di Silvio Grasselli
Sergei Loznitsa è uno dei più autorevoli, rigorosi, prolifici registi nel panorama del cinema contemporaneo. Ha iniziato poco meno di venticinque anni fa da documentarista, introducendo fin da subito nei suoi cortometraggi gli elementi formali e i processi produttivi che ancora oggi, a quasi venticinque anni dall’inizio, fondano la sua pratica di regista, anche di film a soggetto. Prima del cinema, Loznitsa studia matematica e inizia a lavorare come ricercatore applicando le proprie conoscenze alla cibernetica e alla teoria del controllo. Il cinema lo studia presso la più autorevole scuola russa, la VGIK di Mosca, crocevia di cineasti, teorie, pratiche e idee dove s’incontrano e intrecciano le avanguardie russe, i maestri dell’era sovietica, i grandi autori dal disgelo in poi. Difficile e rischioso tracciare linee rette che colleghino elementi biografici a scelte artistiche, e tuttavia queste brevi note sembrano coerentemente rappresentare alcune delle scaturigini culturali e teoriche dalle quali il cinema di Sergei Loznitsa trae i suoi principali caratteri specifici, le sue forme nitide, le sue traiettorie logiche perfette, le sue strutture narrative dalla linearità quasi classica. Elementi governati da uno stile che vive dell’equilibrio tra due componenti: il rigore, il completo controllo di ogni elemento espressivo, la costruzione di una forma complessa prodotta da una riflessione che ne definisce e sorveglia ogni articolazione per quanto minuta; e lo spazio aperto all’aleatorietà, all’imponderabile, alla forza irrazionale che anima le membra inerti della Storia, all’ironia, all’emozione.

Blockade, 2004
Un secondo – apparente – paradosso che sembra connaturato al cinema di Loznitsa è la coesistenza e combinazione tra analogico e digitale, non solo sul piano meramente tecnologico. Il cinema che il regista ucraino conosce prima da spettatore e poi da apprendista, lo stesso che inizia a praticare nella seconda metà degli anni Novanta, è il cinema del processo analogico, della tecnica artigianale, della chimica, della pellicola. Di questo cinema sembra che parli sempre Loznitsa quando ragiona dei fondamenti del suo lavoro, quando esprime le idee che ne muovono le scelte; di questo cinema sono evidentemente impregnati i suoi film, nelle soluzioni estetiche, nelle forme del racconto, oltre la natura concreta delle apparecchiature tecniche, dei materiali, dei formati. Tuttavia è nella duttile capacità del digitale di entrare dentro le immagini e modificarne invisibilmente l’aspetto; nelle potenzialità offerte alla composizione di una colonna sonora minuziosamente intarsiata di suoni e rumori e voci montati in una trama che nasconde la sua natura arbitraria di accumulo di frammenti disparati ed eccentrici; nell’agilità di un montaggio non più costretto alla linearità ma libero di costruire secondo schemi tridimensionali; è in tutto questo che la “drammaturgia della forma cinematografica” di Sergei Loznista – “orchestrale”, stratificata, geometrica ed ellittica – trova il potenziale operativo in più grazie al quale poter tendere al suo naturale compimento. Ed è nella sovrapposizione di queste diverse linee, nel loro coerente intreccio e nel reciproco contemperarsi che si realizza l’equilibrio sul quale si regge l’edificio cinematografico progettato da Loznitsa.

The Trial, 2018
Sotto la superficie dei temi espliciti – la Storia del continente sovietico, l’analisi dei meccanismi della propaganda, la memoria come collegamento interrotto e impossibile tra il passato e il presente, soprattutto nei film documentari lo studio dell’uomo-folla attraverso alcuni specifici paradigmi come quello del rito sociale, al quale nel cinema a soggetto corrisponde il racconto dell’individuo-persona umiliato e schiacciato dal sistema Stato al quale appartiene — si muove il massiccio congegno delle dinamiche discrete. Al centro di questa macchina segreta sta il Tempo, funzione e dispositivo, forza motrice e materia sulla quale si concentra il lavoro del film. A sovrastare, governare e dirigere il concerto di queste molte parti, uno stile basato sui fondamentali del cinema di ogni epoca: la durata d’inquadrature lunghe, la modulazione laconica e cadenzata dei movimenti di macchina, il montaggio come articolazione cruciale del discorso e del racconto del film.

The State Funeral
Il Tempo non è solo uno dei perni centrali sui quali poggia l’impianto del cinema di Sergei Loznitsa, ma il principio dal quale discende l’origine concettuale della sua radice teorica. Il Tempo innerva i film di Loznitsa almeno su due diversi livelli. È prima di tutto l’energia, la forza che impone alla materia il taglio decisivo di una forma. Non solo nei film d’archivio, il montaggio è il procedimento attraverso il quale Loznitsa assume una prospettiva tecnicamente apocalittica, esterna al tempo, ulteriore; è la dimensione operativa che gli consente di manipolare il tempo restandone per così dire al di fuori, trovare la distanza per stilizzare la realtà e trasportarla sul terreno della metafora. È il luogo in cui poter pianificare e realizzare la struttura matematico-musicale del film intesa come ritmo, come cadenza e come movimento di tagli di tempo. È il tavolo di lavoro – reso tridimensionale dal montaggio digitale – dove disporre e combinare i materiali del film come in un teorema di sequenze dinamiche, cromatiche, ampliando la partitura a coinvolgere la sezione più letteralmente musicale, la colonna sonora, fino ad arrivare alla musica in senso stretto. È la postazione dello storico e del narratore oltre che del montatore (cosa che Loznitsa è effettivamente stato almeno per tutta la prima parte della sua carriera), ma anche del pittore cronista e del vignettista (il gusto pittorico che traversa l’intera filmografia di Loznitsa meriterebbe uno studio approfondito almeno tanto quanto il suo specifico senso ironico, non di rado coniugato con l’attrazione per il grottesco). Il Tempo è poi, per altro verso, il materiale di costruzione di dispositivi che costituiscono le cellule, le unità minime alla base della forma film. Al loro interno, la percezione immediata produce l’emozione la quale a sua volta conduce lo spettatore verso la comprensione. In una sorta di camera percettiva che diventa macchina del tempo, il presente nel quale lo spettatore si trova psicologicamente oltre che fisicamente immerso si combina e sovrappone con il passato del film sullo schermo, “rianimato” proprio attraverso una sua ristrutturazione sensoriale. È così che le strade di San Pietroburgo e le piazze di Mosca, i nazifascisti, i soldati russi, i manifestanti ucraini, i visitatori di un ex campo di sterminio trasformato in sito museale ci si presentano come in un’apparizione, un riflesso che illumina il presente mostrandocelo come ripetizione di quel passato che non finisce, che non smette, che si allunga fino a toccarci, coinvolgerci e interpellarci.
L’ultimo paradosso solo apparente del cinema di Sergei Loznitsa riguarda il complesso del suo lavoro, la sua filmografia assunta come insieme di parti. Un sistema reticolare non lineare all’interno del quale ogni film ricorre contemporaneamente come opera in sé conclusa, autonoma e autosufficiente, e come nodo coinvolto in una tela ipertestuale che tende i suoi fili lungo il sistema di riferimenti che si aprono all’interno delle trame semantiche dei singoli film lanciandosi verso altri film, precedenti e successivi. Una forma non gerarchica che costituisce così un testo di testi, un organo di pensiero percorribile in più direzioni e a più livelli.
(*) Il testo di Silvio Grasselli è stato pubblicato nel Catalogo 60° Festival dei Popoli (2-9 novembre 2019)
Silvio Grasselli (Roma, 1979) è critico cinematografico, curatore e docente. Professore a contratto presso l’Università di Teramo, è vicepresidente nazionale del Centro Studi Cinematografici, vicedirettore del DocSS – Festival Internazionale del Cinema Urbano di Sassari, curatore e docente per il Musil – Museo dell’Industria e del Lavoro di Brescia. Redattore delle riviste “Film” e “Il Ragazzo Selvaggio”, collabora con Alias – Il Manifesto e “Fabrique du Cinéma” sulle cui pagine cura la rubrica dedicata al nuovo documentario italiano. Selezionatore e curatore per il Festival dei Popoli ha curato tra l’altro la retrospettiva dedicata – in occasione della sessantesima edizione del festival – a Sergei Loznitsa.