LA VERTIGINE DELLA VITA ALTRUI di Roberto Chiesi

 

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LA VERTIGINE DELLA VITA ALTRUI – ANNOTAZIONI SU STORIA DI PIERA DI PIERA DEGLI ESPOSTI E DACIA MARAINI

“Solo le storie sono capaci di colmare gli squarci del dolore. Solo le storie ci aiutano a sopravvivere ai nostri morti” scrive Dacia Maraini nel suo libro autobiografico La grande festa (Rizzoli, 2011). Le storie da osservare o da ascoltare, prima, da chi le ha vissute, come trame da contemplare nella ricchezza e nella complessità di un ordito spesso contraddittorio ed enigmatico, da ritessere, poi, nel fluire della narrazione sulla pagina, affidate al lavoro metodico della scrittura quotidiana, secondo le alchimie e le leggi del respiro narrativo, che non si devono riconoscere alla lettura ma restare segrete, chiuse nell’organicità viva della narrazione. Nella Grande festa, Maraini rievocava i suoi morti ed esorcizzava lo strazio della loro assenza definitiva rendendoli personaggi di storie di un passato che riaffiorava di continuo sulla carta, lasciando emergere alcuni episodi rivelatori della loro personalità, del nodo di affetti e sentimenti che ci legano per sempre a chi non c’è più. Le parole della scrittrice immergevano le immagini dei suoi fantasmi in una luce dolorosa e dolce, struggente, seguendo l’intermittenza della memoria e trovando una forma di pacificazione soltanto nell’affabulazione, nel paziente lavoro di traduzione del dolore nei segni della scrittura e nei movimenti del narrare. Se in E tu chi eri? Interviste sull’infanzia (Bompiani, 1973), Maraini interrogava personalità di scrittori, artisti, registi etc. sul mistero della loro infanzia, sull’identità perduta o preservata di se stessi bambini, in Storia di Piera (Bompiani, 1980) il dispositivo dell’intervista origina un’originale macchina narrativa dove i racconti frammentari di un’altra voce via via compongono la storia di un’altra vita, in quel caso di un’amica, l’attrice Piera Degli Esposti. Maraini accompagnava la narrazione, chiarendo subito quale fosse la sua posizione: “Sono sempre stata così, io, poi sai: mi piacciono più le storie degli altri che le mie… e quando una persona mi interessa, mi affaccio sulla sua vita e sono presa da una specie di vertigine, ci casco dentro e non riesco più a uscirne.” daciaAscoltare le parole della vita dell’altra, convertirle in una forma scritta che sia fedele al suo modo di esprimersi, è un atto d’amore, di affetto che rimane discreto e pudico, anche se la scrittrice sollecita e stimola a parlare l’amica, divenuta un suo personaggio ma che esiste al di fuori di qualsiasi finzione, perché tutto ciò che racconta l’ha veramente vissuto e sofferto. Affacciarsi sulla sua vita, significa guardarla da una posizione che sembra di distacco, di lontananza, tranne poi scoprire presto che, invece, contemplare quell’esistenza altrui – soprattutto quando è stata così dolorosa, complessa e anomala come quella di Piera – provoca una vertigine che fa cadere dentro quel pozzo di vicende, immagini, traumi e sofferenze. La narratrice cade dentro il pozzo perché nella vita altrui riconosce dei riflessi, delle dinamiche, dei dolori che ha condiviso anche lei, in tempi e luoghi differenti – come “i sogni di una sensualità sepolta sotto coltri di timori, di sensi di colpa, di incertezze” – e non può né vuole resistere alla vertigine di abbandonarsi al flusso quasi ipnotico della memoria altrui. Si avverte subito, come un fenomeno magico, la fascinazione che ha esercitato sulla Maraini lo “strano caso di famiglia sconquassata e infelice che nello stesso tempo contiene in sé le ragioni arcaiche dell’unione e dell’amore. Un amore che contro ogni legge della natura si protrae al di là della vecchiaia, della dissoluzione, della morte fisica”. La madre e il padre di Piera sono personaggi che sfuggono a qualsiasi epoca, che si staccano dal periodo in cui sono vissuti e si impongono in una dimensione mitologica, con la loro diversità e con la violenza del sentimento che li ha uniti e li ha resi unici, fra le famiglie dell’Italia di allora e di oggi.

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Isabelle Huppert e Hanna Schygulla in Storia di Piera di Marco Ferreri

Due figure del Mito

La madre, “così roboante nel suo essere donna, così nerissima mia madre, con i capelli neri lunghi, quasi blu, un vitino stretto, un sedere a mandolino, un seno enorme, insomma una donna vera, bellissima”, era una donna che viveva forte, libera, randagia, in primavera ed estate sempre in corsa sulla sua bicicletta, attraversava luoghi di passaggio come bar e stazioni, seducendo gli uomini che le piacevano ma rimanendo legata al marito, sindacalista comunista innamorato pazzo di lei tanto da adattarsi alla sua anomalia, da rassegnarsi a vivere all’ombra della selvaggia energia di lei, che non avrebbe mai potuto rimanere chiusa in una convenzionale vita domestica. Entrambi, il padre e la madre, vivevano in un’appassionata, intensa autodistruzione continua e prolungata, la madre “era una grande “distruttora” della vita, una grande distruttora di sé. Spesso mi diceva: devi essere contenta, perché hai una bella vita. Lo dice perché lei non l’ha avuta. Era scalmanata violenta selvaggia, non è stata felice…”. Piera Degli Esposti si interroga spesso, con un dolore sempre vivo, sull’enigma di sua madre, che fu anche vittima delle meschinità e delle repressioni della società del suo tempo (che la obbligava a frequenti, distruttivi elettroshock): “penso che mia madre sia abitata come da persone, da paure, furori sessuali, sensi di colpa, chissà, una folla di persone, di voci e lei non ci sta, fugge”. Queste fughe continue si arrestavano d’inverno, dove la sua energia si rarefaceva: “d’estate era degli altri, mi cacciava, mi allontanava… d’inverno si chiudeva, dormiva, era questa doppiezza che mi tormentava”. Mentre affabula, Piera segue sempre dei movimenti divagatori, lascia momentaneamente i genitori e se stessa in un frangente per seguire un’altra vicenda, ma ritorna inevitabilmente a loro, spesso ritrovandoli nella solitudine in cui li ha lasciati, in cui hanno vissuto quasi tutta la loro tormentata esistenza. Quando li ricorda insieme, evoca una breve vacanza, una delle rare parentesi di normalità, che non può non ricordare con rimpianto: “io avevo una gioia di vederli, loro due, normali, insieme, questa cosa così strana…” piera-degli-esposti-dacia-maraini-marco-ferreri-564898L’eccezionalità, l’anomalia di questi due genitori li rende necessariamente, agli occhi della figlia ma anche a quelli della narratrice/intervistatrice che ascolta e ritesse e di noi lettori, come si è detto, delle figure mitologiche perché vivono in un’altra dimensione rispetto a quella della norma e della quotidianità. Questa dimensione mitologica – dove agisce una morale che non corrisponde a quella comune – ha attratto l’attenzione della scrittrice anche perché vi ha forse riconosciuto alcuni lineamenti del proprio sentimento nei confronti della famiglia e delle figure genitoriali. Maraini, infatti, è condotta dalle parole dell’amica a confrontare il proprio amore per il padre con il sentimento provato dall’amica per il suo, scoprendo dinamiche di analoga complessità in una storia diversissima. Naturalmente Maraini è affascinata anche dall’eroina protagonista, Piera, eterna ragazza, dotata di una sensibilità a fior di pelle ma anche della resistenza di una guerriera che si risolleva da ogni duro colpo le venga inferto (abusi sessuali quando era bambina, malattie, morte del padre) e che ha trovato definitivamente se stessa nella recitazione (come Maraini nella scrittura). L’autrice di Teresa la ladra la guarda con complicità e al tempo stesso con lucidità, ne analizza il  linguaggio “fatto di immagini-segnali che escludono con decisione inconsapevole i luoghi comuni del parlato cosiddetto normale”, un linguaggio che già ne esprime la diversità, con numerose e vivaci punte espressive valorizzate dalla mano della stessa Maraini, intervenuta sulle pagine di trascrizioni del loro dialogo registrato. Confessa che “a volte faccio fatica a seguirti perché salti da un’epoca a un’altra, non hai il senso del tempo, come se il tuo passato dentro di te fosse tutto su una stessa fila, senza profondità, senza passaggi… ma mi piace seguirti.” Perché significa confrontarsi con un altro sentimento del tempo, opposto al suo, che la può condurre a rivendicare il valore delle fantasie femminili coltivate nella reclusione di tante donne coatte dentro le case domestiche: “Oggi le donne scendono in strada perché ogni movimento porta con sé anche una ferocia di liberazione, non vorrei che si dimenticasse come è bella la loro fantasia che si è formata dentro i muri, dentro gli interni delle case, come sono importanti, affascinanti queste fantasie che nascono dagli interni… nessuno si domanda mai: ma cosa fa quella donna tutto il giorno là dentro casa? Cosa pensa tante ore, sola, cosa sente? (…) Il cervello della donna è un cervello che non si conosce, è sempre stato chiuso nei muri, negli interni, con quei furori sopiti, quelle lunghissime malinconie, quei torpori, quelle sensualità…” Maraini e Degli Esposti evocano in queste poche parole la solitudine di tante donne che hanno sacrificato le loro esistenze ai mariti e ad una reclusione dominata dai doveri di moglie-madre ma che, come carcerate, conservavano un giardino segreto nelle loro menti dove essere libere, dove vivere, da sole, emozioni inconfessabili e rimaste silenziose. Questo continuo ondeggiare del tempo, lasciato giustamente alle sue intermittenze – “Non mi va di fare l’ordinatrice… penso che lascerò le cose come stanno, nel loro disordine, come sono venute…” – conferisce ai flussi delle parole e delle immagini che evocano una vivacità intensa. Piera è un io femminile “vissuta fra la grazia disperata di mio padre e l’aggressività di mia madre”, legatissima affettivamente ad entrambi ma con dinamiche molto diverse. Una bambina che ha sofferto della solitudine in cui si è trovata, della necessità di arrangiarsi da sola: “io ero la figlia di me stessa. Io ero la mia bambina”. degliesposti

Dopo il passaggio dall’oralità alla pagina scritta, Storia di Piera ha poi vissuto un’ulteriore metamorfosi, diventando un film nel 1983, alla cui sceneggiatura hanno lavorato, ancora, le due amiche. Come ha raccontato Piera Degli Esposti nell’intervista audiovisiva del dvd del film (a cura di Silvia d’Amico Bendicò, Gioia Magrini e Roberto Meddi, edizione Medusa, 2011), i registi che avevano espresso il proprio interesse per un adattamento, furono Marco Bellocchio, Lina Wertmüller, Salvatore Piscicelli e Marco Ferreri, ma fu scelto quest’ultimo, particolarmente congeniale ed amato da Degli Esposti:“Le ha costruito intorno un paesaggio indimenticabile”. Ferreri ha privilegiato il personaggio della madre (interpretata da una straordinaria Hanna Schygulla, premiata a Cannes) su quello della figlia (Isabelle Huppert da adulta e Bettina Gruhn da bambina) ma è attraverso lo sguardo di quest’ultima che vengono rivissute le esistenze di questi due genitori (il padre è Marcello Mastroianni). Anziché ambientare la storia a Bologna, Ferreri ha preferito trasporla in una cittadina immaginaria che risulta dalla fusione di luoghi di Sabaudia, Latina e Pontinia. Con le sue sceneggiatrici, ha aggiunto numerosi episodi, imprimendo al racconto una linearità temporale cui le ellissi, le sospensioni, le dilatazioni, l’intensa corporalità di molte situazioni, conferiscono un’aura visionaria. Anche Dacia Maraini ha amato il film, ritenendo la sceneggiatura più bella fra tutte quelle cui abbia lavorato: “credo di aver dato molto alla definizione dei due personaggi – la madre e la bambina – e al rapporto tra le due. Con Marco ho lavorato bene, nonostante la sua fama di pessimo carattere, anche vera. È un uomo di grande sensibilità e di grande rispetto per la persona con cui lavora. Ha rispettato moltissimo il lavoro mio e di Piera anche sul piano della sceneggiatura. Ha fatto suoi, e reso visione immagine, una struttura e personaggi che già c’erano, che sono rimasti. (…) quando si scrive, Ferreri ha bisogno di continui riferimenti d’immagini, non punta sulla psicologia o sulla narrazione o sui fatti, quel che conta per lui è l’immagine, e si sono costruite intere scene attorno a un’immagine.” (da Franca Faldini e Goffredo Fofi, Il cinema italiano d’oggi 1970-1984 raccontato dai suoi protagonisti, Mondadori, 1984).147764160271305_D.-Maraini-M.-Vitti-e-Warhol-by-Elisabetta-Catalano

ROBERTO CHIESI, critico cinematografico e responsabile del Centro Studi – Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna, è membro del comitato di redazione dei periodici «Cineforum» e «Studi pasoliniani». Scrive per i periodici «Cineforum, «Segnocinema», «Cinecritica» e «Cinemasessanta». Ha collaborato al Dizionario Treccani del cinema e alla Storia del cinema italiano 1970-1975 della Scuola Nazionale di Cinema. È autore o curatore, fra gli altri, dei libri Hou Hsiao-hsien. Cinema delle memorie nel corpo del tempo (Le Mani, 2002), Jean-Luc Godard (Gremese, 2003), Pasolini, Callas e «Medea» (FMR, 2007), Il cinema noir francese (Gremese, 2015), Cristo mi chiama ma senza luce (Le Mani, 2015), di alcuni film della collana dvd di Bim Bergman Collection e, per le edizioni Cineteca di Bologna, di La rabbia (2008), Appunti per un’Orestiade africana (2009, dvd e libro), Fuoco! Il cinema di Gian Vittorio Baldi (2009), L’Oriente di Pasolini (2011), Accattone (2015), Il mio cinema (2015) di Pier Paolo Pasolini e dell’edizione dvd di Salò o le 120 giornate di Sodoma (2015).