BERTRAND TAVERNIER. LA LIBERTA’ DELLO SGUARDO PER UN CINEMA GIUSTO di Luisa Ceretto

Quand j’avais vingt ans, j’ignorais si je parviendrais à devenir réalisateur mais aimer le cinéma et m’y dévouer corps et âme, je savais que c’était en moi. La cinéphilie m’a permis de trouver ma place dans l’existence.(*) Bertrand Tavernier

Figlio del poeta e scrittore René Tavernier, nasce nel ’41 a Lione, nel ’47 con la famiglia si trasferisce a Parigi, e cresce in un ambiente culturalmente vivace. Definito maestro ma anche l’illuminista del cinema francese, Bertrand Tavernier è un regista colto, che preferisce il cinema americano alla Nouvelle Vague. Animato da una grande curiosità e passione cinefila che lo conducono ad amare e a studiare il cinema americano, in particolare il noir e il western, all’inizio degli anni sessanta fonda il Nickelodéon, un cineclub nel Quartiere Latino, che promuove film di serie B, e allo stesso tempo, riscopre figure dimenticate come l’inglese Michael Powell, considerato uno dei suoi modelli di riferimento per quello sguardo aperto sul mondo. La classicità di molte delle sue opere si rivela in quella particolare qualità che accomuna titoli di registi spesso lontani tra loro, e consiste nella capacità di sfuggire ai gusti legati ad un determinato momento e di sapersi al contrario collocare in una dimensione che resiste alla prova del tempo.

Difficilmente classificabile, il cinema di Tavernier privilegia una regia dallo stile rigoroso, che si contraddistingue per l’accuratezza formale, per l’eccellente direzione degli attori, alternando attente ricostruzioni di epoche lontane ad una scrittura più intimista. Un cinema d’impostazione classica che nel rispetto del cinema di qualità francese degli anni quaranta e cinquanta, che vede tra le figure più importanti Jean Delannoy, Jean Grémillon, Claude Autant-Lara, i rappresentanti di quel “cinéma de papa” osteggiato dagli autori della Nouvelle Vague, è tuttavia pieno di dissonanze, di tracce di contemporaneità. Dopo aver abbandonato i suoi studi di giurisprudenza, Tavernier lavora dapprima come addetto stampa, successivamente come critico cinematografico collaborando, tra le altre, a riviste come “Positif” e i “Cahiers du Cinéma”. Autore di saggi su Naruse, John Ford, William Wellman, e di un importante volume, Trente ans de cinéma américain (con un aggiornamento successivo dal titolo 50 ans de Cinéma Américain), estimatore della commedia all’italiana e di registi come Vittorio Cottafavi, dopo aver diretto alcuni cortometraggi, nel 1973, a trentadue anni, firma il suo esordio nel lungometraggio L’orologiaio di Saint-Paul, tratto dall’omonimo romanzo di Simenon, per cui si avvale della collaborazione degli sceneggiatori Jean Aurenche e Pierre Bost. Ritratto di una Francia di provincia dove la vita tranquilla di un orologiaio viene messa a soqquadro dalla notizia dell’arresto del figlio, con l’accusa di terrorismo, il film ottiene l’Orso d’argento al Festival di Berlino e dà inizio alla proficua e duratura collaborazione con Philippe Noiret, che ritorna nei due successivi, Che la festa cominci (1975) e  Il giudice e l’assassino (1976), ambientati rispettivamente, ai tempi della Reggenza francese (1715-1723), quando la Francia è guidata dal duca d’Orléans in attesa del raggiungimento della maggiore età del futuro sovrano Luigi XV, e alla fine del diciannovesimo secolo, una riflessione sul sistema giudiziario di quel tempo.

Philippe Noiret e Bertrand Tavernier

Un interesse verso la Storia conduce il regista a scalfire il “versante antiquariato e museale” del genere, preoccupandosi di “togliere la vernice dalla storia ufficiale”, per ritrovare ciò che più lo appassiona, ovvero il rapporto con la quotidianità degli oggetti, ponendosi, come egli stesso ha definito, in modo irrispettoso. Un procedimento che si riflette in riletture personali di pagine della Storia, come quella del Senegal degli anni trenta, in Colpo di Spugna (1981), o del Medioevo in Quarto Comandamento (1987), film riconosciuto dallo studioso Jacques Le Goff come una tra le pellicole più rappresentative di quel periodo storico. O ancora, a raccontare la Prima Guerra Mondiale in Capitan Conan (1996) e soprattutto ne La vita e niente altro (1986), dove mette a punto una struttura narrativa erratica e multipla, una scelta registica tesa a rafforzare anche visivamente la sensazione di smarrimento dei suoi protagonisti. E successivamente la guerra d’Algeria, nel documentario La guerre sans nom (1992) o ad affrontare la Seconda Guerra Mondiale in Laissez- passer (2002). Fuori dalle mode, un cinema che rivisita generi differenti per intrecciarli in sapienti costruzioni, come l’omaggio al cappa e spada di Eloise la figlia di d’Artagnan (1994).

Eloise, la figlia di D’Artagnan (1994)

L’eclettismo che lo contraddistingue, conduce Tavernier a sperimentare una scrittura a “porte chiuse” come in Des enfants gatés (1977), dove si delinea una vicenda amorosa tra inquilini di un condominio di periferia, o la storia di un insegnante alla ricerca di sé in Une semaine de vacances (1980), o a tratteggiare il riavvicinamento di una figlia al proprio genitore in Daddy nostalgie (1990), o ancora, con l’avveniristico La morte in diretta (1980), dedicato al regista francese Jacques Tourneur, a comporre un’amara e acuta riflessione sul potere dei media. Autore nel 1984 di un interessante reportage sulla musica blues, Mississippi blues, co-diretto da Robert Parrish, due anni più tardi dirige Round Midnight – A mezzanotte circa, una pellicola incentrata sul rapporto tra un giovane disegnatore e un sassofonista talentuoso ma alla deriva, sullo sfondo di una Parigi anni cinquanta. Un film che, come dichiarò Dizzie Gillespie, dell’universo del jazz è riuscito a cogliere il respiro, i problemi esistenziali dei suoi protagonisti. Una pellicola la cui struttura narrativa, come ebbe a dire Michael Powell, consente di comprendere il ritmo di quella musica. Negli anni novanta Tavernier sa reinventarsi un proprio linguaggio, attraverso tracce di realtà che entrano nel suo cinema, innervandolo di una luce diversa, di urgenza, con attenzione al disagio e a coglierne i palpiti.

Round Midnight – A Mezzanotte circa (1986)

Nel 1992 dirige L. 627 che ha per protagonista la squadra antidroga parigina, ripresa nella sua quotidianità in un felice esempio di docu-fiction, nel 1995 L’esca, che ottiene l’Orso d’oro al Festival di Berlino, attenta analisi della generazione giovanile che pare aver smarrito ogni valore, e nel 1999 Ricomincia da oggi, in cui il direttore di una scuola materna si trova a mettersi in gioco in prima persona per far fronte alle difficoltà di una società afflitta dalla disoccupazione. Con la figlia Tiffany scrive Holy Lola (2004) sull’universo dell’adozione in Cambogia, e successivamente, sulla Louisiana devastata dall’uragano Katrina, si cimenta in un adattamento del noir di James Lee Burke, L’occhio del ciclone – In the Electric Mist (2009). Con La princesse de Montpensier (2010) tratteggia una Francia del sedicesimo secolo tra intrighi amorosi e di potere. Quai d’Orsay (2013) è un raffinato pamphlet politico, tratto dall’omonima graphic novel di Christophe Blain e Abel Lanzac, in cui affida a Thierry Lhermitte il ruolo di un Ministro degli Affari Esteri fortemente ispirato a Dominque de Villepin.

La princesse de Montpensier (2010)

Nel 2015 la Mostra Internazionale del Cinema di Venezia gli riconosce il Leone d’oro alla carriera. Successivamente realizza il documentario Voyage à travers le cinéma français (2016), da cui sarà tratta l’omonima serie televisiva. È del 2019 la riedizione arricchita del volume Amis Américains: entretien avec les grands auteurs de Hollywood, opera monumentale sul cinema statunitense di Tavernier, che riproponeva interviste coi vari registi per conto delle differenti riviste per cui ha lavorato, un diario di bordo come critico e come ufficio stampa. Scambi con i maestri di Hollywood, come, ad esempio, John Ford nel corso del suo viaggio, l’ultimo, a Parigi, o John Huston, Jacques Tourneur, Elia Kazan, Robert Altman, ma anche registi contemporanei come Joe Dante o Alexander Payne. Pubblicazione uscita per la prima volta nel 1993, che aveva ottenuto il premio per il miglior libro sul cinema, arricchita con nuovi contributi nel 2008.  Fortemente antidogmatico, il percorso di Bertrand Tavernier è quello di un cineasta che ha saputo creare i propri stilemi a partire da una profonda libertà narrativa e dalla volontà di rompere qualsiasi imposizione stilistica e tematica. Un cinema che è frutto di una particolare attenzione verso determinati mondi, epoche e verso i propri personaggi, di cui adotta spesso il punto di vista, cinema che pur attento al box office ha saputo creare un’alternativa ai condizionamenti del modello statunitense, riuscendo a conservare una propria specificità e autonomia estetica.

Cerimonia di commemorazione al Festival Lumière di Lione (2021)

Lionese, seppure parigino di adozione, non ha mai dimenticato la sua amata città natale, in cui faceva spesso ritorno. A Lione, infatti, ha presieduto, sin dalla sua creazione, nel 1982,  il prestigioso Institut Lumière (che ospita il Museo di Louis e Auguste Lumière nella celebre rue du Premier Film) diretto da Thierry Frémaux, dove ogni anno, dal 2009,  in ottobre, si svolge una grande Festa del cinema, le Festival Lumière. Scomparso lo scorso marzo, all’età di settantanove anni, è Irène Jacob a succedergli nella presidenza della prestigiosa istituzione. Il Festival ha inaugurato l’edizione di quest’anno con una cerimonia concepita come una sorta di messa laica in ricordo di Tavernier, alla presenza delle sue attrici e dei suoi attori, Marie Gillain, François Cluzet, Mélanie Thierry, Lambert Wilson, Nicole Garcia, Jacques Gamblin, Marina Vlady, Raphaël Personnaz, Charlotte Kady, Samuel le Bihan, Gérard Jugnot et Grégoire Leprince-Ringuet, e di tutti gli ospiti presenti alla manifestazione e degli spettatori lionesi.

François Cluzet alla cerimonia di commemorazione di Bertrand Tavernier al Festival Lumière (2021)

Abbiamo avuto la fortuna di incontrare Bertrand Tavernier a Bologna in più occasioni. Nei primi anni del duemila, nel corso di edizioni del Cinema Ritrovato della Cineteca, di cui era un abitué, dove poteva confrontarsi con altri cinéphils come lui, critici, storici del cinema di tutto il mondo. L’ultimo incontro è avvenuto nel 2015, in occasione della presentazione di Quai d’Orsay (2013) che aveva ottenuto importanti riconoscimenti, con una filmografia nel frattempo arricchitasi di nuovi titoli. Ricordiamo l’affabilità e la disponibilità nel rispondere alle domande del pubblico. Nel corso di conversazioni tenutesi nel caffè dell’albergo dove era solito recarsi quando giungeva a Bologna, emergeva in tutta evidenza la sua straordinaria conoscenza del cinema, la sua competenza e raffinatezza di regista. Del resto, la sua curiosità e capacità nel mettersi in gioco con l’avvento del digitale, non gli impediva di coglierne i limiti, così come non mancava di rilevare con acutezza la minore capacità critica nelle nuove generazioni rispetto a quelle precedenti, con il rischio di una crescente omologazione nei gusti e soprattutto di rivolgere la massima attenzione all’aspetto tecnico a scapito dell’intelligenza, della soggettività delle scelte.

(*) Quando avevo vent’anni non sapevo se sarei riuscito a diventare regista, ma sapevo che amare il cinema e dedicarmi ad esso anima e corpo faceva parte di me. La cinefilia mi ha permesso di trovare il mio posto nell’esistenza.

Bertrand Tavernier con Gian Luca Farinelli – direttore della Cineteca di Bologna

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