
Traendo ispirazione dal cinema d’autore in voga in altri Paesi, una nuova generazione di registi emerge negli anni sessanta del secolo scorso.
Politicamente impegnati, anticonformisti e animati dall’intento di voler raccontare la vita vera, il disagio tra gli immigrati e gli emarginati, entrano, con le loro cineprese 16mm, nelle scuole e nelle fabbriche e successivamente fanno i conti con la Storia. Attenti ad una Svizzera “reale” e non a quella mitica, idealizzata, espressione di un nazionalismo che aveva del paese una concezione di realtà a parte, di un caso unico rispetto al resto dell’Europa – come precisa lo studioso Martin Schaub nel suo volume, L’usage de la liberté -, in primo luogo tutti i registi erano attenti a descrivere fenomeni che riguardavano un paese uguale a tutti gli altri. La svolta arriva nel 1964, con la serie di cortometraggi La Suisse s’interroge di Brandt e col documentario Les Apprentis di Tanner, entrambi presentati all’Esposizione Nazionale Svizzera (1), a Losanna nel 1964, la prima del dopoguerra. Composto da cinque cortometraggi – La Suisse est belle, Problèmes, La course au bonheur, Croissance,Ton pays est dans le monde -, La Suisse s’interroge è firmato da Henry Brandt, avvicinatosi da autodidatta alla fotografia e al cinema nel 1953, dove esordisce con Les nomades de soleil con cui vince a Locarno come miglior film etnografico nel 1955. La pellicola propone una visione critica della Svizzera, dove tra paesaggi da favola si nascondono problemi come l’immigrazione e la xenofobia.

Les Apprentis di Alain Tanner è un documentario sui lavoratori apprendisti nelle fabbriche, che si ispira al cinema vérité, sarà presentato successivamente al Festival di Locarno e poi alle Giornate di Soletta, ottenendo un riscontro positivo dalla stampa. Si tratta della cronaca di vita di alcuni adolescenti che seguono uno stage professionale, undici tra ragazze e ragazzi, che provengono dalla Svizzera romanda, chi dalla città, chi dalla campagna, e, filmati, si raccontano nella loro quotidianità. Parallelamente, anche sul versante tedesco, si stava muovendo qualcosa. Il vero “tuono che risvegliò brutalmente il cinema svizzero tedesco assopito dopo la fine della guerra” come scrive il fondatore della Cinémathèque Suisse e storico del cinema, Freddy Buache, fu il documentario, Siamo italiani (1964), realizzato da Alexander J. Seiler, che per la prima volta portava sul grande schermo la figura dello straniero. Come è stato osservato: “Per la prima volta il cinema svizzero rompeva con i clichés dell’Heimatfilm, mostrando la dura realtà dei lavoratori italiani nel nostro paese, proprio quando il vento della xenofobia soffiava minaccioso, e presentandoli in quanto esseri umani, quando invece erano considerati semplicemente come ‘manodopera’ e trattati al pari di un branco di animali. Come dirà Max Frisch nella prefazione al libro di Seiler che uscì dopo il film, ‘si sono volute delle braccia, ma sono venuti degli uomini’. Dopo questo film, il cinema svizzero non sarà più lo stesso. Nel decennio successivo si consoliderà la tendenza a puntare la macchina da presa sulla realtà del paese, indagandone le zone d’ombra e portando alla luce il malessere che covava sotto l’immagine perbenista che si voleva dare della nazione. cioè quello che sarà chiamato il ‘Nuovo cinema svizzero’.” (2)

È a Soletta (Soluthurn in tedesco, Soleure in francese), nel corso di un incontro inedito tra cinefili, che darà il via alle prestigiose “Giornate cinematografiche”, (si tratta della manifestazione festivaliera più importante della Svizzera), dove viene sancita ufficialmente la fine del cinema tradizionale e la nascita del Nuovo Cinema Svizzero, un cinema d’autore, poetico e irriverente. Fino agli anni ottanta, i film di Alain Tanner, Claude Goretta, Michel Soutter, Richard Dindo, Daniel Schmid, Freddy Murer faranno difatti parlare di sé in Europa e oltreoceano, segnando un’epoca d’oro, un “piccolo miracolo svizzero”, come è stato definito dalla stampa internazionale. Il primo titolo a varcare il confine elvetico è Charles mort ou vif (1969), esordio nel lungometraggio dello svizzero romando Alain Tanner e del direttore della fotografia ticinese Renato Berta. Vero e proprio manifesto, influenzato dal movimento sessantottino francese, il film racconta la storia di un anziano imprenditore che decide di lasciarsi alle spalle il suo stile di vita. Soletta e le “Giornate”, anche per tutto il decennio successivo a quello della nascita del festival, hanno rappresentato un luogo di scambio – grazie anche alla sua posizione geografica- dove i registi romandi e quelli tedeschi, potevano ritrovarsi, e dove il terreno di incontro avveniva soprattutto attraverso le immagini, vero trait d’union di tutti e dove poi anche i registi ticinesi hanno trovato un loro spazio. Fin dai primi tempi, nella Svizzera francese è la finzione ad imporsi, grazie al ruolo pionieristico della televisione pubblica che produce i primi lavori del Groupe 5. Giovani autori tra cui, per l’appunto, Claude Goretta.
Il GROUPE 5
Agli inizi dei sessanta, cinque registi che lavoravano alla Télévision Suisse Romande,alla TSR, decidono di fondare un gruppo, per poter girare i loro lungometraggi di finzione. Creato nel 1968, il Gruppo era composto da Alain Tanner, Claude Goretta, Michel Soutter, Jean-Jacques Lagrande (sostituito in seguito da Yves Yersin), e Jean-Louis Roy, costituitosi per produrre film indipendenti con un accordo di co-produzione con la TSR, accordo che prevedeva la programmazione nelle sale cinematografiche, prima del passaggio televisivo. Opere emblematiche di un’epoca, originali e impegnate, espressioni di un cinema artigianale, girato in 16mm, dove recitano attori come Jean-Luc Bideau, Bulle Ogier, Serge Gainsbourg, Marie Dubois, Jacques Dufilho, Miou-Miou. Pellicole come Le fou, L’invitation, La merlettaia di Claude Goretta, come La Salamandre di Alain Tanner o L’inconnu de Shandigor di Roy.

Registi che avanzano nella carriera cinematografica e parallelamente in quella televisiva, nel tempo libero. L’esperienza professionale, formatasi nell’ambito televisivo arricchisce quella cinematografica e viceversa. Ad esempio, Goretta realizza Le fou, il suo primo lungometraggio per il cinema, in tre settimane, durante le sue vacanze, nel 1969. In seguito, un accordo di co-produzione con la Germania e Francia ha permesso la realizzazione di opere più ambiziose, poco alla volta il 16mm sarà abbandonato per privilegiare invece il 35mm.
Note:
- L’Expo 64 declinava le esigenze della moderna società del consumi e trasporti, con la riflessione sui valori della società elvetica sotto il motto, “croire et créer”.
- Michele Dell’Ambrogio, Alexander J. Seiler pioniere del nuovo cinema svizzero, “La Regione Ticino”, marzo 2014.