Ho adorato Asfalto che scotta. Fu la mia prima recensione. Pierre Billard, il direttore di “Cinéma 60” mi aveva autorizzato a fare un articolo per la seconda parte della rivista, che significava non più di trenta quaranta righe. Quell’articolo terminava con qualcosa del tipo “Alcuni diranno che Asfalto che scotta è un film di serie B, ma B come Boetticher vale assai di più che A come Allégret”. Ho difeso molto quel film, ho chiamato Sautet e penso di avergli fatto la prima intervista della sua carriera. Abbiamo parlato molto del western e della sua influenza sul film. Alla sua uscita Asfalto che scotta ha ricevuto un’accoglienza scandalosa. Un gran numero di articoli non erano solo imbecilli ma addirittura ripugnanti, prova di una mancanza di discernimento, d’una incapacità totale di vedere la forza della messa in scena. I primi venticinque minuti di Asfalto che scotta annunciano molto chiaramente la nascita di un vero regista. Successivamente il film si piega alle esigenze e alle regole del genere. Rimane ancora oggi fra i migliori polizieschi francesi e uno di quelli meglio invecchiati rispetto ad altri titoli dell’epoca.

Lino Ventura, Classe tous risques
Il film è stato completamente eclissato da Fino all’ultimo respiro. Invece di lodare Belmondo, di sottolineare la differenza di registro fra i due film, era come se ci fosse da una parte il Belmondo rivoluzionario di Godard e dall’altra quello convenzionale di Sautet. E invece nel film di Sautet Belmondo dà prova di una fragilità, di un fascino che non ritroverà mai più nel corso della sua carriera. Quando ferma l’ambulanza e soccorre Sandra Milo, dà una lezione al tipo che la picchia sul ciglio della strada e poi se ne torna verso lei dicendo “Se ho qualcosa di buono, è il mio sinistro”, Belmondo è sublime. Totalmente diverso dal Michel Poiccard di Fino all’ultimo respiro, ma appunto questo dimostra la versatilità del suo talento. E questo le persone non sono riuscite a capirlo.
Bertrand Tavernier
Il segreto della creazione artistica resta, così come la volgarità, uno dei grandi misteri assoluti. È una cosa che non si impara. Al cinema come altrove. Nel 1896 Pablo Picasso non aveva preso alcuna lezione, così come Erroll Garner nel 1945. La stazione di Milano, l’ufficio postale di Nizza, il passage Doisy (tanto caro a Peugeot) Sautet non li ha imparati in film di altri. Immaginate per un istante la storia ambientata negli Stati Uniti o in Messico o in Canada, con Robert Ryan e Sinatra, e ditemi se Sautet non sarebbe considerato un grande da quelle parti!
Ditemi che non avrebbe potuto firmare Qualcuno verrà, Strategia di una rapina, Lo spaccone o Giungla d’asfalto. Si parla spesso di film in cui i rapporti fra gli uomini, l’amicizia, hanno un’enorme importanza. Io ho assolutamente creduto all’amicizia tra Abel Davos e Stark. È qualcosa di interiore e non il risultato dei dialoghi. Il comportamento dei due uomini rende espliciti i loro sentimenti senza che sia necessario che parlino della loro amicizia. È un po’ per lo stesso motivo che non sono riuscito a credere all’amicizia fra Jules e Jim che al contrario ne parlano spesso.

Yves Montand Gérard Depardieu Marie Dubois, Vincent, François, Paul et les autres
Jean-Pierre Melville
Nella sua struttura drammaturgica, César et Rosalie rappresenta la quintessenza dei film di Sautet, attraverso tre protagonisti con i quali il regista confessa di essersi identificato: degli eroi adulti, che più o meno ‘ce l’hanno fatta’ nella vita, ma la cui fragilità e immaturità riappare in superficie, di pari passo con gli sconvolgimenti emotivi. Sono questi movimenti interiori che scandiscono il procedere del racconto, e non il contrario. Sautet parte spesso da situazioni classiche, qui un banale triangolo amoroso, per dirigersi verso l’inatteso e il caos dei sentimenti. I suoi finali sono di solito ‘sospesi’, aperti su un avvenire incerto.

Michel Piccoli, Romy Schneider, Les choses de la vie
Concepiva i suoi film come dei brani musicali. César et Rosalie non sfugge a questa regola: dopo aver rifinito la partitura (la sceneggiatura), il regista le dà vita attraverso la sua interpretazione visiva e sonora, tanto in fase di ripresa dove questa si materializza, quanto durante il montaggio in cui imprime il suo ritmo. È un film in cui la fluidità musicale armonizza tutte le rotture di tono – dalla gioia alla malinconia, dalla violenza alla serenità -, e il cui movimento incessante s’accorda all’indecisione degli slanci che descrive, strettamente accompagnati dalla partitura di Philippe Sarde. È uno dei film di Sautet in cui si viaggia di più, da una regione all’altra, da un sentimento all’altro; i personaggi, a due a due, si ritrovano nelle automobili che procedono, mentre attraverso i vetri le trasparenze sfilano come paesaggi mentali; ci si parla senza guardarsi, fissando la strada. Più volte si sfiora l’incidente; ci si arrabbia, ci si rassicura, si rimonta in macchina, si torna indietro o si prosegue il viaggio, ci si consola. I rovesci si succedono alle schiarite, i colpi di vento gettano sabbia in occhi già arrossati: questi temporali fanno parte della meteorologia dei sentimenti secondo Sautet. La sua macchina da presa è uno scanner dei pensieri, e i dialoghi di Dabadie sono come melodie accordate alle precipitazioni del desiderio. Montand è grandioso, Sami Frey tenebroso, Romy sfavillante. Non possono fare a meno gli uni degli altri, ma non arrivano mai a vivere insieme. Si è detto di César et Rosalie che è il Jules e Jim di Sautet, ma il temperamento di Sautet è ben diverso da quello del suo amico Truffaut. Jules e Jim racconta di un’amicizia rovinata dall’amore di due uomini per la stessa donna. César et Rosalie, al contrario, racconta come come l’amore di César e quello di David per Rosalie facciano nascere fra loro una complicità profonda e duratura (sono d’altra parte i due uomini, su un barca da pesca, e non la ragazza, che appaiono in sovrimpressione sui titoli di testa). Ma Rosalie è una donna indipendente, che rifiuta di farsi ingabbiare in un mondo di valori maschili: impersonata dalla grazia di Romy Schneider, è un’eroina moderna capace, nella stessa serata, di ‘prestare servizio’ a casa di César e poi in quella di David, ma solo perché è lei ad averlo scelto. I personaggi di Sautet si riconoscono reciprocamente la libertà di amare, come quella di soffrire, in una vana lotta contro l’incedere del tempo. È ciò che dimostra il magnifico trio di César et Rosalie fino alle ultime immagini del film: tre sguardi si scambiano, un cancello viene superato, un viso si congela prima di sfumare.
N. T. Binh
La prima volta che abbiamo pranzato assieme, Claude Sautet mi ha detto la sua ammirazione per questa definizione di Raoul Walsh: “Il cinema è azione, azione, azione, ma attenzione: sempre nello stesso senso!”. Ripensavo a questa conversazione quando il vecchio regista di Her Man (La stella della taverna nera, 1930), Tay Garnett, mi diceva il mese scorso “Ho l’impressione che i giovani registi francesi abbiano ben compreso ciò che noi stessi avevamo capito cinquant’anni fa, che un film è run, run, run“. Allo stesso modo in cui Jean Renoir ha attinto alla lezione di Stroheim e di Chaplin girando Nanà (1926) e Tire au flanc (1928), vale a dire rinforzando il lato francese dei suoi film impregnandosi di maestri hollywoodiani, così Claude Sautet ha capito, dopo l’inevitabile deviazione nel genere nero, che doveva essere, secondo l’espressione di Jean Cocteau: “Un uccello che canta nel suo albero genealogico”.

Romy Schneider, Sami Frey, César et Rosalie
Vincent, François, Paul et le autres mi sembra il miglior film di Claude Sautet e, nello stesso tempo, il miglior film del tandem Dabadie-Sautet, perché si potrebbe riassumerlo in “Pariscop” o altrove in due parole: la vita. In effetti è un film sulla vita in generale e su ciò che siamo. Pascal amerebbe questo film, lui che diceva: “Ciò che interessa all’uomo è l’uomo”. Alcuni spettatori scossi mi hanno detto: “è molto bello ma terribile, si riceve un gran colpo in testa”. Io non ho visto il film in questo modo, l’ho trovato ottimista, esaltante e mi è sembrato – forse mi sono sbagliato – sentire Claude Sautet dirmi nell’orecchio: “La vita è dura nei dettagli, ma è buona nell’insieme”. Ecco il messaggio che mi è sembrato di percepire e lo apprezzo perché corrisponde a verità. Ci imbattiamo in problemi quotidiani, familiari, materiali, sentimentali, affettivi, ma quando un dottore viene a dirci: “Eh, ecco, la carcassa tiene ancora ma è stata danneggiata, bisognerà ripararla”, allora, improvvisamente, la nostra povera vita comincia a valere a peso d’oro, le cose assumono il loro esatto valore, la vita comincia a scorrere come tutto il resto sotto il segno del relativo. Abitualmente nei film, nella maggior parte dei film, si ingaggiano attori per far loro sostenere dei ruoli nei quali ogni rassomiglianza con i personaggi, se c’è, è puramente casuale. Ciò che mi ha colpito in Tre amici, le mogli e (affettuosamente) le altre è la straordinaria adesione tra la gente che vediamo sullo schermo e le parole che pronunciamo, come se il vero soggetto del film fossero le loro facce. Montand, Piccoli, Reggiani, Depardieu: questo film è la storia della vostra fronte, del vostro naso, dei vostri occhi, dei vostri capelli, e, ora, so tutto di voi perché avete girato un grande documentario su di voi prima di tornare ai vostri film di finzione, cioè al vostro mestiere di attori che io rispetto e che non voglio assolutamente disprezzare. Stéphane, Ludmilla, Antonella, Marie, Catherine e le altre, sono al tal punto a vostra disposizione che mi sarei augurato che il film fosse stato cinquanta minuti più lungo per saperne di più su di voi ma, poiché le cose stanno come stanno, sono certo che siete fiere di questo film e avete ragione di esserlo. Ciascuna di voi meriterebbe di essere la donna della vita di uno qualsiasi di questi uomini ma oggi l’amore – e anche la passione – è come frantumato e ci si ritrova di fronte al provvisorio mentre tutto in voi – e in noi – aspira al definitivo. Ogni bel film è segretamente dedicato a qualcuno e mi sembra che questo potrebbe esserlo a Jacques Becker perché lo avrebbe profondamente commosso, come tutti quelli che privilegiano i personaggi rispetto alle situazioni, tutti quelli che pensano che gli uomini siano più importanti delle cose che fanno.
François Truffaut

Michel Piccoli, Romy Schneider, Les choses de la vie