La sua immagine pubblica è contraddistinta dai tratti particolari della sua biografia, la sua famiglia, la sua infanzia, i suoi legami umani e artistici, la sua passione civile, soprattutto dalla parte delle donne. C’è qualche aspetto di sé che malgrado la sua popolarità è poco conosciuto e che vorrebbe invece far conoscere?
La mia grande passione per il teatro. Il tanto teatro fatto nelle cantine, per strada, all’estero, in Italia e la poca considerazione ottenuta nel mondo teatrale. Ogni volta devo ricominciare da capo nonostante gli entusiasmi con cui volta per volta vengono accolti dal pubblico. Dialogo di una prostituta con un suo cliente è stato rappresentato in 12 paesi. Maria Stuarda è stata rappresentata in 24 lingue, in Giappone per esempio la rappresentano ogni anno da quindici anni. Stravaganza è stata rappresentata in sei paesi sempre con molto successo. I digiuni di Catarina da Siena è stata rappresentata per anni in giro per l’Italia. Marianna Ucrìa è stata prodotta dallo Stabile di Catania e ha girato l’Italia con un successo strepitoso, tanto che raddoppiavano le repliche per fare entrare tutti. Ebbene, se oggi scrivo un testo, stento a trovare una produzione. Insomma come se non avessi mai scritto per il teatro… Mi sono chiesta perché? Secondo me le ragioni sono due : la prima è la misoginia che regna in teatro. Una misoginia antichissima come la storia del teatro. Secondo: non si sopporta che una persona che ha successo in un campo poi ne abbia anche in un altro campo. Come si permette di invadere un campo che non è il suo? Ma io ho cominciato a fare teatro a 13 anni, in collegio a Firenze, con le mie compagne. Scrivevo testi che poi rappresentavamo tutte insieme. E ho sempre continuato. Ho sempre scritto drammi e salvo recitare ho fatto di tutto, dalla suggeritrice alla regista, dal tecnico delle luci e dei suoni alla scopina. Conosco molto bene il teatro dall’interno; ho fatto le tournée per l’Italia portando la scena sul tetto della macchina, e dentro i cinque attori di Ricatto a teatro. Ho avuto testi diretti da grandi registi come Ronconi (Memorie di una cameriera), con protagoniste prestigiose come Anna Maria Guarnieri, o Mela con la regia di Calenda e la partecipazione di Elsa Merlini. Ma niente, come se non l’avessi mai fatto.
Visto da oggi, dal punto d’arrivo, il suo percorso di scrittrice è articolato e coerente. Insieme al caso, alle coincidenze della vita, c’è stato certamente un costante impegno da parte sua. Quali sono stati i momenti più difficili, e quanto ha contato allora la sua determinazione nel proseguire per la sua strada?
I momenti più difficili vengono quando ti scontri con lo scetticismo della gente, con la sfiducia nel futuro, nel lavoro in comune. O quando trovi chi si considera migliore di te e vuole prevalere e metterti da parte. Queste persone che io considero infelici e malate, preferiscono farsi del male piuttosto che dartela vinta. E alle volte ci riescono.
L’incontro con Alberto Moravia cosa ha significato nella sua vita, da un punto di vista affettivo e professionale?
Un uomo dolcissimo e pieno di attenzioni che mi manca molto. Un uomo con cui potevo passare ore e ore a parlare delle grandi questioni del mondo. Di una intelligenza esplosiva ma sempre umile e a disposizione degli altri. Era molto amabile Alberto ed è stato naturale per me amarlo di un amore sereno e profondo. Abbiamo viaggiato insieme, vissuto insieme, fatto progetti e condiviso interessi e passioni. Salvo il teatro che ad Alberto non piaceva tanto, la letteratura, il cinema, i viaggi, sono stati il nostro pane quotidiano. Come scrittore mi ha insegnato -ma più che insegnato, dato l’esempio- l’onestà intellettuale, il rigore, il continuo approfondire e sperimentare, nonché l’impegno e la coscienza civile. Ma queste cose me le aveva già fatte conoscere mio padre che era un grande uomo di scienze e di cultura.
E Roma, l’ambiente letterario e artistico che ha frequentato, i suoi vari incontri con scrittori, registi, poeti, che importanza hanno avuto per lei?
Quella romana, ma non solo, direi in tutta Italia gli artisti si riconoscevano come una comunità che aveva un suo valore da difendere e conosceva la militanza e la solidarietà… Ci si incontrava per il piacere di incontrarsi. Oggi non succede più. Oggi ci si vede per un convegno, per una discussione pubblica, ma non si usa più incontrarsi nei ristoranti, nei bar per il solo piacere di chiacchierare e scambiarsi opinioni e raccontarsi i progetti a cui si sta lavorando. La comunità degli artisti non si riconosce più come tale. Si tende all’individualismo sfrenato e ciascuno è chiuso in un piccolo circolo di amici. La solidarietà sembra scomparsa.
“La vita o si vive o si scrive, io non l’ho mai vissuta se non scrivendola” diceva Pirandello, e altri scrittori, fra cui Philip Roth, hanno affermato la stessa cosa. La necessità di ritirarsi, di lasciare fuori il mondo esterno per fare uscire il proprio, per fare arrivare alla pagina visioni, ricordi, immaginazione, riflessione, spesso prevale in chi scrive. Cosa può dire in proposito?
Non sono d’accordo con Pirandello. La vita la si vive e la si scrive quasi contemporaneamente. Se non si vivessero certe esperienze, in maniera diretta o indiretta, non si potrebbe raccontare ciò che ci riguarda non solo come persone ma come popolo, come paese, come epoca… Ma non so cosa sia la mondanità. Odio i vestiti firmati, le macchine di lusso, i salotti dove si incontrano persone in vista. Faccio una vita da certosina: scrivo chiusa in casa. Esco solo per fare la spesa, per andare a qualche mostra, vedere qualche film e assistere a molti spettacoli teatrali.
Qual è stato il periodo più felice della sua vita, o che ricorda più volentieri?
La felicità la si scopre sempre dopo, quando non c’è più. Ci sono stati molti momenti felici nella mia vita e me ne accorgo solo ora.
Quali sono le opere alle quali è più legata?
Di solito l’ultima perché è quella che mi ha tenuto compagnia per anni. La convivenza crea affezione. Poi il libro viene stampato e se ne va per il mondo. E nasce un altro rapporto, un altro progetto a cui dedicarsi anima e corpo.
Lei ha avuto un rapporto privilegiato col cinema, frequentava Pasolini e ha collaborato con lui nella sceneggiatura de Il fiore delle mille e una notte, suoi romanzi sono diventati film, ha scritto sceneggiature di film importanti e ne ha diretto anche uno. Può raccontare qualcosa…
Sì ho lavorato molto per il cinema, con Pier Paolo Pasolini, con Marco Ferreri, con Margarethe Von Trotta, con Faenza e tanti altri. Amo il cinema e l’atmosfera che crea intorno a un progetto di racconto. Ma non amo scrivere per il cinema. La sceneggiatura non è fatta per essere letta, ma serve per i tecnici e per i costumisti e per gli scenografi. Una sceneggiatura non deve avere uno stile narrativo, diventerebbe ridicola. La storia sì, c’è e va costruita bene, ma senza nessuna attenzione al linguaggio che per me invece è parte fondamentale del progetto… Oggi infatti quando mi si prospetta un film preso da una mio libro, come ha fatto Irish Braschi con L’amore rubato, dico “fate voi” io non voglio entrarci. Mi basta una fedeltà di fondo al testo e che venga fuori un buon prodotto.
Diverse sue opere riguardano la condizione delle donne in Italia, la strada per raggiungere la parità dei diritti da noi pare ancora molto lunga…
Ormai non si può più pensare solo in termini europei. Il mondo ci sta addosso e il mondo è pieno di ingiustizie che riguardano le donne. Per fortuna da noi molte cose sono cambiate in seguito al movimento delle donne degli anni 70. Possiamo dire che è stata una vera rivoluzione pacifica. Ha cambiato tutte le leggi patriarcali che dominavano nel paese da secoli: dal Diritto di famiglia alle leggi sulla Violenza sessuale, dal Delitto d’onore alle leggi sulla Parità salariale. Ma, come dicevo prima, sarà difficile difendere questi diritti dai vari fondamentalismi, se non ci crediamo veramente. I diritti a cui teniamo non sono diritti occidentali, ma universali e come tali andrebbero rivendicati. Non è un caso che tutti quelli che scappano da guerre, da dittature, vogliano venire da noi: qui c’è pace e libertà, due cose non facili da trovare, due grandi conquiste che ci sono costate infinite sofferenze. Ma ci vuole così poco a perdere tutto. Di questo molti non si rendono conto. Consumano tutte le energie a fare risse interne, per piccole questioni di potere, è proprio una disgrazia. Quando alzeranno lo sguardo dal proprio ombelico si accorgeranno che il mondo è entrato in guerra e non ci sarà più niente da fare.
In La lunga vita di Marianna Ucrìa come in Bagheria ha portato alla luce modi d’essere e sentire che nel nostro Paese non solo sopravvivono da secoli, ma forse hanno trovato nuova linfa in un presente imbarbarito…
Certo l’attaccamento ad alcuni sentimenti, come quello del possesso della persona amata, vive ancora e resuscita appena viene messo in discussione il diritto di proprietà. Come insegnare che le persone non si possono possedere per nessuna ragione al mondo? Possedere una persona, anche se per amore, vuol dire farla schiava e la schiavitù l’abbiamo abolita no? Non è un diritto possedere l’altro, fosse pure un neonato, anche se lo è stato per millenni. La cultura del possesso è talmente radicata che risalta fuori ad ogni guizzo di paura collettiva portando la storia indietro di secoli.
Le condizioni di sofferenza fisica e psicologica alle quali possono portare malattie incurabili, o menomazioni da traumi, incidenti, rendono la scelta di porvi termine come l’unica e ultima libertà che abbiamo. Cosa ne pensa?
Penso che la persona debba essere libera di decidere della propria vita. Nessuna legge può vietarla. Solo la religione può vietare la libertà personale ma per fortuna siamo un paese laico. D’altronde negli ospedali viene praticata di continuo nell’indifferenza generale… Purtroppo il difetto maggiore del nostro paese è che non riusciamo mai a prendere delle decisioni chiare e limpide, trasparenti. Tutto si fa ma in segreto e con la complicità di medici e familiari.
Quali sono adesso i principali stimoli per lei nella scrittura, la memoria, la testimonianza, temi attuali?
Non ci sono regole. Attingo alle esperienze, dirette o indirette, che mi hanno colpito di più.
In questo tempo di contatti virtuali perenni che raramente diventano comunicazione, attraverso le sue opere riesce ad aprire un dialogo col lettore?
Vede, il teatro dovrebbe essere protetto e tenuto caro proprio per questo. In mezzo a una marea di spettacoli virtuali, dove abbiamo sempre davanti uno schermo, in teatro ci sono persone che si incontrano dentro una sala, che interagiscono e intelligenze che si intrecciamo, emozioni che passano da una parte all’altra del palcoscenico. Questa è la grandezza del teatro. Ma anche la narrazione, se è fatta solo per dare pugni nello stomaco, o per consolare, o per eccitare, senza scandagliare in profondità, lascia il tempo che trova, diventa consumo. Il vero scrittore è come un palombaro che scende nelle acque profonde dell’inconscio collettivo e trova degli oggetti anche a lui sconosciuti che porta alla luce della consapevolezza. Non è un eroe, solo ha il coraggio di scendere dove è pericoloso andare. E non lo fa per dimostrare qualcosa, ma per capire lui stesso cosa nasconda il buio.
(31 marzo 2017)