
“Ogni documentario contiene una storia e ogni storia dovrebbe documentare qualche cosa: questo è il cinema della realtà, quello che a me piace” Vittorio De Seta
Regista e sceneggiatore, Vittorio De Seta occupa un ruolo di primo piano nelle pagine della storia del cinema italiano del dopoguerra, in particolare nell’ambito del documentario o, per utilizzare il termine utilizzato dai Paesi anglosassoni, nonfiction.
De Seta si avvicina da autodidatta al cinema a metà degli anni cinquanta, in una compagine composita, dove il Neorealismo aveva già raggiunto la sua stagione aurea, lasciando via via il posto ai generi, in particolare alla commedia e all’affiorare di un cinema d’autore (degli esordienti, come Antonioni o Fellini, o di personalità già note come Rossellini, De Sica o Visconti), parallelamente sul versante documentaristico si assisteva al consolidarsi di una produzione rivolta all’arte (i crito-film di Ragghianti) ai film-inchiesta (di impronta zavattiniana) e al documentario industriale. A tale riguardo gli esordi di Ermanno Olmi (tra gli altri, La diga del ghiacciaio, Tre fili fino a Milano) commissionati da Edison, o prima ancora, le regie di autori come, ad esempio, Nelo Risi, prodotte da Adriano Olivetti, sono esemplificativi dell’attenzione alle potenzialità comunicative del mezzo cinematografico da parte del mondo industriale.
La “silenziosa irruzione” nell’universo della settima arte di De Seta avviene con dieci cortometraggi, realizzati tra il 1954 e il 1959, girati in Sicilia, Sardegna e Calabria, che riscrivono la storia del documentario, per l’innovazione linguistica che vi introducono, come l’uso del colore, l’abolizione del commento della voce fuori campo, la registrazione dei suoni dal vivo e l’assenza del commento sonoro.
Dieci titoli che hanno per protagonisti pescatori, contadini, pastori, protagonisti di un universo in via di estinzione, di cui il regista coglie gli ultimi battiti, che restituiscono un’immagine in profonda controtendenza con quello che era il contesto dell’epoca – un’Italia della ricostruzione, tesa a favorire, a seguito degli ingenti aiuti economici del “Piano Marshall” (1), la crescente industrializzazione del Paese -, che gli valgono riconoscimenti importanti nelle vetrine festivaliere internazionali.

Ammirato da Jean Rouch, che di lì a poco si sarebbe imposto come maestro del cinema etnografico, definito da Martin Scorsese un antropologo con la vocazione del poeta, eppure il percorso artistico di De Seta è sempre stato piuttosto ai margini della produzione cinematografica nazionale.
Una marginalità, nella strenua difesa della propria indipendenza e ricerca di nuove vie espressive e linguistiche – nell’ambito del lungometraggio, e, successivamente, in quello televisivo -, spesso scontata con l’indifferenza o l’incomprensione da parte di chi ne voleva inquadrare l’opera in preordinate e riconoscibili categorie.
Nato a Palermo il 15 ottobre 1923, Vittorio De Seta, di nobili origini calabresi, nel 1941 si iscrive alla facoltà di Architettura a Roma.
Allievo ufficiale nella marina militare, poco dopo l’8 settembre del 1943, a seguito della proclamazione dell’armistizio da parte del governo Badoglio, viene arrestato. Si trovava a Brioni – un piccolo arcipelago istriano nel mare Adriatico settentrionale, composto da quattordici isole – di fronte a Pola, dove è fatto prigioniero dai tedeschi e deportato in Germania, qui rimane fino all’aprile del 1945, alla liberazione del campo da parte dell’esercito russo.
Due anni di prigionia costituiscono un’esperienza traumatica. Come è stato osservato, sarà anche da quell’esperienza che nasceranno i documentari degli anni cinquanta, da un’esigenza di conoscenza di una cultura “altra”, nei cui confronti De Seta ritiene di aver contratto quasi un obbligo morale. “Messo assieme ai soldati semplici, e lì in condizioni difficili ho conosciuto una dimensione nuova che era il mondo popolare. Da quel momento ho sempre avuto l’idea di un debito” (2).

Ma c’è anche “il lungo ritorno a casa dopo la prigionia. 1200 chilometri in quattro mesi, la visione di un continente distrutto dalla guerra: De Seta ricorderà poi quest’esperienza accostandola all’analogo viaggio di cui qualche anno dopo avrebbe letto in La tregua di Primo Levi” (3).
Rientrato in Italia, De Seta, ventiduenne, dovrà occuparsi per qualche tempo della proprietà di campagna, in Calabria, a causa dell’assenza della madre, arrestata dagli inglesi per aver aderito al fascismo.
IL SUO INGRESSO NEL MONDO DEL CINEMA
Il primo contatto di Vittorio De Seta con l’universo della settima arte avviene grazie all’amicizia con il gruppo di “Panaria Film”, Pietro Moncada, Renzo Avanzo, Francesco Alliata, Quintino Di Napoli, appassionati di pesca e pionieri del cinema documentario subacqueo in 35mm. Esperto di riprese, il principe Alliata, insieme a Renzo Avanzo, che aveva lavorato sul set di Paisà (1946) di Roberto Rossellini, ha l’intuizione di rivestire la sua cinepresa 35mm con una copertura impermeabile.
Cacciatori sottomarini, girato nel 1946, sancisce la nascita del cinema subacqueo italiano oltre ad inaugurare la “Panaria Film”, che si specializza in film girati in bianco e nero, spesso corredati da un commento esplicativo.
Nel 1947 De Seta è sul set di una nuova produzione della Panaria, Isole di cenere, sulla raccolta della pietra pomice in Sicilia – che verrà presentato alla mostra veneziana nel 1948 -, dove apprende i primi rudimenti del mestiere.

Nel frattempo, riprende gli studi di Architettura e pur dando tutti gli esami non sarà mai soddisfatto dei risultati (per certi versi la realizzazione di Diario di un maestro, anni più tardi, costituirà anche una risposta a questa frustrazione) (4).
Nel corso di una passeggiata nella capitale, De Seta si imbatte sul set di Ladri di biciclette di De Sica, è il 1948. Nel giovane cresce, intanto, l’interesse per questo universo, e inizia, così, a frequentare i cineclub, a leggere riviste specializzate. Rimarrà particolarmente impressionato dalla visione di Aleksandr Nevskij, ma anche dalle pellicole di Chaplin e dai classici americani.
De Seta fa il suo vero e proprio ingresso nel mondo del cinema a trent’anni, nel 1953, come aiuto-regista e co-sceneggiatore di Vacanze d’amore (Le village magique) di Jean-Paul Le Chanois (nel cast, Lucia Bosè e Walter Chiari), girato a Cefalù. Dello stesso anno farà un’altra incursione nel cinema “ufficiale”, come secondo aiuto regista di Mario Chiari su Dopoguerra 1920, episodio della pellicola collettiva, Amori di mezzo secolo (firmata da Mario Chiari, Roberto Rossellini, Glauco Pellegrini, Pietro Germi e Antonio Pietrangeli).
De Seta prenderà presto le distanze dall’universo dell’industria cinematografica e dai suoi rigidi dettami, come ad esempio quello della sceneggiatura “di ferro”, che sente lontano dal proprio modo di concepire il cinema.

Incoraggiato da Vera Gherarducci, che ha sposato e che collaborerà ai suoi futuri film, compra una “Paillard”, una cinepresa 16mm e si forma come autodidatta, sempre più convinto che per avere piena indipendenza nell’ambito creativo, occorra avere la padronanza del mezzo e saper girare i propri film.
LA SCOPERTA DEL MERIDIONE: I SUOI PRIMI DOCUMENTARI
Nell’aprile 1954 gira Pasqua in Sicilia, insieme con Vito Pandolfi. Zavattini avrà modo di vederlo e di elogiare il regista per il risultato. Di lì a breve seguono gli altri titoli, ha inizio la sua avventura in giro per il Meridione, dal 1954 al 1959, in Sicilia, Sardegna e Calabria, quel suo mettersi in attesa e in ascolto, per entrare in contatto con universi che non conosce ma che può cercare di avvicinare e descrivere.
De Seta gira sei documentari in Sicilia (Lu tempu di li pisci spata, Isole di fuoco, Surfarara, Pasqua in Sicilia, Contadini del mare, Parabola d’oro), di cui Isole di fuoco riceve il primo premio per il documentario del Festival di Cannes del 1955 e Contadini del mare vince al Festival di Mannheim l’anno seguente.

Nel ’58-’59 dirige altri quattro cortometraggi, ancora in Sicilia (Pescherecci), in Sardegna (Pastori di Orgosolo e Un giorno in Barbagia), infine in Calabria, I dimenticati, ambientato in un borgo vicino a Cosenza, ad Alessandria del Carretto, ancora privo di una strada di accesso percorribile con automezzi.
Nel frattempo De Seta era stato contattato dal produttore Carlo Ponti, che gli aveva proposto la regia di un film marino con Sofia Loren – che sarà invece affidata a Jean Negulesco, Il ragazzo sul delfino (1957).
Può trattarsi della lotta dei minatori con le vene di zolfo o della brutalità della danza arcaica dei tonnaroti, De Seta gira con una piccolissima troupe, un’Arriflex ST 35mm e un registratore Maihak. I suoi documentari rappresentano un unicum, per la capacità mimetica della cinepresa, per la straordinaria bellezza delle riprese, la scelta del formato cinepanoramico, il cinemascope, l’uso del 35mm a colori, la scelta di eliminare il commento fuori campo per evitare di appesantire la visione; per dirla con Alberto Farassino, sono “grandi melodrammi sul lavoro”, poemi visivi che hanno ereditato lo sguardo e il respiro dei maestri del documentario classico, dello statunitense Robert Flaherty di Nanook l’eschimese, dell’inglese John Grierson di Drifters.
Per la rigorosa accuratezza della composizione, per l’attenzione alla dimensione umana, i documentari di De Seta sembrano inserirsi nel filone avviato da Luchino Visconti di La terra trema (1948).

Ciò che interessa a De Seta non è tanto il cinema del reale, ma che sia “più vero del vero”. Un metodo che il regista mette a punto con maestria, in ogni fase della lavorazione del film, dalle riprese alla registrazione dai vivo coi canti e suoni registrati sul luogo. “A quei tempi non esisteva il suono sincrono; perciò bisognava prima filmare e poi registrare i suoni. Ricordo che la sera sentivo e risentivo le registrazioni, non soltanto i canti e le musiche popolari ma anche gli effetti, le voci, le atmosfere. Il documentario un po’ alla volta si strutturava e prendeva forma più in virtù dei suoni (che potevo sentire) che delle immagini (che non potevo vedere)”. (5) E ancora, in merito al sonoro e alle scelte stilistiche: “Io ho registrato il sonoro dopo le riprese. Lu tempu di li pisci spata è tutto sul ritmo della vogata, è a tempo, non è ‘sinc’ col quarzo, però è un fac-simile anche più espressivo, perché io registravo tutto e se c’erano delle belle voci in lontananza ce le mettevo, non c’era il culto del sinc che hanno adesso i fonici. Il primo, Pasqua in Sicilia, è banale perché c’è lo speaker: a partire dal Pesce Spada sono passato al 35mm, al colore e soprattutto all’abolizione dello stesso speaker, la cui eliminazione comportava la messa in primo piano del suono. Influenzarono le mie scelte stilistiche l’Aleksandr Nevskij di Ejzenstejn e L’uomo di Aran di Flaherty che era inizialmente muto; ma soprattutto mi colpì il capolavoro del maestro sovietico: c’era un sodalizio perfetto tra immagine e suono, musiche scritte apposta e scene montate sulla musica”. (6)
Il profilmico, ovvero ciò che sta davanti alla mdp e viene ripreso, si fa messinscena, e in fase di montaggio, è parte essenziale di una accuratissima organizzazione del discorso, dove tutto prende forma. “Il regista gioca con la natura, utilizzandola con la maestria di un pittore consumato, esasperandone fino al limite il realismo e la verosimiglianza “ (7).
Nel 1957 fallisce il tentativo di girare un lungometraggio sulla storia del sindacalista Salvatore Carnevale, per cui aveva già scritto la sceneggiatura, I contadini. De Seta si scontra con un’incompatibilità tra le proprie esigenze artistiche e le imposizioni del sistema produttivo. Un altro progetto non vedrà la luce, dal titolo provvisorio La diga, da ambientare sempre in Sicilia.

Inizia a riflettere a un’opera sulla Sardegna e sul Supramonte, un ambiente già descritto in Pastori a Orgosolo e Un giorno in Barbagia, sollecitato dalle letture di Franco Cagnetta, “Inchiesta su Orgosolo” (pubblicato in “Nuovi Argomenti”, nell’autunno del 1954) e “Diario di una maestrina” di Maria Giacobbe.
BANDITI A ORGOSOLO
Recatosi a Orgosolo, per diversi mesi, De Seta, con una troupe ridottissima, insieme alla consorte, Vera Gherarducci, e all’operatore Luciano Tovoli, vive a stretto contatto coi pastori e li segue nella transumanza delle greggi. Banditi a Orgosolo, autoprodotto, sarà presentato alla Mostra del cinema di Venezia nel 1961, dove ottiene il premio per la migliore opera prima.
Come osserva Mario Sesti, il film “fonde, con uno stile insuperato, la migliore tradizione nell’uso espressivo del paesaggio nel cinema, da John Ford a Aleksandr P. Dovženko, con l’inchiesta sociale e l’uso di attori non professionisti, eredità del Neorealismo”. La pellicola otterrà grande successo di critica e di pubblico, anche all’estero, a Boston riceverà il prestigioso Premio Flaherty per la miglior regia.

Nel 1958 De Seta aveva fatto la conoscenza di Ernst Bernhard – stabilitosi in Italia dopo la fuga dalla Germania nazista, futuro psicoanalista di Federico Fellini –, quando il medico aveva preso in cura il fratello maggiore.
Per De Seta – che nel frattempo con la moglie aveva intrapreso un percorso di analisi – è decisiva l’influenza junghiana, nella svolta del proprio percorso artistico, per il suo allontanamento dal materialismo marxista e l’avvicinamento alla religione.
Dall’incontro con Bernhard scaturisce anche la realizzazione del secondo lungometraggio, Un uomo a metà, a lui il regista dedica il film, un’altra produzione indipendente, rigorosamente autoprodotta.
Presentato a Venezia nel 1966, la pellicola racconta di un disagio psichico con tecniche di interiorizzazione, discontinuità narrative e suggestioni simboliche appartenenti alla letteratura coeva, ma anche alla psicoanalisi junghiana. Sarà premiato il protagonista, Jacques Perrin, che vince la coppa Volpi come migliore attore.

Difficile l’impatto con la critica cinematografica, che non perdona a De Seta l’aver abbandonato l’impegno sociale. Infatti, come lo stesso regista aveva in più occasioni avuto modo di dichiarare, dopo Banditi a Orgosolo gli erano stati proposti film con tematica rurale, ma il suo intento era invece quello di realizzare un’opera intimista e autobiografica. Alberto Morava e Pier Paolo Pasolini saranno tra i pochi difensori del film.

De Seta è così amareggiato dalla pessima accoglienza critica, che medita di abbandonare il cinema, Un uomo a metà rappresenta, difatti, un punto di rottura nel suo percorso artistico.
Ma nella primavera del 1968 si presenta per De Seta l’opportunità di girare il suo terzo lungometraggio, su un soggetto firmato da Tonino Guerra, L’invitata – il cui racconto focalizza l’attenzione sul rapporto tra un uomo e una donna. Per questa pellicola il regista può avvalersi di una co-produzione italo-francese e di interpreti d’eccellenza, come Michel Piccoli e Joanna Shimkus, attrice canadese (che ha lavorato in Francia con Jean Aurel, Joseph Losey, Robert Enrico, Henri-Georges Clouzot, e successivamente in America, dove lavorerà sul set col futuro marito, Sidney Poitier). Ma la pellicola non viene accolta come auspicato, è il secondo smacco da parte della critica, che rimprovera a De Seta di fare un cinema intimista.
LA COLLABORAZIONE CON LA RAI
Nel 1970 il progetto di un documentario sulla guerra di liberazione in Guinea-Bissau cui teneva, non vede la luce. È in questo decennio che ha inizio la sua collaborazione con la RAI. La televisione costituisce un’ancora di salvezza per De Seta, “avevo perso l’impegno sociale, ero stato bollato” dichiarerà egli stesso, (8).

Nella primavera del 1971 comincia le riprese di Diario di un maestro. Tratto dal romanzo autobiografico “Un anno a Pietralata” dello scrittore-insegnante di origini sarde, Albino Bernardini, il film ha una storia che si sviluppa nella scuola elementare del quartiere romano del Tiburtino. Qui al maestro Bruno D’Angelo, interpretato da Bruno Cirino, viene affidata una classe di alunni turbolenti.
“Io ho dovuto scegliere tra una scuola aderente alla vita e una scuola aderente a questi libri – dice nel film il maestro D’Angelo – e ho scelto una scuola aderente alla vita”. E così, nella disapprovazione del direttore dell’istituto, della vicedirettrice e sotto l’occhio sospettoso dei suoi colleghi, il maestro napoletano per i suoi “malestanti” alunni sceglie un modello di scuola fuori dagli stereotipi, che nella sostanza non vuol dire rinunciare ad aprire i libri o non utilizzare penna e quaderni.
Trasmesso in quattro puntate nell’inverno del 1973, Diario di un maestro ottiene un ascolto inatteso, generando anche un dibattito molto acceso sulla necessità di inserire nuove metodologie pedagogiche nell’istituzione scolastica, verrà fatta in seguito una versione ridotta di 135 minuti, destinata alle sale cinematografiche. Vi si trova la maestria di De Seta nell’infondere una drammaturgia romanzesca in una materia documentaria e cronachistica, lo sceneggiato sarà seguito da più di quindicimila spettatori.

Tra il 1973 e il 1976 De Seta lavora ad un progetto su San Paolo cui tiene molto, ma sia la RAI che la produzione alla quale si era rivolto si tirano indietro.
Nel 1978 firma un’inchiesta tv in quattro puntate, Quando la scuola cambia, un’indagine sull’effettiva possibilità di una scuola diversa.
Nel 1978 gira Hong Kong città di profughi sul tema dello sradicamento di vietnamiti in fuga dalla guerra e di cinesi dal regime comunista. Nel 1980 ultima le riprese di La Sicilia rivisitata dedicato ad una cultura in estinzione, dove fa ritorno in quegli stessi luoghi in cui aveva girato i suoi primi documentari per cogliere e filmare i cambiamenti irreversibili avvenuti in un periodo relativamente breve. In questo film De Seta constata la definitiva scomparsa di un universo arcaico, che aveva costituito il nucleo centrale dei cortometraggi prodotti tra il 1954 e il 1959.
Sempre nel 1980 gira Un carnevale per Venezia (andrà in onda tre anni dopo).

Alla fine del 1981 De Seta lascia Roma e si ritira in Calabria, a Sellia Marina, dove si dedicherà alla cura dell’uliveto di famiglia. “Mi sono rigenerato con la natura, con la campagna, ho potuto aspettare, leggere, riflettere, ricostruirmi una visione delle cose”, è quanto avrà modo di dichiarare il regista “a Roma sarei stato costretto a lavorare in qualsiasi cosa, mi sarei perduto in un certo senso”. (9)
De Seta impara a fare il contadino, da autodidatta, vi si immerge totalmente.
In seguito si dedica alla lettura, legge Tolstoj e torna a pensare al cinema, coltiva l’idea di un film sul Vangelo, che vorrebbe girare in Calabria. La sua è una concezione umanistica della religione cristiana, “sono credente ma non osservante, anzi da quando sono credente non capisco più cosa vuol dire la Chiesa, i sacerdoti, i sacramenti…”(9)
Il silenzio dura più di dieci anni, dopo i quali De Seta decide di girare un nuovo documentario per la Rai, In Calabria, in cui si avvale di un commento sonoro che affida a Riccardo Cucciolla, una ricognizione su un territorio dove la modernizzazione è una “grande speranza delusa”.
Dieci anni più tardi, De Seta fa la sua ricomparsa con il mediometraggio Dedicato ad Antonino Uccello (2003). Un nuovo progetto ha per protagonista un immigrato senegalese in viaggio per l’Italia, dove l’attenzione è per gli ultimi della terra, oltre ad affrontare il tema dello sradicamento culturale. Il film avrà una lunga odissea produttiva ma, grazie anche all’aiuto di Martin Scorsese e alla sua lettera aperta (settembre 2005) pubblicata sul “Corriere della Sera”, indirizzata al Presidente della Repubblica Italiana, Carlo Azeglio Ciampi, auspicando che ogni difficoltà possa essere presto superata, Lettere dal Sahara – in cui il regista potrà sperimentare il digitale – sarà portato a termine e presentato a Venezia nel 2006.

Due anni dopo è autore di una sorta di sequel di Lettere dal Sahara, Articolo 23 (Pentedattilo, 2008), si tratta dell’ultima opera realizzata dal regista. Vittorio De Seta muore il 28 novembre 2011, stava lavorando ad un nuovo film.
A metà degli anni novanta due importanti retrospettive, a Parigi nel 1994, al “Cinéma du Réel” , e in Sicilia, nel 1995, dove viene editata la prima monografia dedicata alla sua opera a cura di Alessandro Rais, pongono meritatamente nella giusta luce l’opera di Vittorio De Seta, fino ad allora poco valorizzata.
Nel 2005, a New York, al Tribeca Film Festival, è dedicata una importante personale a Vittorio De Seta. Nel 2008 saranno restaurati dal laboratorio “L’Immagine Ritrovata” della Cineteca di Bologna, i suoi dieci documentari, che saranno raccolti ed editati nel dvd, Il mondo perduto. I cortometraggi di Vittorio De Seta 1954-1959. Successivamente sarà restaurato dalla Cineteca di Bologna Diario di un maestro, cui seguirà la pubblicazione di un DVD con booklet.
Nel 2019, in Francia, a cura dell’edizione L’Arachnéen, esce in Dvd Diario di un maestro accompagnato da un volume molto accurato. La scuola, secondo De Seta arriva in Francia, recita il titolo di un articolo di giornale che ne promuove l’uscita. Numerose le pubblicazioni uscite anche di recente sull’opera di De Seta, oltre a documentari sulla sua opera, tra cui, Détour De Seta di Salvo Cuccia (2004), Le cinéaste est un athlète di Vincent Sorrel e Barbara Vey (2010).

In ultimo, segnaliamo la costituzione del Fondo De Seta presso la Cineteca di Bologna, che si compone di circa duecento fascicoli che coprono l’intera carriera del regista. Soggetti, sceneggiature, lavori preparatori di documentazione, diari di lavorazione, appunti, articoli dell’autore pubblicati su riviste, rassegne stampa nazionali e internazionali, scambi epistolari ne costituiscono il nucleo. Diari che il regista ha scritto tra il 1947 e la fine degli anni novanta tra riflessioni personali e considerazioni sui film e sul cinema.
NOTE:
- Il piano di ricostruzione europea stanziato dagli Usa dal 1947 al 1951, che prevedeva ingenti aiuti economici, costituisce la precondizione del miracolo economico che si sarebbe sviluppato nel decennio successivo, uno strumento di modernizzazione dell’industria italiana, siderurgica, energetica, meccanica, con particolare attenzione anche all’industrializzazione del Meridione.
- In, Paolino Nappi, L’avventura del reale. Il cinema di Vittorio De Seta, Rubbettino Editore, 2015, pag. 31
- Ivi, pag. 31
- Ivi, pag. 32
- In Marco Bertozzi, Storia del documentario italiano. Immagini e culture dell’altro cinema, Marsilio Editore, 2008, pag. 158
- Intervista di Nicola Cordone a Vittorio De Seta su “Schermaglie.it”
- In Marco Bertozzi, op. cit. pag. 158
- In Paolino Nappi, op. cit
- Ivi
Abbiamo avuto il piacere di fare la sua conoscenza, in occasione di una retrospettiva a lui dedicata dalla Cineteca di Bologna nel giugno 1995. Riproponiamo l’intervista fatta allora e pubblicata su “Cineteca”. Austero, dietro a quei grandi occhiali che ne inquadravano il viso, Vittorio De Seta lo ricordiamo sempre affabile e disponibile nella conversazione, nel discorrere di cinema come nel descrivere, con grande passione, la coltura dell’ulivo e le varie fasi di lavorazione per ottenere l’olio. Viveva nella tenuta della madre, in Calabria, dove aveva fatto ritorno fugacemente da giovane, per poi stabilirvisi definitivamente dagli inizi degli anni novanta.
Tra i suoi estimatori possiamo annoverare Mike Leigh, che quattordici anni dopo, nel novembre del 2009, era giunto a Bologna col suo ultimo film, La felicità porta fortuna e per una retrospettiva a lui dedicata. Appena arrivato da Londra e posati i bagagli in albergo, venuto a conoscenza della programmazione dei documentari di De Seta nella loro recente versione restaurata a cura della Cineteca, il regista britannico aveva voluto essere accompagnato in sala per prenderne visione.
