Pubblichiamo un’intervista inedita ad Alain Robbe-Grillet, realizzata in occasione di un suo soggiorno a Bologna. L’avevamo conosciuto anni prima a Ferrara, durante giornate di studio promosse dall’università, nel 2005 era stato invitato nel capoluogo emiliano per iniziative in ambito letterario e cinematografico dedicate alla sua opera.
La sua formazione ha inizio come ingegnere agronomo per poi avvicinarsi alla letteratura e scardinarne alcuni fondamenti. Erano gli anni cinquanta, cosa ci può dire della Ecole du regard, termine apparso per la prima volta in un articolo di Emile Henriot su “Le Monde”? Come si collocava rispetto a quell’epoca, concorda con chi lo ha definito il fautore del Nouveau Roman?
Si tratta di un incontro nato per caso. Ad un certo momento, verso la metà degli anni cinquanta, decisi di raccogliere alcuni scrittori un po’ contro corrente, per questo rifiutati dall’editoria maggiore di allora, perché li considerava troppo sperimentali. Le “Editions de Minuit”, una casa editrice rivoluzionaria, accettò invece di pubblicarli. In questo modo si formò un gruppo che i critici e il pubblico hanno cominciato a riconoscere in quanto tale. Senza, però, che da parte nostra ci fosse stato, a monte, un programma in tale direzione. Non sono d’accordo con chi mi ha definito un oppositore della tradizione occidentale della narrazione, è che all’epoca, i critici letterari hanno trovato che quello che scrivevo e dicevo sulla letteratura fosse qualcosa di totalmente nuovo, anche se per me non lo era.
Alla refrattarietà dell’editoria si è aggiunta quella della critica…
La critica, e mi riferisco soprattutto a quella francese dell’epoca, era alquanto arretrata, a tal proposito. I grandi critici dell’epoca, quelli che dettavano legge nelle riviste, nei giornali, non avevano in realtà letto niente dopo Dickens e Balzac e pensavano che fosse così che si dovesse scrivere, del resto alcuni parlavano di ciò che non avevano mai letto. Mi hanno definito un oppositore della tradizione occidentale della narrazione. Ma per me la letteratura è sempre stata nuova, il romanzo è sempre stato “nuovo”. Poco dopo Balzac, è stata la volta di Flaubert, la cui scrittura apportava già delle novità, rispetto al primo. Flaubert infatti introduceva, rispetto a Balzac, delle sovversioni riguardanti la persona, il soggetto narrante che parla, e anche la presenza particolare degli oggetti nella scrittura. Dopo Flaubert, il sovvertimento continua, e in occidente questa tradizione non cessa di esistere, in seguito c’è stato Dostoevskij, quindi Kafka, e poi ancora Proust, Faulkner, Borges, e anche in Italia, Italo Svevo…Il romanzo “balzacchiano”, era già stato ampiamente soppiantato da tutti i grandi scrittori che contavano in Europa occidentale. E sono stato molto stupito, forse vista la mia formazione di stampo scientifico, di vedere quanto la letteratura fosse ancorata al passato, al contrario della scienza, che è sempre nuova, non può fermarsi; per me la letteratura è ancora in movimento, alla ricerca continua, eppure i critici volevano che si fermasse a quel punto e che andasse bene così. Ma questo è impossibile perché, o la letteratura è morta, altrimenti, se è viva, non può che rinnovarsi senza sosta. Questo vuol dire che ci sarà sempre un “nouveau roman”…
Spesso un autore deve fare i conti con difficoltà che ne decretano o meno la notorietà, il successo editoriale. La sua fama è giunta piuttosto inaspettatamente, cosa ci può dire al riguardo?
Si trattava di libri che in precedenza erano stati rifiutati e per tale ragione certa critica ha reagito in maniera costernata, dicendo che non era così che si scriveva un romanzo, che si vedeva che non ero un letterato, ma un ingegnere che ha creduto…e così via. Insomma, la critica si è messa a scrivere un certo numero di assurdità su di me che hanno finito col rendermi celebre. A forza di scrivere che i miei lavori erano del tutto illeggibili, molto presto sono divenuto celebre, quando invece non lo ero per niente.
E rispetto al cinema?
Quando ho cominciato a fare dei film, dieci anni dopo l’inizio della mia attività letteraria, mi hanno qualificato come scrittore. Come per i romanzi mi era stato detto che non ero un vero romanziere, ero difatti un ingegnere e provenivo quindi da una formazione scientifica, tutto ad un tratto la critica cinematografica diceva dei miei film che si capiva che la mia formazione non era quella di regista, bensì di un romanziere. Più semplicemente, ho raggiunto il mio statuto di romanziere facendo dei film. E, successivamente, per farmi accettare come regista, mi sono messo a dipingere…

Alain Robbe-Grillet e Alain Resnais
Nel 1961 lei collabora alla scrittura di L’anno scorso a Marienbad, film che imponeva Alain Resnais sulla scena internazionale. Ci può raccontare come è nato il suo interesse per la settima arte?
Da sempre mi ha interessato la fascinazione dello schermo. Il cinema esercita un’azione diretta sul pubblico, in special modo sulle giovani generazioni. Ha un potere di attrazione molto superiore a quello della frase scritta. È ciò che si potrebbe definire, come ho dichiarato in altre occasioni, il paradosso del cinema: l’idea originale è una astrazione. E, tra le due cose, c’è una realtà materiale. Ritengo che la sicura attrazione che la creazione cinematografica ha esercitato su molti romanzieri sia non tanto l’oggettività della macchina da presa quanto le sue potenzialità nella sfera del soggettivo, dell’immaginario. Essi, infatti, non concepiscono il cinema come un mezzo di espressione, ma di ricerca, e sono maggiormente interessati a ciò che non rientra nel potere della letteratura, la possibilità dell’immagine e della colonna sonora di agire al contempo sui due sensi, vista e udito. Insomma nell’immagine come nel suono, si ha la possibilità di rendere l’immaginazione sotto l’apparenza dell’oggettività. Rispetto alla mia formazione di cinéphil, ho avuto come riferimenti grandi maestri, come Eizenztejn, come Orson Welles, come Antonioni e Buñuel. Con Antonioni avevo tentato anche di collaborare, ci conoscevamo e frequentavamo e il cinema era uno degli argomenti privilegiati. A tal riguardo, finché si parlava di cinema, in generale, ci trovavamo pienamente d’accordo ma non appena scendevamo nei dettagli, ci accorgevamo di avere idee completamente diverse sulla regia e la realizzazione pratica di un eventuale film. Antonioni richiedeva che mi limitassi a confezionare il soggetto e, al limite, la stesura della sceneggiatura, le immagini, però, voleva deciderle lui. E così non se ne fece nulla, peccato, chissà che film curioso sarebbe venuto fuori…Per L’anno scorso a Marienbad ho scritto non una sceneggiatura ma un découpage. Su questa base, Alain Resnais ha girato il film, l’ha girato da solo ma si è affidato a me per certe soluzioni tecniche. Ha rispettato ogni dettaglio in modo scrupoloso, a tal punto che mi mandava un telegramma per cambiare una singola virgola del testo. Eppure ha trasformato tutto, è evidente, quantunque una lettura del mio lavoro possa far credere all’identità totale delle due opere, che il film è e resti, nonostante tutto, di Alain Resnais.
Spostamenti progressivi del piacere conclude una trilogia iniziata con Trans-Europe-Express e proseguita con Oltre l’Eden, una sorta di, come è stato detto, parodia del genere poliziesco. Roberto Nepoti, a proposito del film, ha dichiarato che il regista punta a “impedire ai significati di depositarsi su un oggetto particolare, facendo slittare progressivamente le significazioni da un elemento all’altro”. Ci può raccontare la genesi del film?
Spostamenti progressivi del piacere è il risultato di una scommessa con un produttore molto facoltoso che perdeva soldi col cinema commerciale, io l’ho convinto a realizzare un film a buon mercato. Lui non lo credeva possibile, ma gli ho detto che bastava girare molto velocemente e che avrei avuto bisogno di cinquecento mila franchi. Era il 1974, è stata l’unica volta in cui quel produttore ha guadagnato nel cinema. Avendo a mia disposizione un budget ridotto per fare il film, ho dovuto inventare un’estetica particolare, un po’ minimalista. Una scenografia molto semplice, con pochi oggetti sullo schermo; amo servirmi di un vincolo che invece di limitarmi costituisca una sfida per raggiungere un risultato positivo. Del resto anche Godard si serve spesso di un limite. Il tema del film mi era stato ispirato dalla lettura da un testo su Michelet, scritto da Roland Barthes. Michelet era un libertario e storico francese, il padre della repubblica francese. Mentre tutte le potenze europee avevano individuato emblemi nazionali virili e minacciosi, come un leone o un’aquila, Michelet aveva deciso che l’emblema della Repubblica francese sarebbe stata una giovane donna a seno nudo. Per lui la giovane donna incarnava lo spirito della rivoluzione e ha scritto quel libro, La sorcière, che descriveva la lotta di una ragazza contro l’ordine stabilito, repressivo, maschile, il prete, il giudice, il poliziotto, sono i tre emblemi del potere virile e repressivo secondo Michelet. Ho ripreso questo schema per il film. Ma nel libro La sorcière, la donna lotta esclusivamente col proprio corpo, per la sua nudità, per la bellezza e lo scandalo che ne scaturisce. Per Michelet è molto importante la giovane dal seno nudo perché l’immagine della Repubblica francese è un’immagine carnale, attraente e appetibile, invece la strega del mio film è un po’ più complessa, scardina l’ordine stabilito del discorso. La donna è accusata di un crimine, non si sa se lo abbia commesso effettivamente, avrebbe ucciso una donna. E invece di negare, fa finta di partecipare all’indagine, ma fornisce in ogni momento discorsi che sovvertono i precedenti, moltiplica le descrizioni differenti del presunto omicidio, il perché è successo, il come è successo…”inquina” l’inchiesta, in un certo modo. Il giudice vuole rimettere le cose al loro giusto posto, che si tratti di una storia poliziesca tradizionale, con una concatenazione dei fatti, che invece viene confusa, sconvolta. E il giudice, il prete, uno dopo l’altro, perdono piede, sono destabilizzati da questa giovane ragazza che facendo finta di nulla, col sorriso, di fatto distrugge poco alla volta ogni ricostruzione razionale che sarebbe quello che spetterebbe al giudice di fare per il ruolo che ricopre nella società…
Molti intellettuali di fama internazionale si sono espressi in merito alla sua opera, chi a favore chi contro, vi è qualche osservazione che l’ha colpita particolarmente?
Una delle cose strane che sin dai primi passi sono state dette su di me è l’oggettività, che fossi uno scrittore oggettivo. Il nome aveva un’origine, era stato Roland Barthes a scriverlo a proposito dei miei libri. Ma “oggettivo”, in francese vuol dire, neutro, imparziale, eppure Barthes lo utilizzava in un senso molto particolare, letterale, del termine: l’obbiettivo rivolto verso il proprio oggetto, come può esserlo l’obbiettivo dell’apparecchio fotografico. E questa idea dell’oggettività, l’ho trovata assolutamente bizzarra, ho protestato immediatamente per questa definizione che mi era stata data. Dicevo che era Balzac ad essere oggettivo, io per nulla, rivendicavo, al contrario, una soggettività totale. Del resto, la stessa cosa la si poteva dire per Marguerite Duras, per Nathalie Sarraute. Ma non mi posso lamentare, è che sostenendo dichiarazioni così strane, si è finito col leggere maggiormente i miei testi. La cosa che avrei potuto rimproverare è l’aver imposto il silenzio intorno a me; invece per nulla, il mio nome aveva diritto e accesso a pagine intere sui giornali, per spiegare, per dire che ero un pazzo… e probabilmente pure un assassino, come aveva scritto un critico di “Le Monde”. Poco alla volta così, sono riuscito a sopravvivere e dopo dieci anni ero veramente molto celebre. Spesso mi domandavo se fossi conosciuto per i miei romanzi o per i miei film. A tal proposito, c’è una frase che amo prendere volentieri in prestito da Andy Warhol: “sono soprattutto conosciuto per la mia celebrità”. C’era così tanta gente che parlava di me, ma che non si prendeva neppure il disturbo di leggermi!
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