di Luisa Ceretto
La sua carriera ha avuto inizio a soli quattro anni in qualità di attore. Come è nato successivamente il suo interesse per la fotografia?
Mio padre e mia madre lavoravano nel teatro, io ero con loro tutto il tempo, li seguivo anche nei loro viaggi. Ho frequentato almeno duecento scuole differenti, in realtà, andavo piuttosto male. Ero un ragazzino, per me era molto interessante, mi sembrava di essere nato a teatro, i suoi odori ed i suoi costumi li sentivo nel sangue. Quando ho iniziato a lavorare nel mondo del cinema non ho fatto fatica ad entrarvi e ad abituarmi ad esso. Fu interessante recitare in un film da piccolo. Purtroppo, però, superata una certa età, non potevo più recitare la parte del bambino. All’età di quattordici anni ero ormai troppo grande per quei ruoli e ancora piccolo per ruoli adulti. Lavoravo negli Studios come “ragazzo tuttofare”, poi ho capito che il settore dei cameraman era piuttosto interessante, permetteva di andare in vari luoghi, a Parigi, in Italia, ad esempio. Ecco perché mi innamorai della fotografia.
Audrey Hepburn in Guerra e pace di King Vidor
Tra le prime esperienze ha lavorato anche con René Clair…
Sì, per Il fantasma galante, è stato interessante.
Nel 1936 ha iniziato a lavorare col Technicolor…
Ho lavorato come assistente operatore in bianco e nero. Volevo imparare meglio e per due o tre anni ho avuto l’opportunità di fare pratica con alcuni tra i migliori cameraman di Hollywood. Un giorno, tornando a casa, mia madre mi disse di aver ricevuto una telefonata, per cui dovevo ritornare agli Studios, da dove me ne ero appena andato. Siccome era lontano da casa, chiesi le ragioni di tale richiesta e mia madre rispose che c’era una nuova “cosa”, chiamata Technicolor. Era necessario che qualcuno andasse in America per apprenderne l’uso, stavano appunto selezionando persone. Quando arrivai scorsi dei miei colleghi. Alcuni di loro, appena fuori dall’ufficio, dopo il colloquio, uscivano in uno stato terribile, erano delusi, le domande erano troppo tecniche. Quando venne il mio turno, entrai e iniziarono a farmi domande sul tipo di luce, su formule matematiche, io dissi subito che non ero la persona che stavano cercando, che ero un idiota in quella materia. Ci fu silenzio e mi venne chiesto come avrei pensato di procedere. Dissi di essere pazzo per la pittura, di amarla. Mi fu chiesto da che parte veniva la luce nei dipinti di Rembrandt e risposi, forse un po’ bleffando, da quella parte, indicando una direzione. Continuai dicendo che mi piaceva Caravaggio, e altri ancora, ma la commissione mi ringraziò ed io lasciai la stanza. Il mattino dopo seppi di essere stato scelto. Tuttavia non andai in America, perché fu deciso di costruire un laboratorio in Inghilterra.
Il passaggio dal bianco e nero al colore costituisce un momento importante nella storia del cinema, sia da un punto di vista teorico, che pratico. I detrattori rimproveravano all’uso del colore la scarsa artisticità. Sin dai suoi primi lavori come direttore della fotografia, lei, invece, ne ha sottolineato le potenzialità artistiche ed espressive…
Il sistema del Technicolor non era completamente artistico perché era una formula scientifica, il negativo doveva avere molta luce, non ci dovevano essere ombre scure, ai responsabili non piacevano perché erano naturali, non si potevano colorare e quindi non erano considerate artistiche. Rispetto a loro, io ero l’enfant terrible, facevo assolutamente au contraire di quelli che erano i dettami da seguire, mi piaceva cercare nuove vie, provare. Il fatto di non lavorare inizialmente su grandi produzioni fu positivo per me, feci anche qualche pubblicità, feci pratica in piccole produzioni, il che mi permise di sperimentare il Technicolor.
Lei ha lavorato anche per alcuni documentari…
Quando ci fu la guerra, anche il Technicolor venne messo al servizio della causa. Stavamo aiutando il Governo. Ebbi la fortuna di fare alcuni documentari, tra cui Western Approaches. Seguiva le vicende di un gruppo di persone che vivevano su di una barca. Non avevamo attori e le scene erano reali, girammo per otto settimane e girare fu molto difficile. Non mancarono momenti di grande pericolo, filmammo tutto. Fu commissionato dal Ministero dell’Informazione Britannica, ed ebbe molto successo.

Laurence Olivier e Marylin Monroe, Il principe e la ballerina di L.Olivier
Lei ha collaborato con autori tra loro molto diversi, Hitchcock, Mankiewicz. Cosa ci può dire del loro modo di lavorare, con chi si è trovato in maggiore sintonia?
Quando ero giovane, circa sedicenne, lavorai per un film di Hitchcock, ero il ragazzo che portava il tè. La seconda volta che ho lavorato per lui come direttore della fotografia è stato, invece, per Il peccato di Lady Considine. Hitchcock è stato, tra tutti, il regista più coscienzioso nel seguire con precisione e fedeltà la storia. La sua creatività era nella sceneggiatura. Ciascuna pagina prevedeva un tempo ben definito e conteneva i tagli, le riprese. Era tutto nella sua testa e poi nella pagina scritta. Penso che durante le riprese si annoiasse, a quel punto il film era già un fatto compiuto. John Huston, invece, era molto adattabile, se trovava un’idea che lo interessasse, era disposto ad inserirla all’interno della storia. C’era poi chi teneva ogni mattina, come King Vidor, una sorta di conferenza che alla fine diventava molto noiosa. La carriera di Mankiewicz ebbe inizio come sceneggiatore, forse uno dei migliori al mondo. Volle diventare regista perché non amava che gli attori o chiunque altro cambiassero qualcosa nella sceneggiatura, nei dialoghi, nelle scene. Mi è rimasta impressa un’osservazione molto acuta: “Jack”, mi disse, “qualsiasi cosa tu scriva sulla sceneggiatura, un paragrafo, una frase, devi sempre chiedertene il motivo. E se non riesci a farlo, è meglio gettare via, anche si trattasse di una bella pagina. Devi essere sempre in grado di giustificare la scelta di un determinato personaggio, così come di qualsiasi altro elemento”. Fu una lezione importante. Credo che il regista più interessante con cui abbia mai lavorato sia comunque Michael Powell. Era sempre entusiasta di tutto ed era una persona capace di prendere decisioni coraggiose. Chiunque di noi avanzasse proposte, non era di quelli che tentennavano, la sua prima reazione era, “sì, mi piace, lo facciamo”, amava le sfide. A questo proposito ricordo per Scala al Paradiso di avergli chiesto perché non faceva il paradiso a colori. Mi rispose che tutti lo avrebbero pensato così e pertanto lo avrebbe fatto al contrario! Era importante fare qualcosa che fosse diverso, era un uomo estremamente intellingente.
Scala al Paradiso è stato il suo primo lavoro come direttore della fotografia con Powell e Pressburger. Fu sicuramente un film molto difficile…
È stato un modo molto eccitante di lavorare alla fotografia del film, abbiamo usato molti trucchi ed effetti speciali. Ovviamente a quell’epoca non c’era un gran dipartimento degli effetti speciali. Per me si trattava di una sfida, segreta, nel senso che una buona parte del film era in bianco e nero e io non avevo alcuna esperienza in quell’ambito. Girammo le sequenze in bianco e nero con una macchina da presa in bianco e nero, mentre l’ultima panoramica è stata girata con una macchina in Technicolor, in modo da poter cambiare dal colore al bianco e nero e viceversa. Non dimentichiamoci che tutto ciò è avvenuto cinquant’anni fa e che non era come in televisione, dove basta girare i pulsanti per passare dal bianco e nero al colore. Sia per Scala al Paradiso che per i successivi Narciso Nero e Scarpette Rosse, ho dovuto usare luci particolari perché il Technicolor aveva bisogno di moltissima illuminazione. Suggerii diverse soluzioni. Ad esempio, nella scena in cui si vede David Niven saltare dall’aeroplano nella nebbia a cui poi segue la lunga sequenza nella spiaggia, il protagonista crede di essere arrivato in paradiso. L’idea era di fare un fade-in, passando dal nero all’immagine. Ma Powell voleva trovare qualcos’altro, perché il fade-in dal nero al colore, gli sembrava un cliché. Ad un certo punto, ebbi un’idea e gli dissi di guardare dentro l’obiettivo. Mentre guardava attraverso l’oculare, io ho girato dall’altra parte l’obiettivo e vi ho respirato sopra, ottenendo come risultato l’effetto nebbia. In quattro secondi si era creato un effetto speciale magnifico. Per citare altre soluzioni, potrei parlare della sequenza in cui Frank e June giocano a ping pong. C’è il sole, forse nessuno se n’è accorto però la luce che ho utilizzato è colore ambra, la luce del sole naturale. Dato che si trattava di un momento magico, ho suggerito di usare il filtro colore giallo limone e dare così un’idea più irreale.

Moira Shearer, Scarpette rosse
Con Narciso Nero ottiene l’Oscar per la migliore fotografia. Come fu girato?
Abbiamo avuto molte sorprese con questo film. Inizialmente pensavamo di dover andare in India, dato che la storia si svolge lì. Ma Powell cambiò idea, il film sarebbe stato girato interamente in Inghilterra. Il che significava avere sfondi dipinti, che sono ottimi, certo non quanto le riprese dal vivo. Ho suggerito di usare sfondi fotografici, ma gli ingrandimenti a colori di queste pareti sarebbero stati troppo costosi, non potevamo permettercelo. In bianco e nero, però, erano più economici e quindi li abbiamo preparati. L’art director propose di dipingerli. Io avevo paura che avrebbe rovinato il realismo delle immagini, perciò proposi di utilizzare dei colori pastello, come i gessetti. Un po’ di ambra, l’azzurro per il cielo. Il risultato fu molto bello. Per l’operatore fu un’occasione dal punto di vista lavorativo, perché aveva a che fare con un film la cui storia poggiava sul fatto che quel luogo fosse troppo bello ed eccessivamente coinvolgente. E poi c’era anche un elemento fondante riscontrabile in tutta la pellicola, ovvero il bianco avena dell’abito delle suore. Dato che il film si doveva svolgere sulla cima delle montagne, avevamo deciso di usare sempre il vento che soffiava e muoveva gli abiti delle suore. Powell ha fatto un lavoro eccezionale per questo film. Narciso Nero non fu un successo di critica straordinario, né in Inghilterra, tantomeno negli States. Ho l’impressione che sia cresciuto nel tempo. Sono molto fiero ed orgoglioso di aver ricevuto l’Oscar per questo film. Per questo film ho imparato, a mie spese, che certe volte il consiglio migliore è quello di fare attenzione a darne!
Per quale motivo?
Beh, capita che le riprese non vengano fatte in successione come poi appaiono nel montaggio. Una settimana prima del termine delle riprese, girammo l’ultima sequenza di Narciso Nero. Era molto importante, perché nella storia di questo gruppo di suone andate sull’Himalaya per costruire un convento, e poi tornate indietro a Calcutta, la suora responsabile del progetto, interpretata da Deborah Kerr, doveva spiegare alla madre superiora le ragioni del loro fallimento. Deborah Kerr, con grande dignità e in maniera razionale, tenta quindi di spiegare cosa sia andato storto in quella missione, cogliendo, però, ad un certo punto, nella sua interlocutrice un po’ di compassione, come se fosse davanti alla propria madre. A quel punto perde il controllo e racconta esattamente ciò che è successo, che lei pensava continuamente al fidanzato che aveva lasciato per entrare in convento, che la suora preposta alla cura dell’orto piantava soltanto fiori e così via.

Narciso Nero di M.Powell e E. Pressburger (1946)
Era una scena meravigliosa, che si concludeva con la madre superiora che consolava Deborah Kerr, assicurandola che quell’esperienza l’aveva sicuramente migliorata rendendola più comprensiva. Per me era la scena con la migliore fotografia che avessi fatto nel film. Era molto drammatica, c’era il monsone, pioveva ininterrottamente e dalla finestra, l’ombra della pioggia si rifletteva sui volti delle suore. Successivamente abbiamo fatto le riprese della penultima scena, dove le suore si allontanano, all’improvviso comincia a piovere. Avevamo quattro auto da vigili del fuoco per fare l’effetto pioggia. Mi era sembrato ci fosse uno stacco troppo netto tra le due scene. Si doveva presentare l’inizio delle stagioni dei monsoni in India, ma così l’effetto era troppo improvviso. Pensai di suggerire a Michael Powell di girare una scena a distanza sul lago, riprendendo le suore mentre si allontanano sopra gli asini. C’erano piante di rabarbaro con foglie molto grandi, pensai che si sarebbe potuto dar l’idea dell’inizio delle piogge soltanto con due o tre gocce d’acqua che cadono sulle foglie. Io stesso mi misi su una scala sopra le foglie per provare l’effetto. A Michael piacque la proposta. Alla scena, seguiva una panoramica, e poi sarebbe arrivata l’acqua, e quindi si poteva inserire quella seconda sequenza finale di cui ero tanto fiero. Il regista vide i giornalieri, con le gocce di pioggia sulla foglia, gli piacque e propose di chiudere su quella scena il film, tutte le altre non furono più usate!
E di Scarpette Rosse cosa ci può dire?
Dei tre film fatti con Powell e Pressburger, Scarpette Rosse fu quello più eccitante. Subito dopo averlo montato, il film era stato mostrato a Rank, il produttore, ed ai suoi collaboratori. Di solito, al termine della proiezione diceva sempre qualcosa. Invece in quell’occasione, il produttore si alzò e se ne andò senza dire una parola e neppure guardare Powell. Pensammo che il film fosse un disastro, non ci permisero neanche una prima. I critici, confusi, decisero di criticare il film, dato che non riuscivano a capire di cosa si trattasse. Ci fu, però, una famiglia americana, composta da padre, madre e due figli, che aveva una piccola sala a New York, “Bijou”. Adoravano Scarpette Rosse e chiesero a Rank di dar loro in prestito la copia del film per un paio d’anni. Naturalmente accettò, senza alcun problema. In due anni ebbe un successo incredibile, entrò in un grosso circuito distributivo americano e le entrate del botteghino furono enormi. Uno dei proprietari di queste catene di sale cinematografiche telefonò, un giorno, persino a Rank per congratularsi con lui di aver prodotto il film. La critica disse che forse Scarpette Rosse avrebbe vinto nuovamente l’Oscar per la fotografia, invece la telefonata di un fotografo americano mi informò che in un incontro era stato deciso che, dal momento che ero inglese, non era possibile farmi vincere due anni di seguito. Così, il film non ebbe neppure la nomination all’Oscar.

La regina d’Africa di John Huston (1951)
Lei è passato dai set ricostruiti in Inghilterra, a scenari africani come nel film di Huston, La Regina d’Africa…
Fu molto difficile, abbiamo dovuto andare in Africa nel Congo-Belga, dove passammo circa due mesi. Stavamo male, eravamo in condizioni terribili, ma andammo avanti lo stesso. Le location erano splendide, erano vicino al Lago Vittoria, una zona inglese, noi vivevamo su una grande imbarcazione. Diarrea, febbre, ogni giorno le nostre condizioni di salute peggioravano. Le uniche due persone che non ebbero nulla, neppure l’influenza, furono John Huston e Humphrey Bogart. Katharine Hepburn era ammalta ogni giorno, alcuni dovettero tornare a casa. Nessuno di noi ruscì a capire cosa fosse. Soltanto a pochi giorni dalla fine delle riprese, un dottore scoprì le cause del malessere. Sulla barca si filtrava l’acqua del lago. Ma il filtro era andato via, quindi c’erano tutti i microbi immaginabili… La ragione per cui Huston e Bogart non si erano ammalati era che, nel corso di quel soggiorno, non avevano mai bevuto acqua, ma solo whisky. È stato bello lavorare con Huston. Bogart, poi, era splendido.
Sul finire degli anni Cinquanta alla direzione della fotografia alterna la regia. Come è stata accolta dalla critica questa sua seconda attività?
Il primo film che feci non era brutto, ma molto economico, un lavoro di serie B. I critici si chiesero perché Cardiff, geniale direttore della fotografia, volesse diventare regista mediocre. Uno di loro mi suggerì di tornare sui miei passi, ovvero alla fotografia, appena possibile. Ma dopo il primo, ne feci un altro, Beyond this Place (1959), e dopo girai Figli e amanti. Il critico che mi aveva consigliato di tornare al primo mestiere, vedendo quest’ultimo lavoro scrisse sul “Daily Express” che era davvero splendido. Figli e amanti ebbe una nomination all’Oscar, ed un Golden Globe. Successivamente feci ancora altri film, alcuni buoni, altri meno. Comunque continuai a lavorare anche nella direzione della fotografia.

La contessa scalza di Joseph L. Mankiewicz
Nei credits de Il magnifico irlandese (1964), girato in Irlanda, risulta il nome di John Ford come secondo regista…
Per me fu un’esperienza piuttosto triste perché lavorai duramente per quel film. Durava due ore e dieci minuti, ma le critiche dissero che c’era qualcosa di meraviglioso in esso, ovviamente il lavoro di John Ford. Il suo contributo però, era complessivamente di 4 minuti e 3 secondi. Su due ore non è molto…
Lei ha davvero attraversato il cinema britannico, che ha una storia curiosa, di grande tradizione, ma un po’ appartata, e soprattutto, contrassegnata da molti abbandoni. È il caso, ma non soltanto, di Hitchcock, andato a lavorare in America. Qual è la sua opinione a questo proposito?
Penso vada fatta una differenza tra registi inglesi ed americani, nel senso che nella maggior parte dei casi, gli autori americani arrivano, in realtà, dall’Europa. Forse originariamente avevano nomi ungheresi, polacchi, e diventando americani, hanno realizzato film meravigliosi. Gli autori inglesi sono sempre stati estremamente intelligenti, ma non così esuberanti nella loro regia quanto forse gli americani, eppure ci sono ottimi registi. Sfortunatamente l’Inghilterra rispetto all’America non investe abbastanza soldi. Molti dei film realizzati oggi sono finanziati in buona parte da produzioni oltreoceano. È triste constatare che in Inghilterra vi sia un così scarso incoraggiamento.
In una carriera che vanta un centinaio di film realizzati come “cinematographer”, ed un certo numero come regista, ci può dire quale sia la sua idea di cinema?
Credo che la maggior parte dei registi bravi abbia dei modelli a cui far riferimento, e che comunque sappia mettere sullo schermo le proprie emozioni. È importante raccontare una storia in cui far credere il pubblico. Il cinema è un medium incredibile, forse può riuscire addirittura a far cambiare l’idea della vita. È enorme il suo valore propagandistico. Certo, fare un film significa anche avere a che fare con gli aspetti commerciali, ed il regista non è l’unico a poter decidere, deve rapportarsi alle persone che mettono i soldi. Sempre più spesso, oggigiorno, quanto più i film sono costosi, tanto più sono violenti, come se ci fossero solo uccisioni, esplosioni impressionanti, bang bang. Ormai è raro trovare una bella storia, perché non incassa. Un vero peccato! Occasionalmente ci sono film che ottengono un successo enorme senza essere violenti, era accaduto ad esempio per Love Story.
Non è stato difficile alternare le due attività?
Amo fare entrambe le cose, regia e fotografia. Ricordo che quando stavo facendo la regia di Figli e amanti, mi chiamò da New York, Joshua Logan e mi chiese di lavorare per il suo Fanny (1960) a Parigi. La mia prima risposta fu che ero diventato regista, ma lui replicò dicendo che era necessario che io continuassi a fare entrambe le cose. Mi convinse ed in effetti quando lavorai sul suo film, mi sembrò di essere in vacanza. Un regista ha così tante preoccupazioni, problemi, gli attori, i dialoghi. Io dovevo, invece, occuparmi soltanto della fotografia, non avevo altre responsabilità. Infatti, quando lavoro come fotografo sui film mi rilasso e così posso aspettare la buona occasione per fare un bel film come regista.

Sul set di Narciso Nero
C’è un progetto che fino ad ora non ha potuto realizzare?
Ho avuto molte delusioni. Ricordo, ad esempio, che volevo fare un film dall’Ulisse di Joyce. Ci stavo lavorando già da due anni quando il produttore morì e cambiò il direttore degli Studios. Al nuovo dirigente il progetto non interessava, nel frattempo i miei soldi erano andati tutti a finire nell’acquisto dei diritti, e non riuscii più a coinvolgere un altro produttore ad investire sul film. Alla fine, qualcuno ricomprò i diritti e fece il film. Purtroppo può succedere. Tra breve inizierò a lavorare alla fotografia di un film la cui storia è realmente accaduta, è una sceneggiatura molto bella, su di un caso psichiatrico…
Bologna, 29 gennaio 2000
Pubblicata su “Carte di Cinema”, estate 2000, numero 5
LUISA CERETTO è critico cinematografico, lavora presso la Cineteca di Bologna. Ha curato monografie di registi, fra cui Hou Hsiao-hsien, Marco Bellocchio (Lindau), Patrice Leconte (Centro Studi Cinematografici), Salah Abu Seif (Magma – Cinemamed) e “Quaderni del Lumière” dedicati alla cinematografia iraniana, balcanica e in particolare ad autori come Emir Kusturica, Edward Yang, Youssef Chahine, Paolo Benvenuti. Redattrice e collaboratrice di riviste tra cui “Il ragazzo selvaggio”, “Cinecritica” e “Carte di Cinema”.