LE GOMME
Prologo
Nella penombra della sala, il padrone mette in ordine i tavolini e le sedie, i portacenere, i sifoni di selz. Sono le sei del mattino.
Non ha bisogno di vedere bene, non sa neppure quello che fa. Dorme ancora. Leggi antichissime regolano nel dettaglio i suoi gesti, salvi per una volta dal fluttuare delle intenzioni umane. Ogni secondo segna un movimento puro: un passo di lato, la sedia a trenta centimetri, tre colpi di strofinaccio, mezzo giro a destra, due passi avanti, ogni secondo rimane impresso, uguale, perfetto, senza sbavature. Trentuno. Trentadue. Trentatré. Trentaquattro. Trentacinque. Trentasei. Trentasette. Ogni secondo ha il suo luogo esatto. Tra poco, sfortunatamente, questo stato di cose non regnerà più incontrastato. Avvolti in un alone di errore e di dubbio, gli avvenimenti, anche quelli insignificanti, di questa giornata cominceranno il loro lavoro, intaccheranno progressivamente l’ordine ideale, introducendo sornioni qua e là una inversione, uno sfasamento, una confusione, una curvatura, e a poco a poco porteranno a termine il loro compito: una giornata di inizio inverno, senza piano né direzione alcuna, incomprensibile e mostruosa. È ancora troppo presto però. Il chiavistello della porta d’ingresso è stato appena tolto. E l’unico personaggio presente in scena non ha ancora recuperato la sua esistenza propria. È l’ora in cui le dodici sedie scendono lentamente dai tavolini di finto marmo sui quali hanno passato la notte. Niente di più. Un braccio rimette meccanicamente ogni cosa al suo posto. Quando tutto è pronto, la luce si accende…Tra i tavolini e le sedie, un omaccione in piedi – il padrone – che cerca di ritrovarsi. Dietro il banco, un lungo specchio (…) Penosamente il padrone emerge. Ripesca, a caso, qualche frammento che gli galleggia attorno. Non c’è bisogno di affrettarsi però: la corrente è ancora debole, a quest’ora. Si appoggia con entrambe le mani contro il tavolino, il corpo inclinato in avanti, non ancora sveglio, fissando qualcosa, chissà che cosa. Quel cretino di Antoine, con la sua ginnastica svedese tutte le mattine. E la sua cravatta rosa dell’altro ieri. Di ieri, Ogni è martedì, Jeannette viene più tardi. Che razza di macchia! Una bella porcheria, questo marmo, ogni cosa lascia il segno. Pare sangue. E Daniel Dupont poi. Ieri sera, a due passi da qui. Strana storia: un ladro non sarebbe andato proprio in una stanza con la luce accesa (…)
LE VOYEUR
Era come se nessuno avesse sentito.
La sirena lanciò un secondo sibilo, acuto e prolungato, seguito da tre colpi lesti, d’una violenza da bucare i timpani – violenza gratuita e senza esito. Nessuna esclamazione, nessun accenno a indietreggiare, non più della prima volta, sui visi, non un solo tratto aveva tremato. Una serie di sguardi immobili e paralleli, sguardi inquieti, quasi ansiosi, si aprivano un varco – tentavano di aprirsi un varco – lottavano contro quello spazio declinante che ancora li separava dalla meta. Una contro l’altra, le teste erano tutte teste in una posa identica. Un ultimo getto di vapore, denso e muto, tracciò nell’aria che le sovrastava un pennacchio – nemmeno apparso e già svanito. Un po’ in disparte, indietro rispetto al campo appena descritto dal fumo, un viaggiatore rimaneva estraneo a quell’attesa. La sirena non lo aveva strappato alla sua assenza, non più dei suoi vicini alla loro passione. In piedi come loro, corpo e membra rigidi, occhi fissi a terra. Gli avevano spesso raccontato questa storia. Quand’era bambino – venticinque o trent’anni prima – possedeva una grande scatola di cartone, di quelle per le scarpe, dove collezionava pezzi di spago. Non conservava di tutto, non volendo né campioni di qualità inferiore né frammenti troppo rovinati dall’uso, flosci o sfilacciati. Scartava anche i pezzetti troppo corti per poter mai servire a qualcosa d’interessante. Questo qui sarebbe andato a meraviglia. Era una sottile cordicella di canapa, in perfetto stato, accuratamente avvolta a forma di otto, con qualche spira ulteriore attorno alla strozzatura. Avrà avuto una bella lunghezza almeno un metro, se non due. Qualcuno doveva averla lasciata cadere lì inavvertitamente, dopo averne fatto un gomitolo in vista di un uso futuro – o di una collezione. Mathias si chinò per raccoglierla. Rialzandosi, a qualche passo sulla destra, scorse una ragazzina di sette, otto anni che lo fissava seria, con i suoi grandi occhi tranquillamente posati su di lui. Abbozzò un mezzo sorriso, ma lei non si curò di ricambiarglielo e fu solo dopo alcuni secondi che vide le sue pupille scivolare verso il gomitolo di spago che lui teneva in mano, all’altezza del petto. Un esame più minuzioso non lo deluse: era un bel colpo – avvolto con finezza e regolarità, palesemente molto solido, non eccessivamente vistoso. Per un attimo gli parve di riconoscerlo come uno dei suoi oggetti probabilmente smarriti molto tempo prima. Una cordicella del tutto simile aveva dovuto già occupare un posto importante nei suoi pensieri. Si trovava con le altre nella scatole delle scarpe? Il ricordo deviò all’istante verso la luce senza orizzonte di un paesaggio piovoso, dove nessuno spago giocava un ruolo visibile. Non gli restava che infilarselo in tasca. Ma non fece che accennare al gesto indeciso, il braccio ancora piegato a metà, indugiò a scrutare la sua mano. Notò le unghie troppo lunghe, cosa che già sapeva. Constatò pure che, crescendo, avevano preso una forma esageratamente appuntita; ovviamente non era in quel modo che lui le tagliava. La bambina guarda sempre nella sua direzione. Tuttavia era difficile precisare se osservasse proprio lui o qualcosa più in là, o addirittura qualcosa di più indefinito; i suoi occhi sembravano troppo aperti per poter raccogliere un elemento isolato, a meno che non fosse di grandi dimensioni. Frse stava solo guardando il mare. Mathias lasciò cadere il braccio. Le macchine si fermarono d’improvviso. La trepidazione cessò di colpo, e con essa il rumore di fondo che accompagnava il traghetto sin dalla partenza. I passeggeri tacevano tutti, immobili, accalcati all’ingresso della corsia già affollata da dove si sarebbe effettuata l’uscita. Pronti per lo sbarco da interminabili minuti, erano in molti a tenere in mano i bagagli. Avevano tutti il viso rivolto a sinistra e gli occhi fissi sulla parte alta del molo, dove una ventina di persone formavano un gruppo compatto, ugualmente silenzioso e immobile, intento a cercare un viso da riconoscere tra la folla del battello. (…)
TOPOLOGIA DI UNA CITTÁ FANTASMAIncipit
Prima di addormentarmi, ancora una volta, la città (…)
Ma non c’è più niente, né grido, né traffico, né rumore lontano; neppure il minimo contorno percepibile capace di segnalare qualche differenza, un rilievo fra i piani successivi di cioò che qui costituiva case, palazzi, strade. La nebbia che aumenta, più densa di ora in ora, nella sua massa vetrosa ha già sommerso tutto, immobilizzato tutto, spento tutto. Prima di addormentarmi, ancora tenace peraltro, la città morta… Ecco. Sono solo. È tardi. Veglio. Ultima sentinella dopo la pioggia, dopo il fuoco, dopo la guerra, sento ancora attraverso spessori infiniti di ghiaccio bianco gli impercettibili rumori assenti: ultimi crepitii delle mura bruciate, cenere o polvere che scorre in un rivolo sottile da una fessura, acqua che gocciola in fondo a una cantina dalla volta incrinata; una pietra che si stacca sulla facciata sventrata di un edificio monumentale, precipita rimbalzando fra rientranze e cornicioni e rotola a terra in mezzo alle altre pietre. Ma non c’è più niente, né urto, né crepitio, né rumore lontano, neppure il minimo contorno ancora percepibile, prima di addormentarmi. Prima di addormentarmi, la città sorge ancora una volta (…) Prima di addormentarmi, la città, ancora una volta, fa sorgere davanti al mio viso sbiancato, coi lineamenti segnati dal tempo e dalla fatica, fa sorgere altissimi davanti a me, lontanissimi dietro di me, da tutti i lati a perdita d’occhio, lembi di muri anneriti, statue mutilate, ferraglie contorte, colonnati in rovina i cui giganteschi tronchi spezzati giacciono in mezzo ai detriti. Sono solo. Vado avanti a caso. Erro, sempre a caso, fra i frammenti irriconoscibili di quelli che furono dimore principesche, edifici pubblici, palazzi, case da gioco o di piacere, teatri, tempi e fontane. Cerco qualcosa. Comincia a far notte. Non mi ricordo bene cos’era. Si trattava proprio di una prigione? Mi sembra improbabile. Però, è proprio di fronte a questo edificio caratteristico, dalle forme massicce, apparentemente quasi intatto, grazie forse allo spessore dei suoi muri sprovvisti o quasi d’aperture, che mi fermo ora. Sul marciapiede largo e deserto che fiancheggiava l’altissima parete di pietre a vista, c’era una fila di vecchi alberi, degli ippocastani, mi pare. La finestra della camera dava su questa strada tranquilla, proprio di fronte al penitenziario (…)
NEL LABIRINTO
Questa è una storia inventata, non una testimonianza. Descrivere una realtà che non è necessariamente quella che il lettore conosce per esperienza propria. Così, nell’esercito francese, i soldati di fanteria non portano il numero di matricola nei risvolti del pastrano. Né la storia recente dell’Europa occidentale sa di alcuna battaglia importante avvenuta a Reichenfels o nelle vicinanze. Si tratta, tuttavia, d’una realtà strettamente materiale, nel senso che non ha pretese allegoriche di sorta. Il lettore è dunque invitato a vedervi soltanto le cose –gesti, parole, avvenimenti – che gli vengono riferite, senza cercarvi più significato o meno che nella propria vita, o nella propria morte.
A.R.-G.
Io qui sono solo, adesso, bene al riparo. Fuori piove, fuori la gente cammina sotto la pioggia a testa bassa, riparandosi gli occhi con la mano, vedendo appena davanti a sé, qualche metro davanti a sé, qualche metro d’asfalto bagnato; fuori fa freddo, il vento soffia tra i rami neri, spogli; il vento soffia tra le foglie, trascinando i rami interi in un’altalena, un’altalena, altalena, che l’ombra ripete sull’intonaco bianco dei muri. Fuori c’è il sole, non c’è ombra d’alberi, né d’arbusti, e la gente cammina in pieno riverbero, riparandosi gli occhi con la mano, vedendo appena davanti a sé, qualche metro davanti a sé, qualche metro d’asfalto polveroso dove il vento disegna parallele, frecce, spirali. Qui il sole non entra, né il vento, né la pioggia, né la polvere. La polvere fine che vela le superfici levigate orizzontali, dal legno lucidato del tavolo all’impianto tirato a cerca, al marmo del caminetto, a quello del cassettone, al marmo incrinato del cassettone, questa polvere viene dalla stanza stessa: dalle fessure dell’impiantito, forse, o dal letto, o dalle tende, o dalla cenere del caminetto. Sul legno lucidato del tavolo, la polvere ha segnato il posto occupato per qualche tempo – per qualche ora, giorno minuto, settimana – da oggetti diversi, poi spostati, la cui base resta così iscritta ancora per qualche tempo: un tondo, un quadrato, un rettangolo, altre forme meno semplici, alcune parzialmente sovrapposte, già meno nette, o semicancellate come da un colpo di straccio. Quando la forma è precisa abbastanza da lasciarsi identificare con certezza, è facile ritrovate l’oggetto corrispondente, non lontano di lì. Così, la traccia circolare è stata visibilmente lasciata da un portacenere di vetro, posato giusto accanto. E poco più in là, il quadrato che occupa un angolo del tavolo, avanti e a sinistra, corrisponde alla base di una lampada d’ottone che si trova ora nell’angolo opposto: uno zoccolo quadrato, alto circa due centimetri, sormontato da un disco dello stesso spessore che porta al centro una colonnina scannellata. Il paralume proietta sul soffitto un cerchio di luce. Il cerchio tuttavia non è intero, ma tagliato sul bordo, al limite del soffitto, dal piano verticale della parete situata dietro il tavolo. Questa parete, invece che dalla carta da parati che ricopre interamente le altre tre, è nascosta da cima a fondo, e per la più gran parte della sua larghezza, da pesanti tende rosse, d’un tessuto spesso e vellutato. Fuori nevica. Il vento spinge sull’asfalto scuro i fini cristalli asciutti, che si posano, dopo ogni raffica, in un bianco disegno di parallele, frecce, spirali, subito spazzato il disegno, subito ripresa la neve nei mulinelli sospinti rasoterra, poi di nuovo fermata a tracciare altre spirali, volute, intrecci, mobili arabeschi subito dispersi. Si cammina chinando la testa ancora di più, e la mano premuta più forte contro la fronte, a riparo dagli occhi, no lascia vedere più in là di qualche centimetro davanti ai piedi: qualche centimetro di grisaglia dove i piedi, l’uno dopo l’altro, alternamente compaiono e restano indietro (…)
L’anno scorso a Marienbad
L’ANNO SCORSO A MARIENBAD – CINÉROMAN
(…)
VOCE DI X …dove i passi di chi viene avanti sono assorbiti da tappeti così pesanti, così spessi, che nessun rumore di passi perviene neppure al suo orecchio, come se l’orecchio stesso di chi viene avanti, una volta ancora, lungo questi corridoi, – attraverso questi saloni, queste gallerie, in questa costruzione d’un altro secolo, questo albergo immenso, lussuoso, barocco, – lugubre, dove corridoi interminabili si susseguono ai corridoi, – silenziosi, deserti, sovraccarichi d’una decorazione cupa e fredda di rivestimenti di legno, di stucchi, di pannelli lavorati, – marmi, specchi neri, quadri dalle tinte nere, colonne, pesanti tendaggi, – incorniciature scolpite delle porte, fughe di porte, di gallerie, di corridoi trasversali, – che sboccano a loro volta in saloni deserti, saloni sovraccarichi d’una decorazione d’un altro secolo, – sale silenziose dove i passi di chi viene avanti sono assorbiti da tappeti così pesanti, così spessi, che nessun rumore di passi perviene neppure al suo orecchio, – come se l’orecchio stesso fosse lontanissimo, lontanissimo da terra, dai tappeti, lontanissimo da questo ambiente pesante e vuoto, lontanissimo da questo frego complicato che corre lungo il soffitto con i suoi rami e le sue ghirlande, come di fronte antiche, come se il suolo fosse ancora di sabbia o di ghiaia…
L’ATTORE …per sempre – in un passato marmoreo, come queste statue, questo giardino squadrato nel sasso, – questo stesso albergo, con le sue sale ormai deserte, i suoi domestici immobili, muti, morti probabilmente da tanto, che montano ancora la guardia all’angolo dei corridoi, lungo le gallerie, nelle sale deserte, attraverso cui andavo avanti per venirvi incontro, sulla soglia di porte spalancate, che oltrepassavo una dopo l’altra per venirvi incontro, come se passassi tra due ali di volti immobili, statici, attenti, indifferenti, mentre già io vi attendevo, da sempre, e vi attendo ancora, piena ancora forse di esitazione, guardando sempre la soglia di questo giardino…
UOMO Allora ascoltate i miei lamenti. Non posso più sopportare questa parte. Non posso più sopportare questo silenzio, queste pareti, questi bisbigli in cui voi mi confinate…
DONNA Vi scongiuro, parlate più piano.
UOMO Questi bisbigli, peggio del silenzio, in cui mi confinate. Queste giornate, peggio della morte, che viviamo qui, a fianco a fianco, voi ed io, come due bare messe a fianco a fianco sotto la terra d’un giardino staticizzato anch’esso…
VOCE DI X La prima volta che vi ho vista, era nei giardini di Frederiksbad…
Breve pausa, la voce riprende, sempre altrettanto vicina, ma un po’ più forte:
VOCE DI X Eravate sola, un po’ discosta dagli altri, in piedi contro una balaustra di pietra sulla quale poggiava la vostra mano, il braccio semiteso,. Eravate rivolta, un po’ di lato, verso il grande viale centrale, e non mi avete visto arrivare. Solo il rumore dei miei passi sulla ghiaia ha finito per attirare la vostra attenzione e avete voltato la testa.
Poiché A è rimasta ferma, e mostra il viso di fronte, la macchina si è avanzata verso di lei, molto lentamente, con regolarità. I lineamenti di A, che avevano espresso una certa tensione al momento del colpo di pistola lontano, sono poi tornati perfettamente calmi. (…) Poi il viso di A si muove lievemente, la testa si china un po’ e un sorriso le si amplia sulla bocca e sugli occhi. Finisce per sorridere completamente con una specie di cortesia distante, e dice:
A Non credo si trattasse di me. Dovete sbagliare (…)

Catherine Jourdan, Marie-France Pisier, Jean-Louis Trintignant e Alain Robbe-Grillet