NEL MAGICO UNIVERSO DI STANLEY DONEN di Luisa Ceretto

“I musical non sono reali? No, infatti sono meglio della vita reale. Il musical non ha limiti, è possibile raccontare tutto con il musical e non esistono regole. Anzi, vi dico una cosa, sarebbe meglio se queste cose che sto dicendo le dicessi cantando” Stanley Donen

Ci sono sequenze filmiche che conservano il fascino immutato nel tempo, che anzi racchiudono il senso di una pellicola, si possono vedere e rivedere, si fissano nella memoria in maniera indelebile. Un uomo balla e canta sotto la pioggia saltellando tra il marciapiede e la strada, volteggiando intorno ad un lampione, giocherellando col proprio ombrello, una scena famosissima, imitata e citata, un perfetto equilibrio di danza e musica. Accade in Cantando sotto la pioggia, interpretato da uno straordinario Gene Kelly, che ha girato la celeberrima sequenza della pioggia con oltre 39 di febbre, diretto da uno dei protagonisti della Hollywood degli anni d’oro.

Stanley Donen, regista di film indimenticabili degli anni Cinquanta e Sessanta, è stato un innovatore e al contempo un custode del genere musical, ha creato sequenze e numeri di grande virtuosismo tecnico, così come successivamente ha continuato a sperimentare anche quando la sua mdp ha esplorato nuovi territori, come ad esempio la commedia sofisticata (1), con le grandi star americane.

Cantando sotto la pioggia (1952)

Fred Astaire, Gene Kelly, Frank Sinatra, Audrey Hepburn, Cary Grant, Richard Burton, Doris Day, sono alcuni tra i nomi da lui diretti, protagonisti di un’America spensierata, lontana dalla vita quotidiana, personaggi che a passo di danza, dall’universo della settima arte sono entrati nell’immaginario collettivo occidentale ma non solo. Artefici di quel glamour, di quella macchina dei sogni hollywoodiana, in cui lo spettatore è chiamato a immergersi come in un sogno, per l’appunto, identificandosi con essi e coi divi che li interpretano, oltre che con la vicenda narrata.

Promotore di un cinema che spesso si alimenta della sua stessa materia, che si interroga sull’industria hollywoodiana e sulle leggi che la regolano, nei suoi momenti di apice ma anche, inevitabilmente, di declino, nelle sue pellicole racconta uno spazio caratterizzato dalla sospensione del realismo, in cui tutto è ballo, ritmo e, soprattutto, colore. Il suo è un universo venato di nostalgia, dalla consapevolezza del tempo che passa, che invoca un tempo fantastico, spazio di alterità che rappresenta un modello di vita possibile, forse l’unico. Per Donen – parafrasando la celebre frase di Jean-Luc Godard, secondo cui il “cinema è verità ventiquattro fotogrammi al secondo” – il cinema è una “bugia ventiquattro fotogrammi al secondo”. Ma in una personale concezione del confine tra illusione e realtà,  a proposito del musical, afferma infatti che “è più vero della realtà, perché gli attori quando cantano e ballano in una storia sono l’anima della vita reale”.

Stanley Donen

È stato Carioca (1933), il musical diretto da Thornton Freeland con Fred Astaire e Ginger Rogers ad avvicinare Stanley Donen al mondo della settima arte. Nato a Columbia, nella Carolina del Sud, nel 1924, da Helen Pauline Cohen e Mordecai Moses Donen, ebrei di origine russa e tedesca, aveva nove anni quando prende visione della pellicola per la prima volta. Un film visto una quarantina di volte in sala, che ha avuto un grande impatto sulla sua carriera artistica, “il re del tip tap ballava con Ginger Rogers e ha cambiato la mia vita. L’ho trovato semplicemente meraviglioso”. Dopo quella scoperta, Donen studia danza classica al Town Theater di Columbia, successivamente inizia a frequentare Broadway per vedere i musical. Trasferitosi a sedici anni a New York, prende lezioni di ballo dallo stesso maestro di Fred Astaire. Scritturato come ballerino, debutta a Broadway, nel 1940, a soli diciassette anni, nel musical Paul Joey. In quell’occasione conosce l’allora emergente Gene Kelly, scelto come protagonista.  È dietro le quinte che ha inizio un’amicizia duratura tra i due e una lunga collaborazione professionale.

Un giorno a New York (1949)

Nel 1943 Stanley Donen è chiamato da Arthur Freed alla Metro Goldwyn Mayer – nota come MGM (la più celebre compagnia produttiva cinematografica che nel 1928, con l’avvento del sonoro, nella sua sigla ha per mascotte Leo, il leone, con il suo inconfondibile ruggito) -, come assistente di Charles Walters per la coreografia di Best foot forward di Edward Buzzell, nel quale ricopre anche un piccolo ruolo. Nel 1944 collabora con Kelly per la coreografia di Fascino (Cover Girl, USA/1944) per la regia di Charles Vidor. L’attività con MGM prosegue fino al 1949, permettendo a Donen di firmare le coreografie di Vacanze al Messico (Holiday in Mexico, 1946) di George Sidney, Licenza d’amore (No leave, no love,1946) di Charles Martin, Ti avrò per sempre (This time for keeps, 1947) di Richard Thorpe, le sequenze danzate di Living in a big way (1947) di Gregory La Cava, e di scrivere, con Gene Kelly, il soggetto di Facciamo il tifo insieme (Take me out to the ball game, 1949) di Busby Berkeley, del quale cura anche la coreografia. Nel 1949 con Un giorno a New York (On the Town), Donen esordisce nella regia insieme a Gene Kelly. La pellicola costituisce un punto di rottura rispetto al modo di concepire il musical, in quanto viene meno la contrapposizione interno/esterno.

Un giorno a New York

Un giorno a New York è difatti il primo musical che porta l’azione all’aperto, dove le strade e i palazzi della metropoli costituiscono lo scenario sul quale tre marinai in licenza per ventiquattro ore vagano per New York, lo spazio urbano diviene elemento di una coreografia, insieme ai protagonisti, di una meravigliosa scorribanda densa di energia vitale, un lungometraggio dove non manca un richiamo alle slapstick comedies dell’epoca del muto. Come è stato osservato, con questo film Donen opera una sorta di rovesciamento, se l’universo del musical presenta in se stesso una dimensione favolistica, fittizia, dove i personaggi e la vicenda sono nettamente separati dal contesto realistico, qui sceglie un’ambientazione reale, la città, per farla divenire artificio, facendola entrare in una dimensione fantastica, astratta.

Due anni più tardi, firma, da solo, la regia di Sua Altezza si sposa (Royal Wedding, 1951) in cui non cura la coreografia, ma può avvalersi di Fred Astaire, uno dei miti della sua giovinezza, nei panni di ballerino che fa coppia con Jane Powell (ruolo che in un primo momento era stato affidato a Judy Garland). Un titolo importante che si inserisce nella tradizione più alta del genere, eppure rinnovata nella forma, a partire dallo stesso Astaire che sembra sfidare – grazie agli effetti speciali messi sapientemente in campo – le leggi di gravità. Il numero clou del film, Dancing on the Ceiling, è senza dubbio l’assolo di Fred Astaire nella sua camera d’albergo a Londra, durante il quale balla il tip tap, senza soluzione di continuità, sul pavimento, sulle pareti e sul soffitto.

Sua altezza si sposa (1951)

Ma sarà soprattutto con il titolo successivo che Donen – insieme a Vincent Minnelli con Un americano a Parigi, di cui lo stesso Donen cura la coreografia- riuscirà a imporsi come l’artefice più incisivo del rinnovamento del musical.

È difatti con Cantando sotto la pioggia (Singin’ in the rain), codiretto con Gene Kelly, che le componenti di danza e musica, entrando in stretto contatto con la tessitura narrativa, cambiano funzione. I singoli numeri, canti e balli costituiscono infatti un tutt’uno e sono strettamente funzionali alla vicenda. Il film è ambientato nel 1927, nel periodo di passaggio dal cinema muto al sonoro, è l’anno del Cantante di jazz di Alan Crosland, il primo lungometraggio parlato, e la vicenda riguarda le disavventure di due star di Hollywood, che si trovano a dover fare i conti con questo difficile momento di transizione.

Cantando sotto la pioggia è un film pieno di ottimismo, con una travolgente energia, è la quintessenza del musical, il punto di arrivo più spettacolare di una lunga tradizione che immortala Gene Kelly mentre danza sotto le gocce di un’insistente pioggia, o ancora quando insieme ai coprotagonisti interpretati da Donald O’Connor e Debbie Reynolds decidono che la pellicola a cui stanno lavorando possa divenire un musical, nel frattempo è ormai notte fonda e si augurano il buongiorno (cantando Good Morning…)

Cantando sotto la pioggia

“Il titolo”, dichiarerà in seguito Donen “ non sarebbe mai dovuto essere Singin’ in the Rain. Pensa al film: non c’è nulla riguardo al tempo. La storia non ha nulla a che fare con la pioggia. E’ un film sul cinema. Si sarebbe dovuto intitolare ‘Hollywood’” (2). Da questo punto di vista, in effetti, Cantando sotto la pioggia ha una forte valenza metalinguistica, rappresenta un quadro piuttosto fedele dello scossone subito dall’industria cinematografica col trapasso del muto, e soprattutto all’interno dell’universo hollywoodiano, dove d’un tratto, attori molto amati e seguiti dal pubblico, come ad esempio Pola Negri o John Gilbert, per citare i più famosi, sono caduti in disgrazia e sono stati presto dimenticati. Il sonoro imponeva, difatti, un’impostazione del tutto differente, rendendo superati i canoni recitavi tipici del cinema muto, che poggiavano principalmente su una gestualità e su sguardi piuttosto enfatizzati, a volte esasperati (pochi cartelli con le didascalie, riassumevano brevemente l’azione principale e i dialoghi tra i personaggi). Donen, ormai definito “re del musical”, nel film successivo rivisita nuovamente il genere, questa volta mescolandolo a tinte western.

Sette spose per sette fratelli, foto MGM / The Kobal Collection (1954)

Sette spose per sette fratelli (1954), è infatti un coloratissimo e spumeggiante musical-western in cui sette boscaioli organizzano un moderno ratto delle Sabine, riuscendo alla fine a conquistare e sposare le ragazze, altro film targato MGM, un trionfo di colori con momenti sorprendenti in cui Donen dà prova ancora una volta di una grande maestria nel saper creare scenografie all’aperto.

Il 1955 segna la realizzazione del terzo e ultimo titolo della “premiata ditta” Kelly-Donen, E’ sempre bel tempo, una riflessione dolceamara sul cinema che sta cambiando, una stagione sta per chiudersi per sempre con l’avvento della televisione e del mondo della pubblicità. Un film in cui scorre sotto traccia il senso nostalgico verso un tempo inesorabilmente passato.

Cenerentola a Parigi (1957)

Due anni più tardi realizza un riuscito musical favolistico, Cenerentola a Parigi (1957), un perfetto connubio tra l’eleganza di Fred Astaire e la grazia di Audrey Hepburn, allora astro nascente, che nella pellicola canta senza essere doppiata. Abbandonato il musical, Donen si indirizza successivamente verso la commedia di impianto teatrale, come Indiscreto (1958), L’erba del vicino è sempre più verde (1960), entrambe interpretate da Cary Grant.

Sciarada (1963)

Mentre gli Studios negli anni Sessanta cominciano a dare segni di cedimento, fino ad entrare in crisi per via della concorrenza della televisione, per Stanley Donen ha inizio una stagione particolarmente prolifica con titoli come Quei due (1969) con un virtuosistico gioco di attori, una gara di bravura fra Rex Harrison e Richard Burton, senza tralasciare la commedia Due per la strada (1966) con Audrey Hepburn e Albert

Due per la strada (1967)

Finney dove la narrazione procede passando da un presente a flashback continuamente intersecati. Una regia che non manca di esplorare generi differenti, come quello giallo-rosa con Sciarada (1963) e Arabesque (1966).

Arabesque (1966)

Segue un adattamento del romanzo di Saint-Exupéry in chiave di musical fantascientifico del Piccolo principe (1972), in cui Donen si affida al talento degli interpreti, Richard Kelly, Gene Wilder, Steven Warner, alle composizioni musicali di Frederick Loewe e alla coreografia di Bob Fosse. Considerato da alcuni il testamento spirituale del regista, Il boxeur e la ballerina (1978) è un omaggio ai double bill (un doppio programma cinematografico, due film con un solo biglietto), in voga negli anni Trenta. La pellicola è composta di due episodi riguardanti, uno, l’ascesa di un giovane pugile, a sfondo malavitoso, e l’altro, la carriera di una ballerina lanciata da un impresario al tramonto. Sei anni più tardi firma Quel giorno a Rio (Blame It On Rio, 1984), un remake della pellicola francese Un moment d’égarement (1977) di Claude Berri, dove l’ambientazione si sposta dalla Costa Azzurra al Brasile.

Indiscreto (1958)


Nel 1999 gira il suo ultimo lavoro, Love Letters, interpretato da Steven Weber e Laura Linney, nei panni, rispettivamente, di un politico repubblicano e di una pittrice in auge. Stanley Donen ha avuto un’intensa vita sentimentale, passando dal fidanzamento con Judy Holliday e poi con Elizabeth Taylor, a cinque matrimoni, da cui ha avuto tre figli.  Nel 1948 ha sposato la ballerina Jeanne Coyne, dal 1952 al 1959 l’attrice Marion Marshall. Successivamente è marito di Adelle O’Connor Beatty, quindi dell’attrice Yvette Mimieux. Dal 1990 al 1994 è sposato con Pamela Braden. Dal 1999 fino alla sua scomparsa, nel 2019, è rimasto legato alla regista e sceneggiatrice Elaine May.

Stanley Donen agli Oscar nel 1998

Nel 1998, l’ex ballerino, a passi di danza e cantando, riceve l’Oscar alla carriera dalle mani di Martin Scorsese. Sul palco, Donen si porta la statuetta vicino al viso e improvvisa un perfetto tip tap, suscitando l’emozione generale della platea, che si alza in piedi e applaude. Nel 2004 è stato premiato a Venezia, col Leone d’oro alla carriera.

Stanley Donen, a Venezia, Leone alla carriera (2004) foto di Claudio Onorati

Abbiamo avuto la fortuna  di conoscere Stanley Donen nel 2010, a Bologna, in occasione di un omaggio al suo cinema nell’ambito della ventiquattresima edizione del Cinema Ritrovato, e riproponiamo l’intervista apparsa su MYmovies. Ne ricordiamo l’affabilità nel rispondere alle domande, il suo sorriso discreto dietro agli occhiali fumé. Al termine dell’intervista, Stanley Donen ci ha regalato una piccola e indimenticabile performance, ha accennato alcune note di Singin in the rain.

Note:

  1. Filone nato negli anni Trenta e Quaranta, caratterizzato da personaggi alto-borghesi, dalla predilezione per scene girate in interni e dallo stile allusivo e ricco di sottintesi, e poi sviluppatosi nei decenni successivi con variazioni e contaminazioni verso la parodia e la satira.
  2. Stanley Donen in Stanley Donen. Resistere all’evidenza a cura di Edoardo Bruno, pag. 27

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