INCONTRO CON VOLKER SCHLÖNDORFF di Luisa Ceretto

© Fema – Philippe Lebruman

Lei è nato a Wiesbaden, città situata nella Germania centro-occidentale, divenuta, nel 1945, capitale del Land Assia, all’interno della zona sotto l’influenza degli Stati Uniti. Cosa ricorda di quell’epoca, subito dopo la guerra, cosa l’ha spinta verso il cinema, quali sono i film che ha visto, prima di andare in Francia?

Sì, era la zona cosiddetta “americana”, io avevo cinque o sei anni quando sono arrivati gli americani. Noi ci siamo americanizzati a fondo, immediatamente, perché è una civiltà, io preferisco parlare di “civiltà” invece di “cultura”, molto più interessante rispetto a quella tedesca, tenendo anche conto che gli americani erano i vincitori.

E la Germania, nella mente e nell’anima, ne era uscita distrutta… E lì, invece, c’erano quei giovani soldati americani con una civiltà talmente interessante, se messa a confronto con la catastrofe che era derivata dalla nostra, che sicuramente ci siamo alleati coi cosiddetti occupanti, che per noi erano liberatori e rappresentavano un nuovo inizio.

Ma il cinema non c’era dove abitavo, ero in campagna, e non ha avuto alcuna influenza, come invece l’avevano la musica, le riviste o la letteratura.

R. W. Fassbinder e V. Schlöndorff sul set di Baal (1969) © Ullstein Bild

È solo verso la metà degli anni cinquanta che ho cominciato ad andare un po’ al cinema, c’erano western, soprattutto noir, e poi sono arrivati i primi film francesi di Cocteau, ma anche Rififì (1955, diretto da Jules Dassin, ndr). Ma in particolare Cocteau, Les enfants terribles, Orfeo.

L’arte, e più ancora l’avanguardia nel cinema mi aveva colpito molto, è stata la ragione che mi ha spinto a recarmi in Francia. Andare in America a quell’epoca era escluso, troppo lontano, troppo caro e per fare cosa? Invece la Francia era sull’altra riva del fiume Reno, eravamo vicini.

La vera passione per il cinema è nata in Francia, quasi subito, perché nel collegio dove sono stato c’era un cineclub, si vedevano film di Dreyer, Giovanna d’Arco. Noi, eravamo come “vampiri”, ma questo è avvenuto successivamente, alla Cinémathèque Française. Si trattava della seconda volta che “cambiavo” civiltà, la prima volta avevo lasciato quella tedesca in favore della civiltà americana e, successivamente, a sedici anni, mi ero avvicinato a quella francese, che è rimasta l’influenza più profonda, fino ad oggi.

©1990 Allen Frame

Ben presto siamo divenuti un gruppo. C’era Bertrand Tavernier, era a scuola con me, nello stesso banco, al mio fianco. Ma non solo lui, c’era tutto il movimento intorno alle riviste di cinema minori, non dei “Cahiers du Cinéma”, ed è stato così che la cinefilia ha preso per me una fisionomia precisa.

Poi ho conseguito la maturità, nel 1958, e allora ho cominciato a frequentare la Cinémathèque, per due anni. Posso dire che la mia formazione è stata proprio francese, anche per l’aspetto letterario.

Sin dai primi anni sessanta c’erano stati fermenti all’interno del cinema tedesco, una generazione di nuovi autori aveva denunciato lo stato di crisi e l’esigenza di un suo profondo rinnovamento. Rientrando in Germania, nel 1965, com’era la situazione sul piano cinematografico?

Nel 1965 sono andato in Germania per girare I turbamenti del giovane Törless. C’era già stato il manifesto di Oberhausen (siglato nel 1962, ndr), io ero in contatto, ancora una volta, attraverso una rivista di cinema, con uno storico del cinema che si chiamava Enno Patalas, che successivamente è divenuto direttore della Cineteca di Monaco. Credo, tra l’altro, di essere stato io ad avere avuto una certa influenza affinché ottenesse quel lavoro, che non voleva, era uno storico e un critico puro, non si era mai occupato di aspetti organizzativi di un’istituzione. Perché accettasse la direzione era stato necessario spingerlo e convincerlo, così come, allo stesso tempo, era occorso che la città e i suoi rappresentanti lo accettassero. Una scelta che si è dimostrata ideale, Enno era perfetto per fare il direttore, sembrava essere nato per dirigere la cineteca, ma non lo sapeva ancora.

Io lo avevo conosciuto già nel 1960 o ’61, a Parigi, perché Enno vi si recava spesso, forse sul set di Zazie nel metrò (di Louis Malles), o in un’occasione simile, ma certamente sempre quello stesso anno ero stato a Monaco. Il mio primo contatto con il cinema tedesco era proprio avvenuto nel 1960 per L’anno scorso a Marienbad (di Alain Resnais). Avevamo trascorso due o tre mesi a Monaco, sono state riprese e tempi di preparazione molto lunghi,  e ho abitato a casa di un critico, per qualche tempo, e così ho fatto la conoscenza di Enno e Frieda Grafe, sono loro, del resto, che mi hanno suggerito di realizzare I turbamenti del giovane Törless, testo che non avevo ancora letto.

E da allora ero rimasto in contatto con loro e di tanto in tanto inviavo miei testi, da Parigi, alla rivista “Filmkritik”, e riuscivo, in tal modo, a ricevere tutte le informazioni su ciò che succedeva sulla scena, non erano ancora usciti grandi film.

Per quel che posso ricordare, c’erano cortometraggi che non avevo visto, ma una volta giunto a Monaco, ho subito preso contatto con Alexander Kluge, tra l’altro ho abitato in un appartamento, affittando da lui una camera. Enno mi aveva fatto conoscere Werner Herzog, il quale aveva appena realizzato il primo cortometraggio e mi ha indicato i luoghi dove girare I turbamenti del giovane Törless: ”occorre che tu vada in Austria, sulla frontiera con l’Ungheria, c’è una cittadina, è lì che devi girare”, era sempre molto impositivo.

I turbamenti del giovane Törless

Ma non avevo altri contatti, sapevo che Kluge stava girando il suo primo film, tanto meno con Urlich Schamonis o coi tre o quattro fratelli Schamonis, avevo trovato molto bello, tra l’altro, il suo film, Es (1966). Il titolo fa riferimento al bambino che la protagonista porta in grembo e al suo tentativo di abortire. Un lungometraggio semi documentario e fiction, un bellissimo film su Berlino, che era stato presentato a Cannes, nella selezione ufficiale del concorso, lo stesso anno de I turbamenti del giovane Törless. D’altronde era questo il grande successo pubblico del cinema tedesco, qui si trattava di un film che parlava ai giovani e di attualità, per via dell’argomento, l’aborto era ancora vietato in Germania, come lo era in Francia. Ma oltre ad affrontare il tema dell’aborto, Es era anche un film sulla situazione della Germania dell’Est e sulla speculazione immobiliare, un’opera davvero interessante. Nel giro di qualche mese facevo parte di un gruppo che si era formato in maniera spontanea. Non è che questo gruppo preesistesse, ma come spesso accade, tutto ad un tratto esisteva,e non c’erano ancora né Wim (Wenders), né Fassbinder, sono arrivati coi loro film due o tre anni dopo. E pure Edgar Reitz…

Per quanto ciascun regista seguisse un proprio percorso artistico, c’erano tuttavia linee che ne rendevano visibili un filo rosso, una ricerca comune…  

È divenuto presto un gruppo molto coerente perché avevamo tutti l’industria cinematografica contro. Eravamo quindi obbligati a chiudere i ranghi, ad organizzarci. Ci siamo anche politicizzati, perché occorreva ottenere una legittimazione in favore del cinema, per ricevere sovvenzioni, modificare la censura, che era assurda per il suo sistema di qualificazione dei film, quindi ci siamo trovati in una lotta comune che ci ha uniti e certamente ci possono essere state influenze reciproche. Non avevamo un programma comune su quale genere di film realizzare, ma c’era comunque una intesa tra di noi che non necessitava più di tanto di essere articolata. Un’intesa che poggiava sulla necessità che il cinema riflettesse la realtà rappresentata, che fosse contemporanea o meno, trovasse nuove forme, nuove estetiche, la mdp mobile, la presa diretta del suono, etc. L’unità si era creata contro un nemico comune, che era l’industria del cinema e l’estetica di certi film, e l’assenza totale di coscienza politica in quelle personalità del mondo del cinema da cui prendevamo le distanze. Tutto questo avveniva ben prima del 1968, tre anni prima, ma c’era già praticamente il programma del 1968.

Germania in autunno (1978)

Nel 1978 firma Germania in autunno, un film collettivo prodotto su iniziativa della “Filmverlag des autoren” (1) riguardante  problematiche della realtà contemporanea, come il terrorismo(2), in particolare la morte dei principali componenti della banda Baader Meinhof. Cosa ricorda di quel momento, rifletteva uno spirito di grande coesione tra voi registi, una forte connessione rispetto alla realtà circostante…

Alcuni giorni dopo i funerali dei terroristi svoltisi a Stoccarda, sono andato a Bonn per festeggiare l’anniversario, era il cinquantesimo compleanno di Günter Grass e il sessantesimo di Heinrich Böll. Uno lo conoscevo perché avevo girato Il caso Katharina Blum, e con l’altro ero in contatto perché stavamo preparando Il tamburo di latta. Non ricordo di quale dei due fosse il giorno esatto del compleanno, in ogni caso c’erano entrambi, eravamo in una reception di un hotel a Bonn, era presente anche Willy Brandt.

E questo dimostrava che c’eravamo tutti, avevamo cominciato dieci o dodici anni prima, nel 1965, il 1978, era un po’ la fine, eravamo non soltanto politicizzati ma andavamo tutto il tempo a Bonn, conoscevamo personalmente tutti gli uomini politici, esponenti della socialdemocrazia, avevamo veramente contribuito a sostenere il cinema. Quel film ha documentato un momento drammatico della storia tedesca.

Il tamburo di latta

La sua biografia, come ha accennato, si intreccia con pagine cruciali di Storia, prima fra tutte il nazismo. Quanto la Storia è entrata nel suo fare cinema, quanto ha influenzato il suo percorso artistico, i suoi film? 

Si, sicuramente, ne ho parlato anche a proposito di Romy Schneider (3), erano gli anni in cui ci sono stati i primi processi ad Auschwitz e quindi c’era questa coscienza che avevamo, un senso di responsabilità verso la nostra Storia, e su come dovevamo collocarci. Occorreva farsi carico di questa eredità, oppure ignorarla? La scelta politica è stata quella di farsene carico, per quanto in quel periodo storico fossimo poco più che bambini, ciò non voleva dire nulla, era parte della civiltà da cui provenivamo, anche perché una civiltà non cambia così velocemente. E molto presto, per quanto ci riguarda, sin da adolescenti, avevamo già la sensibilità, potevano essere i professori a scuola o altre persone, gli amici dei genitori, per cogliere e sentire ovunque i rigurgiti del nazismo, ma soprattutto il rifiuto a parlarne. Tutti sostenevano di non averne fatto parte, ma se l’intera popolazione, come dicevano, non ne aveva preso parte, occorreva che qualcuno avesse aderito. C’era una sfiducia assoluta da parte nostra nei confronti dell’universo degli adulti.

Del resto è stato Adenauer, la sua politica, a ipotizzare il 1945 come l’”anno zero” a partire dal quale una nuova società potesse crescere, senza guardare indietro, a ciò che era stato fatto prima, e senza fare i conti col passato. (4)

Gunter Grass, Volker Schlöndorff, David Bennent © picture alliance / dpa / DB United Artists

Il tamburo di latta costituiva, per certi versi, una riflessione sul nazismo…Ci può raccontare com’è nato?

All’estero Il tamburo di latta è percepito come un film politico, sul nazismo. Ma non era quella, se devo dire, la mia motivazione. Intanto, facevo film da tredici anni, l’affrontare un tema come il nazismo, era come sfondare una porta aperta.

Ad interessarmi era soprattutto il personaggio del piccolo Oskar e quell’universo fantastico di Günter Grass. Ciò che avevo appreso da Grass e che in precedenza non avevo del tutto capito, era che il movimento nazista fosse stato un movimento piccolo-borghese, che i partiti di sinistra, che si trattasse dei socialisti o comunisti o i socialdemocratici, si occupavano del proletariato, i partiti di destra o del centro si occupavano della grande borghesia, degli industriali e dei loro interessi economici, e la piccola borghesia negli anni trenta ma anche a partire dagli anni venti, era stata totalmente trascurata da tutti, si sentiva esclusa. Da un lato c’era il proletariato, dall’altra parte il capitale, “si, ma… e noi?” La piccola borghesia era la parte più numerosa, e non era rappresentata da nessuno, ed è ciò che ha compreso  Hitler. Questo è il vero soggetto del film, non l’intuizione, ma l’esperienza stessa di Günter Grass, perché lui stesso proveniva dalla piccola borghesia, che era ancora più esacerbata a Danzica, che era un po’ come una colonia.(5) Spesso quando ci si allontana dal centro, da Berlino, i movimenti prendono le forme più estreme, si è trattato infatti di un nazionalismo piccolo-borghese.

Il tamburo di latta

Questa era la tela di sfondo del film, ma per me l’interesse maggiore era stata la scoperta del personaggio, il modo di raccontare molto crudo di Günter Grass e anche il ritratto che faceva della città di Danzica, un piccolo universo completamente chiuso in se stesso, come una città sotto assedio, dove tutte le qualità erano spinte al loro estremo, qualità intese non nel senso buono, relativo a tutti gli aspetti della cultura. Per me realizzare questo film rappresentava più una sfida letteraria che una sfida politica. Come passare da questo genere di letteratura al cinema? Dapprima ho pensato che fosse impossibile e poi, poco alla volta… è a quel punto che è intervenuto Jean-Claude Carrière, che mi ha spiegato che non era per nulla complicato, anzi, piuttosto semplice: “È sufficiente prendere alla lettera Günter Grass per ciò che racconta e non nel modo in cui la racconta. Non bisogna cercare di filmare lo stile, ma occorre cercare la storia che vi è dietro.” E ci siamo resi conto che era perfettamente fattibile, perché si trattava di un vissuto. Günter Grass aveva vissuto tutto ciò, beh non era certo così piccolo, ma tutto l’universo descritto, gli amici, i genitori, i vicoli, conosceva ciascun personaggio, non c’era alcuna invenzione.

I suoi film costituiscono spesso delle sfide, attingendo a testi teatrali, come per il recente Diplomacy, o ad autori, mostri sacri della letteratura, come ad esempio Marcel Proust…

Jeremy Irons, Alain Delon, Un amore di Swann (1984)

Le farò una confessione. Questa notte, dopo una lunga conversazione con Jérôme Seydoux (presidente di Pathé) e la moglie Sophie Desserteaux ed altre persone, a tavola, qui a Bologna, non abbiamo menzionato espressamente Proust… ma ho ripensato al mio film Un amore di Swann (1984), il cui produttore era il fratello di Jérôme, Nicolas Seydoux, insieme a Toscan du Plantier.

Qual era stata la sfida? Ho sempre creduto che la sfida fosse: vediamo se riusciamo a girare un film su Proust, a metterlo in scena. Ma mi sono reso conto che per me la vera sfida era riuscire a fare un film francese, io che non lo sono, meglio dei francesi! Perché fino ad allora non avevo mai girato un film in Francia. Ero completamente assimilato, ma nel momento in cui volevo girare, mi hanno invece proposto di andare in Germania. Evidentemente non era una mia scelta, mi è stato chiesto di girare un film tratto da Proust. Non è che mi abbiano detto, ecco un progetto per cui cerchiamo un regista.

Barbara Steel ne I turbamenti del giovane Törless © imago images / United Archives

Non so se cercassero me o fosse una ricerca in generale. Sapevo che avevano chiesto a Peter Brook, che non poteva farlo, e prima che me lo chiedessero, mi ero proposto di farlo. Un amore di Swann direi che sia un bel film ma non riuscito. Un insuccesso programmato e mi domando come sia stato possibile che nessuno lo abbia capito. Dico che era programmato perché qualsiasi sia il grado di assimilazione, non ci si potrà mai totalmente appropriare di una civiltà. Io conoscevo perfettamente l’ambito di cui parlavo nel film, ma non faceva veramente parte di me. Ad esempio nell’adattare il testo di Günter Grass non c’era stata alcuna difficoltà malgrado fosse la mentalità piccolo borghese del regime, lo sentivo, potevo giorno per giorno inventare cose sul set e infondere vita a ciò che facevamo, renderlo credibile. Mentre invece per Proust rimaneva astratto, con molta analisi, gusto, intelligenza, con tutto quel che si vuole, ma non faceva per me, non era esattamente il mio genere.

Sono sicuro che se avessi fatto qualcosa tratto da Thomas Mann, ad esempio I Buddenbruk o altri titoli, sarei stato più a mio agio.

Era stato un peccato di orgoglio, da parte mia, voler adattare un testo di Proust. Non tanto rispetto a Proust, avrebbe potuto essere stato anche Balzac, si sarebbe posto lo stesso problema, conoscevo la società francese, a livello intellettuale, forse sul piano emozionale, ma non la conoscevo nelle viscere.

E oltre a questo, anche la scelta di Jeremy (Irons) e Ornella Muti… automaticamente si erano introdotti elementi di cui era impossibile trovare un filo comune, erano elementi troppo disparati.

Per giustificarmi, mi ero detto che gli italiani avevano preso Burt Lancaster per fare un aristocratico siciliano (ne Il gattopardo di Visconti) e che  Federico Fellini aveva preso Broderick Crawford per fare Il bidone (1955) (nei panni di Augusto Rocca) o Michelangelo Antonioni aveva scelto Steven Cochran per Il grido ( 1957), ma gli Italiani lo sanno fare. La società francese è troppo chiusa, non vi si possono introdurre elementi, questa, in ogni caso, è la mia convinzione.

Sentivo bene la gelosia, il rapporto delle classi nel film, ma non sono mai riuscito a cogliere l’essenza della società francese. Il fallimento del film, per me, è che sa di finto, di troppo costruito. Ci sono tutti i migliori ingredienti ma non decolla come avrebbe dovuto.

Bruno Ganz e Hanna Shygulla ne L’inganno (1981)

Ecco, Jean Renoir avrebbe potuto farlo, sarebbe riuscito sicuramente nell’impresa. E dire che c’erano persone intorno a me, responsabili, produttori, come ad esempio Toscan du Plantier, che avrebbero potuto dirmi che era un errore, che il film non avrebbe potuto funzionare. Del resto, credo che Peter Brook avrebbe fatto forse lo stesso errore. Non è colpa di Proust, infatti quel che mi avrebbero dovuto suggerire era, non tanto di evitare un film su Proust, quanto di non fare un ritratto della società francese del Novecento.

Mi ossessiona questo aspetto, potrei parlarne per ore. D’altronde tutta la mia vita è stato lattraversamento di una civiltà dopo l’altra, ho lavorato misurandomi con civiltà differenti. In America è possibile, è un paese di immigrati.

Crede che negli Stati Uniti sia più facile riuscire a realizzare un film, rispetto alla Francia?

In America, chiunque, da qualsiasi area provenga, può riuscire a fare un film americano, pure io. Infatti, non ho avuto alcun problema a realizzarne. Pensi a tutti gli immigrati che durante gli anni trenta sono arrivati e non parlavano ancora l’inglese, eppure erano già perfettamente americani. Perché la civiltà in America è costituita da influenze che provengono da ogni dove. La società francese, invece, soprattutto nel passato e quella del Novecento, era talmente chiusa, un universo chiuso, come lo era l’universo di Proust, e quindi il mio film era come un insuccesso annunciato, come dicevo prima.

E i miei amici, come Bertrand Tavernier, come Louis Malle, avevano voluto mettermi in guardia, mi avevano detto di non fare il film, di non avvicinarmi a Proust, che era come la vacca sacra, che mi sarei fatto massacrare, in realtà, però, avevano torto. Perché, in effetti, non era tanto Proust il problema, quanto il fatto di non fare parte di quella società. L’ho comunque un po’ analizzata la società francese, ma in modo più modesto, in due film francesi che ho realizzato, La mer à l’aube e Diplomacy. Ma mi sono ben guardato dall’introdurre elementi esterni, mi sono attenuto e ho preso solo tutto ciò che c’era di veramente francese per riuscirvi…

Volker Schlöndorff e Claude Lelouch ©Bauer Griffin

A proposito di percorsi artistici comuni, anche Bertrand Tavernier e Louis Malle si erano trasferiti oltreoceano, confrontandosi con la produzione americana…

Bertrand ha provato perché conosceva bene il cinema americano, ma ha avuto  sfortuna in America perché i suoi film americani non sono stati del tutto accettati negli Stati Uniti. Round Midnight – A mezzanotte circa sì, per via del jazz, ma gli altri no.

E Malle, con cui sono stato in contatto pressoché quotidiano quando era in America, beh lui ha sposato due americane, o comunque ha convissuto, si è totalmente inserito e nondimeno è sempre rimasto il “Frenchie”, il regista francese, e questo lo riempiva di rabbia. “Frenchie, do you think I am Frenchie, but I’ll show how Frenchie I am…” Aveva raccolto la sfida ma, a parte Atlantic City, restavano film francesi. Dal momento che sono cosmopolita e multilingue, questo è un mio argomento di riflessione, come sia possibile che non si riescano a mescolare le società…

Cosa ci può raccontare dell’Orco-The ogre, com’è nata l’idea del film?

John Malkovich ne L’orco – The ogre (1996)

Lo considero una catastrofe, perché era un film che ho cominciato con Jean-Claude Carrière, unicamente perché Gérard Depardieu voleva farlo. Stava girando in studio a Berlino, a Babelsberg, abbiamo parlato del romanzo, Il re degli ontani (di Michel Tournier) e mi aveva detto che assolutamente lo avrebbe girato, ci eravamo incontrati con Jean-Claude, c’era un accordo fra noi. Ma trascorso un anno, il tempo di completare la sceneggiatura e di preparare la lavorazione, Gérard, in un gesto di follia, ha dichiarato che sarebbe partito per l’America e che non avrebbe più lavorato su film francesi. Non era contro il mio film in particolare, ma verso il cinema francese in generale, è stato uno dei suoi colpi di testa, durati uno o due anni. La storia di un film è anche una vicenda economica, avevamo già impegnato parecchi soldi per la sceneggiatura e la preparazione, quindi occorreva procedere e fare il film, non potevamo dire, bene non c’è Gérard, fermiamo tutto. Occorreva, o meglio, io volevo procedere anche per ragioni economiche e comunque anche per quello in cui avevamo già investito in termini di idee, di tempo. Allora abbiamo pensato ad un altro attore francese, abbiamo chiesto a Jean Reno, che però mi ha restituito la sceneggiatura dicendo che non aveva capito nulla. Abbiamo pranzato, eravamo in tre, Jean-Claude, io e Jean Reno, lui aveva del resto ragione perché non era la persona adatta per quel tipo di personaggio. Ma ci occorreva un nome. Visto che ero molto amico di John Malkovich, allora ho provato a chiederglielo, lui che può veramente recitare qualsiasi ruolo…’tu sei robusto e grande’…e lo ha fatto magnificamente. Solo che non era un attore francese, quindi occorreva girare in inglese e, d’un tratto, il film è divenuto artificiale.

Se ci fosse stato un attore sconosciuto ma francese, sarebbe stato un film migliore, soltanto che non sarebbe stato prodotto. Avevamo un anticipo sulle entrate a livello internazionale perché avevamo un nome come Gérard Depardieu. Quindi, in sua vece, ci serviva una vedette, qualcuno che fosse del suo stesso calibro e il nome di Malkovich andava molto bene. Tra l’altro era subito dopo il successo di Le relazioni pericolose (1988, regia di Sthephen Frears), il suo nome era in auge. E così abbiamo dato inizio al progetto, mi trovavo molto bene con lui, ma qualcosa non funzionava. Forse che non fosse francese era solo una delle ragioni, forse ce n’erano altre…

Lei che si è formato in un periodo di grande vivacità culturale, di osmosi tra cinema e letteratura, come vede oggi la settima arte, in questo nuovo panorama cinematografico, dove spesso pare conti maggiormente la tecnologia rispetto all’idea…

Stellan Skasrgaard e Nina Hoss in Return to Montauk (2017)

Beh io dalla tecnologia mi distacco totalmente. Onestamente, questa rivoluzione del digitale ha costituito il colpo di grazia per il cinema. È vero che è stata detta la stessa cosa con l’avvento del sonoro. Béla Balázs e altri avevano dichiarato che fosse la fine del cinema. E tra l’altro avevano ragione, perché rappresentava la fine di un certo tipo di cinema. E allo stesso modo il digitale costituisce la fine di un certo modo di fare cinema.

Perché non si tratta soltanto di una diversa modalità tecnica, ma anche ad esempio del modo di rivedere le riprese fatte, sul telefonino, in streaming… per noi il film era un oggetto che durava cento minuti o intorno a quella durata, con un inizio, uno sviluppo ed una fine, in questo ordine, ma questo oggetto non esiste più. E soprattutto il pubblico non sarebbe più capace di fruire tale oggetto. I giovani in particolare, che sono certamente intelligenti almeno quanto lo eravamo noi e altrettanto aperti, ma si sono abituati a vivere in un flou audiovisivo continuo, dal mattino alla sera, in cui non si riesce a tagliare un pezzo…e dire ecco, questo è un film.

Un film diviene parte di questo flou audiovisivo in cui essi vivono, quotidianamente, ed è a causa del digitale e di un certo tipo di cinema. Forse è per via dell’età, visto che ho quasi del tutto finito di fare cinema. Ma anche perché con questo nuovo formato, non saprei che fare. Se mi dicessero che posso girare un film di tre ore, mi chiederei  ma per farne che? E lo stesso se mi proponessero di fare una serie di 12 ore. Come possiamo fare col minimo di mezzi, possiamo creare e riempire un’ora e mezzo di tensione e di emozione? Un film è come un orologio dove tutto deve funzionare in maniera impeccabile…

Strajk – Die Heldin von Danzig (2006)

NOTE:

  1. “Filmverlag der Autoren” è la casa di produzione e distribuzione del Neuer Deutscher Film fondata a Monaco di Baviera, tra la fine del 1970 e l’inizio del 1971, aveva a modello la casa editrice autogestita di Francoforte “Verlag der Autoren”. Tra i titoli in distribuzione nel 1974  vi si trova, ad esempio, il meglio del Neuer Deutscher Film: da Fassbinder a Herzog, da Kluge a Rosa von Praunheim, Schlöndorff, Schroeter. Da quella data in poi, per più di dieci anni, praticamente tutto il cinema d’autore tedesco è stato distribuito sugli schermi della Repubblica Federale di Germania con il marchio rosso del “Filmverlag”.
  2. Il film collettivo firmato, tra gli altri, da Edgar Reitz, R.W. Fassbinder, A. Kluge e Schlöndorff, è stato realizzato sull’onda dei tragici eventi che ebbero inizio il 5 settembre 1977 col rapimento da parte dei terroristi della RAF del presidente della Confindustria, per concludersi col ritrovamento dei cadaveri dei principali componenti della banda.
  3. Nel corso della lezione tenutasi al “Cinema Ritrovato” (trentacinquesima edizione), dedicata a Romy Schneider, a Bologna, luglio 2021.
  4. L’espressione Stunde Null, “ora zero”, mutuata dal gergo militare, si riferisce all’8 maggio 1945 e, più in generale, al periodo dell’immediato dopoguerra in Germania e Austria. Fa riferimento alla resa incondizionata della Wermacht, al crollo del Terzo Reich e alla possibilità per i due paesi di ripartire da zero. Tra le pellicole che raccontano l’immediato dopoguerra in Germania, si ricorda il capolavoro di  Roberto Rossellini, Germania anno zero (1948) dove la città di Berlino, raffigurata tra la macerie dei palazzi e la miseria in cui versa la popolazione, costituisce il riflesso della condizione esistenziale, attraverso il personaggio del giovane Edmund, di un paese sconfitto e distrutto dall’ideologia nazista.
  5. Città portuale da sempre contesa fra Polonia e Germania, tradizionalmente di lingua e cultura tedesca. A seguito della sconfitta della Germania dopo la prima guerra mondiale, Danzica  fu dichiarata, “Città Libera di Danzica” (1920-1939). Il 1° settembre 1939 le truppe tedesche invadevano la Polonia, dando così inizio alla seconda guerra mondiale, proprio nel porto della città, dove una corazzata tedesca, in visita a Danzica, iniziava a cannoneggiare le postazioni polacche. La città rimase in mano tedesca fino al 30 marzo 1945. Dopo la cessazione della resistenza tedesca, i soldati sovietici ebbero mano libera in città, Danzica fu saccheggiata e messa a ferro e fuoco. Dopo il 1948 Stalin fece in modo che il governo polacco chiudesse i confini per coloro che volevano riunirsi alle loro famiglie in Germania. Nell’intero processo, la maggior parte degli ex-cittadini tedeschi di Danzica emigrarono nella Repubblica Federale Tedesca. In tal modo la popolazione tedesca divenne ben presto una minoranza all’interno della città. Nuovi residenti polacchi si insediarono a Danzica provenienti da altre parti della Polonia e dalle zone di lingua polacca, che vennero annesse all’Unione Sovietica. Se il tedesco prima di allora era la lingua principale nella città, quella ritratta ad esempio, da Günter Grass, nativo di Danzica, nei romanzi Il tamburo di latta, Gatto e topo e Anni di cani, in seguito la maggioranza degli abitanti divenne di lingua  polacca.