INCONTRO CON JACO VAN DORMAEL di Luisa Ceretto

Abbiamo incontrato Jaco Van Dormael in occasione della presentazione in Italia del film Dio esiste e vive a Bruxelles.

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Si può dire che sin dai suoi primi lavori, poi col suo esordio nel lungometraggio, Toto le héros, proseguendo fino al più recente Dio esiste e vive a Bruxelles, ciascun film costituisca un’occasione di riflessione sul linguaggio cinematografico e le sue potenzialità. Ci può dire qualcosa al riguardo?

Il cinema è infinito, lo è il medium in se stesso. Ciascun regista può scegliere se seguire la via intrapresa dai fratelli Lumière, da Louis e Auguste o quella di Georges Méliès, ovvero, tra chi dice questa è la realtà, io la posso ricreare e vi prego di credere che sia vera – il treno entra per davvero alla stazione (in L’arrivée du train à la gare de La Ciotat, ndr) –  e chi, invece, è il caso di Méliès, suggerisce di non credergli, che non si tratta della realtà e che ci si trova, piuttosto, in un mondo immaginario, nel pensiero, nell’immaginazione. Io credo però che ci sia una terza via possibile, in cui si possa parlare di percezione e non della realtà. In effetti, cosa sappiamo del reale? Il mio cane, ad esempio, sente dei suoni che io non riesco ad udire, se vedo un film, la persona che è seduta al mio fianco, vedrà qualcos’altro. Ciò che chiamiamo realtà, in genere, corrisponde alla fiducia che diamo ai nostri sensi, ma a tutti gli effetti cosa ne sappiamo? Mi sembra interessante parlare della percezione perché significa parlare del pensiero e dei suoi meccanismi, dell’immagine che ci si fa dell’esperienza di essere in vita. Secondo me ciascun film è un’ipotesi di vita, un film mostra come potrebbe essere, ad esempio, se fossi nato in Uzbekistan, la vita potrebbe essere così, se fossi nato in Canada, potrebbe essere in quest’altro  modo, e ancora, se fossi nato nel Medioevo, potrebbe essere diversamente. Penso che i film allarghino un po’ il campo delle possibilità che abbiamo e poi ci sono anche film che invece semplificano, e altri che invece pongono interrogativi. Personalmente posso dire che preferisco le domande alle risposte, credo che il cinema possa parlare della complessità, che non sia soltanto semplificatore e possa, invece, se non dare risposte a quesiti complessi, tenere presente che la complessità fa parte del nostro mondo.

Presentato alla sessantaseiesima Mostra di Venezia (2009), Mr Nobody è il suo terzo lungometraggio. Ci può raccontare com’ è nata l’idea del film?

C’è un momento in cui nel proprio percorso esistenziale ci si chiede cosa sarebbe successo se non si fosse fatto questo o quell’altro. Esistevano già dei film binari, con due possibili sviluppi, io stesso  avevo  realizzato un cortometraggio, nel 1984, su due esistenze possibili di un ragazzino che corre dietro ad un treno. Più in generale, ripensandoci, riflettevo sul fatto che, a tutti gli effetti, nell’esperienza non sono solo due le possibilità che abbiamo, ma un numero infinito di biforcazioni. E ancora, mi ponevo la domanda di cosa fosse una scelta, non si sa mai quel che può succedere e in cosa risieda la libertà di una scelta, se non si conoscono le ragioni di quella determinata scelta. Si dice che si fa liberamente una scelta, ma in cosa consiste questa libertà, quali sono gli elementi di questa scelta, libera? Poi anche sulle strutture del racconto, sin dai miei primi film avevo voglia di creare storie che prendessero il via per procedere in qualche direzione, anche se si trattava di costruzioni che non erano nuove, ma forse un po’ più audaci, più complesse. Ma qui (in Mr Nobody, ndr) volevo sperimentare tutto quel che non funziona, quando si dice che  se si seguono determinate regole e percorsi, non potrà funzionare nulla. Mi interessava avere, essenzialmente, una struttura che non fosse convergente, ma fosse come un’arborescenza, una struttura che mi pareva corrispondere maggiormente all’esperienza dell’essere in vita, di elementi che vanno in tutti i sensi. Una delle cose che amo di più nella vita è scrivere storie, storie in cui tutto sia convergente, dove tutte le scene siano indispensabili, in cui le cause-effetto siano chiare, e ciò che succede sia piuttosto limpido e lo sia il finale.

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Mr. Nobody

Nella mia vita ho l’impressione che le scene causa-effetto io non le capisca e che le più belle siano talvolta quelle più inutili e che il finale non darà necessariamente un senso a tutto quello che è successo prima. Mi sono chiesto come riuscire a parlare dell’esperienza di essere in vita, di un’esperienza che è piuttosto decostruita, con una infinità di possibilità, appunto, attraverso un medium che spesso semplifica. E la sfida, era quella di riuscire a far rientrare tutto questo nel medium del cinema.

Una sfida non certo facile sul piano stilistico. Del resto, anche sul piano fruitivo, per la struttura narrativa da lei individuata, il film si presta a svariate letture…

Credo non sia tanto una questione di difficoltà, quanto che possa prendere del tempo, occorre cercare di prendere il massimo della libertà possibile, facendo in modo che la narrazione nel cinema riesca ad avere la stessa libertà che ha nella letteratura. Come, ad esempio, nella letteratura si riesce a farsi trasportare da qualcosa di sensuale, nei colori, nei suoni che fa si che si riesca a passare ad altro, da una scena ad un’altra semplicemente per associazione e come, invece, il cinema possa riuscire a riprodurre dei meccanismi di pensiero, invece di cercare di riprodurre la realtà. Ho cercato di fare in modo che nel film ci fossero livelli differenti di lettura, che una parte potesse essere percepita col cervello, che potesse essere o meno decodificata, il cervello può svolgere tutto il lavoro di comprensione, può essere una storia che invece raggiunge il cuore, che possa essere letta unicamente come una storia d’amore, ma anche una storia che si rivolga soltanto alla pelle, che riguardi la sensorialità, i colori, la consistenza, la pelle. E si può fare, al contempo, un film polifonico che si rivolge contemporaneamente al cervello, al cuore, alla pelle, e ogni spettatore, potrà districarsi tra questi diversi tipi di percezione. Ciò che più mi interessa è la percezione.

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In Mr Nobody il tempo costituisce l’ossatura stessa della costruzione narrativa oltre ad essere uno tra i temi portanti. Cosa può dire in proposito?

Il tempo è una delle materie della nostra esperienza dell’essere in vita, perché è finito, c’è il tempo fisico, che passa, poi c’è quello percepito, un anno può essere percepito come un minuto o al contrario, un minuto può essere percepito come un anno, e il tempo della memoria, dove anche in quella dimensione le cose non sono mai le stesse. Amo molto la frase di Kundera che diceva, “abbiamo la certezza che tutto sarà riparato e non dimenticato, anche se in realtà nulla sarà riparato e sarà tutto dimenticato”. E il tempo ha a che fare con l’oblio, in qualche modo. Un po’ in tutti i miei film, in Toto le héros come in Mr Nobody il fatto che il bambino, l’adulto e l’anziano non siano gli stessi, siano personaggi che possono essere anche molto differenti tra loro, sta proprio a significare che spesso la vita non assomiglia a quel che si poteva immaginare da piccoli e che il ricordo che si ha dell’infanzia è confuso. Ad esempio in Mr Nobody c’è come uno sguardo incrociato tra il ragazzo, quando immagina il proprio avvenire e l’anziano che cerca di ricordarsi la propria infanzia, ma si tratta di ricordi confusi rispetto a un flashforward immaginario. Il tempo è  anche la materia dell’oblio e al contempo è la sola ricchezza che abbiamo,  è il solo tesoro ma è anche quello che può far scomparire tutto.

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Chi è Mr Nobody? Si può dire che il film per le tematiche affrontate, abbia qualche attinenza, un rimando diretto al presente e possa costituire, in un certo senso, anche una riflessione sulla società contemporanea?

Mr Nobody è, per citare Pirandello, Uno, nessuno, centomila. Il film costituisce un’esperienza piuttosto personale, è politico unicamente per il fatto che, come è stato detto, è importante per gli artisti ricordare che il mondo è complesso, che le questioni complesse non hanno risposte semplici e che bisogna lasciare le risposte semplici ai politici e alla pubblicità. Ed effettivamente il bisogno che ciascuno di noi può avere di ottenere risposte semplici, che sia sul piano religioso, politico, economico, che si tratti di un sistema semplice ma che funziona, è una risposta che vale fino ad un certo punto.

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E invece una sua riflessione sull’Europa e in particolare sul suo paese d’origine?

Il Belgio, da questo punto di vista, è un Paese molto complesso. Se dovessimo comparare la complessità del Belgio rispetto a Mr Nobody, direi che il film sia estremamente semplice. Una delle frasi che vengono spesso dette a proposito del Belgio è: se si ha l’impressione di aver capito bene cosa sia il Belgio, è perché è stato spiegato male. Forse è per questo che ci è voluto così tanto tempo per fare un governo, perché al Nord c’è una forte componente di estrema destra, se le persone votano per soluzioni semplificatrici che sono quelle suggerite dall’estrema destra, appunto, e che dall’altro lato, il Paese ha una vocazione piuttosto socialista, si può facilmente immaginare che lavorare insieme non sia certo semplice.

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Quanto all’Europa, ho l’impressione che, beh, io faccio dei film perché penso che la gente non sia molto diversa da un lato all’altro della frontiera. Ad esempio se pensiamo al Bangladesh, l’ottanta per cento delle esportazioni è nel tessile, gli abiti che indossiamo, la ricchezza che abbiamo proviene dal fatto che paghiamo cinque euro per una t-shirt e una persona è pagata un euro al giorno per il suo lavoro. Se dal Bangladesh qualcuno venisse qui si dice loro che non possiamo farci carico della povertà del mondo, si prende un aereo e lo si rimanda a casa… è una specie di, come una descrizione del Capitale di Karl Marx ma su scala molto più grande. Ma il fatto che certe realtà siano così lontane  rispetto a noi, ci fa pensare che si sia in un sistema economico che funziona bene, ma non lo è affatto. Siamo in un sistema economico che ruba, il sistema del profitto, che non potrà funzionare a lungo termine. D’un tratto ciascuno si protegge, protegge le proprie frontiere, i propri possedimenti, ma è uno stato di squilibro, fino a quando in Bangladesh non si vivrà come qui, noi con un po’ di meno, loro, con un po’ di più, solo in quel momento non ci sarà più la necessità di mettere delle frontiere.

A proposito di Dio esiste e vive a Bruxelles, come ha avuto l’idea di un film ispirato ad una rilettura del Nuovo Testamento?

Io e l’altro autore, Thomas Gunzig, siamo partiti dall’idea che Dio esista, Thomas è uno scrittore eccezionale, durante la scrittura del film, ci incontravamo ogni pomeriggio e ognuno cercava di far ridere l’altro. E se Dio fosse un bastardo? In più, e se oltre a un figlio avesse anche una figlia di cui nessuno conosceva l’esistenza? E se lei avesse dieci anni e Dio, suo padre, fosse così odioso che lei si vendica di lui rivelando a tutti gli abitanti del pianeta via sms il suo segreto più gelosamente custodito, ovvero la data della loro morte? Da lì in poi, qualunque riferimento alla religione si trasforma in una favola surrealista. Non sono credente, ma sono stato cresciuto secondo i dettami del cattolicesimo. Sono interessato alle religioni così come alle belle storie.

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Dio esiste e vive a Bruxelles

Volevo un personaggio in rivolta e allora ho pensato ad una ragazzina. Memore della lezione hitchcockiana,  che per fare un buon film bisogna avere un buon cattivo, ecco quindi l’idea che questa ragazzina elabori la propria vendetta nei confronti del padre in maniera esemplare. E qui entra in gioco il vero tema del film. Cosa ne facciamo di questa vita quando sappiamo che gli attimi sono contati? È a quel punto che il vero soggetto ha inizio. Non sapere la data della propria morte forse significa che abbiamo la tendenza a dimenticarcene, sentendoci immortali. Finché, cioè, la minaccia della morte non risveglia il nostro piacere per la vita. Questo è ciò che avviene ai miei personaggi quando ricevono quel  nefasto messaggio. Alcuni fanno cambiamenti radicali, altri non vogliono saperlo. Non ha più alcun senso cercare di eliminare un nemico perché ciò non cambierà la data in cui egli morirà. Qualsiasi tentativo di ucciderlo fallirà sempre. Citerò nuovamente Milan Kundera, in Lo scherzo, usa un’espressione che amo particolarmente: “Il ruolo della rivincita verrà sostituito dall’oblio.”

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La componente musicale, come del resto anche nei suoi precedenti lavori, sembra essere un elemento importante, ce ne vuole parlare?

Volevo fare un film musicale, è la prima volta che la compositrice e musicista fiamminga An Pierlé realizza la musica per un film. Mi piace la sua musica e le ho chiesto di scrivere qualche brano semplice, soprattutto con il pianoforte, per creare un contrasto con la musica barocca e i brani d’opera, di cui il suo lavoro è in un certo senso una continuazione. An era un’attrice, quindi conosce la recitazione e sa esattamente come comporre la musica interiore del personaggio. Ogni personaggio ha la sua musica, ad esempio i sei nuovi apostoli (reclutati dalla giovane protagonista, ndr) sono figure di grandi perdenti nella vita, che non si aspettano più nulla da essa, persuasi che non possano più attendersi né l’amore, tanto meno la felicità. Questa musica interiore rivela, invece, la loro bellezza interiore, sono persone che se si incontrassero per strada non si noterebbero neppure ma la loro musica interiore (Händel per Aurélie, Rameau per Jean-Claude, Purcell per Marc, e così via…), arie barocche, di opera lirica, dimostra che sono personaggi magnifici.

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Toto le héros

Parte di questa musica è stata ampiamente dimenticata, oppure non va più di moda, e non viene ascoltata spesso. Comunque ritengo che la musica interiore sia importante ed esiste nei film, non so se invece esista nella vita reale.

Nel suo film lo spazio urbano ha un ruolo importante…

Volevo mostrare la città in cui vivo, usando i luoghi che attraverso ogni giorno, sentendo il suo mix di accenti: quello di Bruxelles, quello vallone, quello fiammingo, francese  e lussemburghese. Volevo che il Dio del mio film esistesse in uno spazio tangibile, una città perennemente in costruzione dove non funziona niente, un luogo così orribile da diventare bellissimo.

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Dio esiste e vive a Bruxelles