sto scrivendo proprio in questi giorni: l’occasione sarà una nuova edizione di Con parole remote, che uscirà per Vallecchi nel marzo del 2024 con qualche minima revisione linguistica, una prefazione di Sergio Givone, una postfazione di Enrico Testa, e una mia nota, appunto, quasi in forma di narrazione.

La sua seconda raccolta poetica Bosco del tempo, pubblicata nel 2005, riprende con nuovi sviluppi i nuclei tematici essenziali della sua poesia, emersi nella precedente raccolta. Nella poesia iniziale del libro, Pensieri, in autunno, si legge: Quanti autunni hai guardato, e quante / foglie incartocciate, che danno / addio ai loro rami, quante, / mentre Orione ruotava intorno / allo zenit, e il mare, freddo, / rumoreggiava? Siamo tutti / ospiti delle vita – vedi – / per poco (…)”. Ciò che colpisce è il modo in cui la dimensione del tempo, così centrale in tutta la sua produzione poetica, agisce nella forma di uno spazio. Dalla dimensione aperta e ariosa del bosco, fino a quella sconfinata e misteriosa del cosmo…

La dimensione del tempo si dà sempre nella forma di uno spazio, vissuto e insieme archetipico: lo spazio abitato – che amplifica i nostri pensieri, e ci consente di fantasticare – così come lo spazio naturale, che vive di slanci, di aperture, di mutamenti stagionali, ma anche di vaste aperture cosmiche. Con parole remote era stato un libro giardino; Bosco del tempo un libro-selva, in cui m’inoltravo in una dimensione nuova, più inquieta e dispersa, rispetto ai nomi felici del primo libro, e in un’altra stagione, non più estiva ma autunnale, non senza qualche escursione nei geli brumosi dell’inverno. In realtà le sezioni conclusive di Con parole remote già avviavano alla raccolta successiva, così come Bosco del tempo si apriva con una poesia – quella cui lei ha accennato – che si riconnetteva al libro precedente: “Fin qui gli sciami ronzanti, le volte / porose del cielo che si dilata, si espande / nella sera che brucia, e l’ombra / di azzurre mattine. Ma ora nuvole / basse e ferrigne, e acque / diluvianti, e il tempo / che s’impigra in scure / scure anse, e si dipana, lento, / tra le forme del mondo che si cela“. E la luce dell’estate, paradossalmente, qui s’intensifica, proprio perché sollecitata dalla memoria, che è una delle forme con le quali abitiamo il tempo della vita: e penso in particolare alla sequenza delle Cicladi. O a una delle poesie di cui sono più orgoglioso, Leggevo, un giorno, «Le api» del Rucellai, che è nata sui banchi della Braidense, mentre leggevo un’edizione settecentesca dei più bei poemi georgici del nostro Rinascimento.

Origini è un volume molto ampio, pubblicato nel 2015, che raccoglie la sua produzione poetica, dai libri Con parole remote e Bosco del tempo alle altre poesie edite in varie plaquette. Origini è anche un titolo emblematico della sua poetica, che in una ricerca incessante nella materia del sogno, del mito e della condizione umana, porta dentro di sé la potenza di un “prima” a cui fare ritorno, l’essenza che precede le nostre vite e le guida. Per scoprire chi siamo, dobbiamo scoprire cosa ha spinto anticamente il nostro cammino. È questa la via per riuscire a cogliere il senso della vita?

Quando Isabella Leardini, un paio d’anni fa, mi chiese di scegliere una parola in cui si compendiasse la mia idea di poesia, non ebbi esitazione: doveva essere “origine”. Una parola che mi pare riassuma, più di ogni altra, il senso della mia ricerca poetica, e che non a caso compare tre volte nella mia bibliografia: Orígenes (Pigmalión, 2013), un volume antologico della mia poesia in lingua spagnola;

Origini (Interlinea, 2015), in cui sono andato raccogliendo tutta la mia produzione poetica precedente Il moto delle cose; Origine (Vallecchi, 2022), una sorta di autobiografia poetica in cui i miei versi e i miei pensieri si intersecano con quelli degli scrittori più amati. Ho sempre sentito la poesia come un’indagine archeologica, una discesa verso le nostre infanzie, che in fondo non fanno altro che ripetere le infanzie del mondo e della storia, “prima dell’estate e del tuono, prima / del tuo nome, lettore”, come scrivo in Occhi, una delle prime poesie di Bosco del tempo.

La sua raccolta più recente, Il moto delle cose, del 2017, è considerata tra i più importanti e originali libri di poesia italiana di questi ultimi anni. In quest’opera, il destino dell’uomo si rapporta al respiro del  cosmo e al suo “operoso, micidiale / moto”. Ci può dire come è nato questo volume?

La ringrazio della citazione: un omaggio ai Sepolcri foscoliani, e in particolare ai versi conclusivi del grande preludio (“e involve / tutte cose l’obblìo nella sua notte; / e una forza operosa le affatica / di moto in moto“), che potrebbero costituire l’esergo del mio ultimo libro. Diversamente dalle due raccolte precedenti, Il moto delle cose ha faticato a trovare la sua forma definitiva. Avevo già scritto i versi di Lux nox e di Ho sognato il Tour, che erano apparsi in plaquette tra il 2008 e il 2010, e poco dopo i versi di Scale e di Un’apparizione, e sentivo che mi stavo inoltrando a poco a poco in un territorio nuovo. Un’apparizione, in particolare, proprio perché si dava come una sorta di trascrizione di un sogno vero, e per la carica ammonitoria che possedeva, mi sembrava il testo giusto per aprire il libro, prima ancora dei tre prologhi che già avevo composto. Mancava nondimeno l’elemento decisivo, linguisticamente e tematicamente decisivo, perché il libro potesse assumere la forma che intuivo, e pure continuamente mi sfuggiva: ed era il sentimento dei moti cosmici, quel sentimento che abita in noi da sempre, ma rinnovato – e forse reso ancora più intenso – dalle grandi intuizioni dei fisici novecenteschi. E ad aiutarmi, come spesso succede, fu il caso.

Erano gli ultimi giorni di giugno del 2013, e ci trovavamo, mia moglie ed io, nell’isola di Ios, nell’arcipelago greco delle Cicladi. Eravamo giunti, senza volerlo, alla cosiddetta Tomba di Omero, una delle tante che costellano l’universo infinito e variegato delle acque e delle coste greche. Ed ecco che lì, in quel punto luminoso e appartato, popolato da nient’altro che cespugli spinosi, oleandri, casupole abbandonate di pastori, un verso mi venne incontro, puro e compiuto. Da quel verso sarebbero nati nel giro di pochi giorni le poesie comprese nella sezione Le muraglie del mondo, titolo che costeggia l’immagine dei flammantia moenia mundi del De rerum natura. C’è, nelle poesie di questa sezione, qualcosa in cui si condensa tutta la mia visione del mondo: la potenza della natura, la fragilità dell’uomo, il peso immane del tempo.

Da quel momento non fu difficile avviare il processo di composizione finale del libro, per via di sfrondamenti e di nuove giunte. Ma l’ultimo testo, quello che mi era necessario per dare equilibrio all’intera raccolta, ed eravamo ormai nell’imminenza delle prime bozze, non avrei avuto bisogno di scriverlo: era nato di getto molti anni prima, dopo la mia seconda permanenza nell’isola di Kythera, quasi un proseguimento delle Cicladi di Bosco del tempo: come se in Citera – isola-mito dove tutto è, e niente pare che possa mutare – ogni altra parte del libro, con i suoi moti squassanti, i suoi mondi non fatti per l’uomo, trovasse il suo punto di approdo, di senso raggiunto.

“Cerco nomi felici” scriveva in Con parole remote. Nella sua ultima opera, invece, nell’osservare il moto incessante delle cose “i nomi si sgretolano, uno per uno, ostinati, / in polvere di suoni e di niente”. Si ha l’impressione che se i versi nei libri precedenti sanciscono la forza del canto e la sua possibilità di nominare il mondo e darne un senso, in quest’ultima opera, le parole  sembrano rivelarsi insufficienti a pronunciare il nome. Rispetto ai suoi punti di partenza è cambiato, nella sua poesia, il modo di concepire il rapporto tra nome e cosa, tra nome e sentimento della realtà?

Con parole remote era ambientata in una sorta di arcadia vegetale cui corrispondeva un’arcadia del cuore. Un’arcadia assediata dai tempi, ma pur sempre un’arcadia, in cui ogni arbusto, ogni fonte, ogni spicchio di cielo nascondevano un mistero. Il bimbo nascosto in quel libro, quello cui ci si rivolge nel dittico dei Messaggi dall’antica notte, non fa che rinnovare i moti che furono dell’infanzia di ogni popolo: invoca i suoi rami e le sue selve, solleva gli occhi ai fuochi del cielo, cerca nomi felici, traccia i suoi sacelli segreti. Ma già nel poemetto eponimo, su cui la raccolta va a concludersi, l’uscita dalle terre estive del mito e dell’infanzia si popolava di “forme strappate / che più non combaciano“: quando vien meno – come ci hanno insegnato le filosofie novecentesche – la corrispondenza tra nome e cosa, è inevitabile che le parole si scheggino, e sentano il peso della loro inadeguatezza. Lo scivolamento, con Il moto delle cose, negli strati magmatici e deliranti del cosmo, non fa altro che portare all’estremo la dissociazione tra nome e cosa, io che annaspa e sentimento del mondo.

di’ tu, piuttosto, di’/ qualcosa che valga / per me, per noi, che ti guardiamo (…) / di’, se sai qualcosa / che valga la pena(…)”. Questi versi tratti dal suo ultimo libro Il moto delle cose, attraverso un Tu che si apre al mondo e al nostro comune destino, rispecchiano la sua idea di poesia?

Quei versi stanno proprio all’inizio del libro, e a pronunciarli è la misteriosa figura che appare in sogno al poeta, chiedendo un senso, forse un destino, certo una parola che illumini nel gran buio delle cose. Di lì, solo di lì, di fronte a questo appello così drammatico, il libro può cominciare, tracciando ipotesi, orbite di pensieri e di immagini, vortici di materia o di ex-materia che brulicano tutti insieme nella scatola della nostra mente. Di’ qualcosa che valga la pena: in queste semplici parole si riassume in fondo il senso della poesia per come l’ho sempre concepita.

In quest’epoca del nostro Paese, segnata dal progresso tecnologico e scientifico, ma anche da una profonda crisi culturale, sociale e dall’insofferenza verso ogni forma di pensiero, che spazio può avere la poesia?

Fin dalle origini è insita nel linguaggio poetico una forma di resistenza nei confronti del reale e della storia, da cui deriva sia la sua tensione utopica, sia la sua insofferenza nei confronti di ogni mediocrità, concettuale o stilistica. E resistenza, oggi più che mai, implica un’idea di custodia, di cura, che dovrà essere intesa non solo come cura di sé, ma anche come cura di una lunga tradizione, e dunque della lingua che usiamo. Dalla complessità di una lingua, e sto parlando anche della lingua d’uso, parlata e scritta, dipende non solo l’ordine del pensiero, ma anche la forma della nostra stessa interiorità. Per questo diffido – e non solo in poesia – dei libri scritti male, concettualmente approssimativi, linguisticamente banali, privi di rigore estetico. La proprietà linguistica e la forza argomentativa del discorso sono il solo antidoto alle forze del caos che abitano il mondo contemporaneo, e tanto più in un’epoca, come quella che stiamo vivendo, in cui ogni parola pare come rósa internamente da un baco silenzioso: quasi stessimo scivolando tutti in un grande buio.

Ci può anticipare qualcosa sul suo prossimo libro?

Mi è sempre difficile parlare di un lavoro ancora in fieri: proprio perché il libro cui aspiro – almeno idealmente – è un’architettura entro la quale ogni verso deve trovare il suo posto, tracciando legami di vario ordine, a volte segreti, quasi invisibili, con tutti gli altri. Avrei la tentazione, contro i miei libri precedenti, di non suddividere i testi per sezioni, ma di lasciare che si dispongano come un’unica colata, magari con un prologo e un epilogo che li inquadrino. Ma è tutto da vedere. Di certo sarà un libro diverso dai precedenti, anche nelle soluzioni linguistiche e stilistiche e nel movimento interno dei versi. Dopo il libro-cosmo, era forse necessario ricostituire uno spazio protetto, che non poteva più essere il giardino di Con parole remote: uno spazio dell’interiorità e della meditazione, spoglio e severo, popolato di suoni, di voci, di ombre, di misteriosi messaggi. E qualcuno che si chini a decifrarli con nient’altro che qualche parola, e tutto il silenzio delle cose che sono intorno a noi.

POESIE

Penso
1
Osservo con stupore l’azzurro
del dodici luglio sessantotto
da un punto lontano della mente.
Il vento sbatte
sulle sue terrazze assolate;
il cuore nomina
parole stranier
e.

3
È sera, e il cielo
odora come un tempo, quando
le stelle si mossero per te, e una fiamma
precipitò, volando. Io vi guardavo,
ignaro, devoto; voi
ancora indugiate a questa tavola. Vi ripeto
che l’ombra della notte era un fuoco

4
Già il destino, semicieco, ha mosso le sue ciglia
e il mio, anonimo, discende
verso un nuovo equinozio. Sento
ciò che devo; non mi affliggo;
penso

5
Mentre svolto con cura tra le stanze
di un pomeriggio ritrovato per caso
con chiavi non più mie ordino ai versi di celare
il luogo, il nome, il tempo
di coloro che l’hanno abitato, poiché
resta solo ciò che è nascosto,
che non viene nominato.

da Con parole remote (1998)

Sovrastino, su queste sabbie

Sovrastino, su queste sabbie
finissime, tese come un lino, vaste
come il fiammeo dominio dei pensieri,
cieli più ampi del tempo
che s’ingorga, lento, pigro,
in una luce ardua,
ventosa

o s’infoschino – in una sera
scura, dura, scheggiata,
che si sgretola, pezzo
dopo pezzo, sugli scogli
ondosi, flagellati
da crespe dense di fuoco, erosi
dalla furia
gemmata degli elementi –
le porte, brucianti, dei tuoi occh
i,

sempre, o contemplante, sentirai
il respiro
possente, luminoso
del mondo, la sua forte quiete, il suo
operoso, micidiale

moto.

da Il moto delle cose (2017)

Foto di Dino Ignani

Torna al numero completo XXXII- GIANCARLO PONTIGGIA

© RIPRODUZIONE RISERVATA