Nei suoi film ha affrontato più volte il tema della seconda guerra mondiale e della Resistenza, con pellicole come Tiro al piccione, L’Agnese va a morire, Gli occhiali d’oro e ancora come Gott mit uns (Dio è con noi), e recentemente ha interpretato in Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni, il ruolo di un poeta i cui ricordi più vividi rimandano a quell’epoca. Del resto, i suoi primi passi nel mondo del cinema erano stati come attore in un caposaldo della filmografia sulla Resistenza, si può dire che per lei quel periodo storico costituisca un tracciato familiare. In Italia la Storia, a differenza di altri paesi, come ad esempio la Gran Bretagna, resta una materia piuttosto marginale, qual è la sua opinione in merito?
Devo dire la verità, quando ho cominciato a lavorare, pensi, avevo vent’anni, era il 1950, sono quasi settant’anni di cinema, il tema della Resistenza costituiva già allora un capitolo chiuso. Tanto è vero che per il film di Carlo Lizzani, Achtung Banditi! ambientato a Genova, nelle alture liguri dove si era combattuta la Resistenza, il suo esordio, del resto lo era anche il mio, come attore (nei panni del commissario Lorenzo, ndr), non si riusciva a trovare né un distributore, né un produttore, tanto meno un finanziamento. E allora, la cosa meravigliosa fu che addirittura, ma che purtroppo non è mai più accaduta, si pensò ad una sottoscrizione popolare per riuscire a fare il film.

Giuliano Montaldo e Carlo Lizzani
E Acthung Banditi! si fece, malgrado molte difficoltà economiche, io, come tanti altri, ho partecipato alla lavorazione del film gratuitamente. E da Roma arrivarono Gina Lollobrigida, Andrea Checchi, Lamberto Angiolani, il direttore della fotografia Gianni Di Venanzo, ai suoi esordi, e poi Carlo Di Palma come operatore, che in seguito divenne un grande direttore della fotografia. Si era in pochi ma bravissimi e riuscimmo a realizzarlo. Perché Roma, e quindi il Ministero, aveva detto di no, come dice un famoso proverbio, “i panni sporchi si lavano in famiglia ”, quel film non si doveva fare e anche la Cooperativa (CSPC, Cooperativa Spettatori Produttori Cinematografici, ndr) (1), nata in supporto alla produzione della pellicola venne messa in difficoltà. Infatti con la produzione del secondo film di Lizzani, Cronache di poveri amanti, la Cooperativa ebbe problemi di esportazione e dovette chiudere i battenti. Era questo il clima che si respirava…
La smemoratezza di cui è sofferente il personaggio da lei interpretato nel film di Bruni, è accompagnata al contrario dall’incancellabile ricordo del proprio passato. Si può dire anzi che il suo poeta rappresenti rispetto all’orizzonte buio dei giovani protagonisti, una luce che schiude in loro, seppur momentaneamente, lo sguardo verso la storia. Cosa può dire invece sulla smemoratezza che affligge da sempre e soprattutto oggi l’Italia? Un Paese dovrebbe avere a cuore la propria memoria storica…

Tiro al piccione (1961)
Un conto è celebrare le vittorie e un conto sono, invece, le sconfitte. Perché l’Italia nel 1943 è un Paese diviso a metà e con la fuga del re, certamente un momento molto difficile. Io ho cercato di raccontarlo attraverso il libro biografico di Giorgio Rimanelli, in Tiro al piccione, la vicenda di un ragazzo che, convinto che l’Italia dovesse rimanere in guerra dalla parte giusta, ossia dalla parte della Repubblica Sociale, si arruola volontario nell’esercito, per poi scoprire che la posizione del Paese era dall’altra parte e non più da quella in cui credeva lui. Presentato alla Mostra di Venezia (2), Tiro al piccione era il primo film che raccontava di questa tragica avventura, non è stato accolto bene dalla critica, era visto con odio dalla destra e con sospetto dalla sinistra, ciò che si metteva in dubbio era la necessità di dover ancora raccontare quella vicenda storica.
Lei ha accennato poc’anzi alle vicissitudini produttive che hanno accompagnato la lavorazione dell’esordio di Carlo Lizzani. Rispetto alla sua filmografia ha incontrato spesso difficoltà a livello produttivo, e quanto hanno inciso sulle sue scelte?
Per fortuna Tiro al piccione era andato bene col pubblico e la morale è che, ancora una volta, si sopporta tutto quando si ha voglia di combattere. Dopo le mie prime regie, sono andato negli Stati Uniti dove ho girato Ad ogni costo (1967) e Gli Intoccabili (1969), che sono stati buoni incassi e mi hanno dato la forza per potermi finalmente dedicare a ciò che più mi premeva e avevo in mente, raccontare la mia sofferenza per l’intolleranza, e mi riferisco a Sacco e Vanzetti, Giordano Bruno e a Gott mit uns, film sul potere laicale, religioso e militare.

Gott mit uns
Volevo raccontare che l’intolleranza è il peggiore dei mali, quello che fa nascere la violenza che conosciamo, l’odio o il rancore, e l’ho potuto fare, ma con fatica. Credevo che avendo realizzato film di successo, andati bene in America, fosse sufficiente per aprirmi le porte, ma invece mi venivano proposti soggetti molto più leggeri rispetto a Sacco e Vanzetti, però, ho lottato…
Il film è stato da poco restaurato e presentato nelle sale cinematografiche, tra l’altro un documentario, La morte legale (3), ne ricostruisce la lavorazione. Anche a distanza di decenni, Sacco e Vanzetti mantiene intatta la sua forza espressiva ed attualità. Com’è nata l’idea?
L’avventura nasce così, avevo visto una pièce a Genova nella zona portuale dei cantieri navali di Sampierdarena, sulla vicenda di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, e rimasi stupefatto, a bocca aperta, non ne sapevo nulla. Nelle scuole non se ne parlava, allora ero giovane e determinato a saperne di più. In Italia non ne era giunta notizia, c’era il fascismo quando Sacco e Vanzetti sono stati condannati sulla sedia elettrica (esecuzione avvenuta il 23 agosto 1927, ndr), eppure, come ebbi modo di scoprire, c’erano state manifestazioni in tutto il mondo. E allora, una volta tornato a Roma, mi misi a cercare anche tra i miei volumi di casa, ma non riuscivo a trovare nulla. Trovai un amico meraviglioso, Fabrizio Onofri, uno storico e studioso che aveva del materiale e cominciò a raccontarmi la vicenda. A quel punto decisi di partire per l’America, per andare a reperire documenti, materiali, testimonianze di chi allora era giovanissimo, qualcuno che avesse preso parte al Comitato di difesa. E così facendo, raccolsi tanto materiale da portare a Roma. Cominciammo a lavorare, Onofri fu un collaboratore stupendo e riuscimmo in tal modo a completare la sceneggiatura. Ma era necessario trovare un produttore disposto a investire. Perché come lei saprà in America è tutto nuovo, non si trova neppure un mattone del 1920, di quell’epoca. Come si fa a trovare l’America di quegli anni e dove? Non si poteva certo ricostruire tutto, sarebbe costato una fortuna. Beh, colpo di scena, sapevamo che Boston era stata costruita dagli irlandesi, quindi decidemmo di andare in Irlanda, a Dublino, dove abbiamo visto dei posti che potevano risalire a quel periodo storico, abbiamo scattato delle fotografie. Le ho fatte vedere in seguito ad un taxista di Boston per capire se potessero rimandare alla vecchia Boston… Nessuno poi ha contestato per l’ambientazione, abbiamo avuto fortuna. Oltre che in Irlanda, abbiamo girato in Jugoslavia e a Roma, dove abbiamo ricostruito l’aula del dibattito di tutto il processo, è stato faticoso ma ce l’abbiamo fatta. Ma il colpo di scena più eclatante è stato quello di quando mi sono rivolto ai produttori, Arrigo Colombo e Giorgio Papi (Jolly Film, ndr) che, quando siamo andati per parlare del nostro progetto, erano molto impegnati su più progetti. Erano tra gli altri, i produttori di Sergio Leone, io mi ero rivolto a loro, quasi all’ultimo momento e col cappello in mano. E quando ho parlato del soggetto di Sacco e Vanzetti, ho appurato che Arrigo Colombo non era a digiuno della notizia come invece lo ero io, al contrario, ne era ben al corrente. E poi scoprii che lui, ebreo, era fuggito dall’Italia delle leggi razziali istituite nel 1938, e che imparò l’inglese dagli italiani in America, quindi era uno che sapeva tutto, aveva letto le lettere di Bartolomeo Vanzetti al Comitato di difesa. E mi disse, proviamoci! Sì, mi ci sono voluti due anni e mezzo per riuscire a realizzare Sacco e Vanzetti ma ne è valsa la pena, perché il film continua a vivere e ad essere visto. Mi chiamano anche per le scuole e mi fa molto piacere, perché i ragazzi sono interessati a questo tipo di scoperte. Il film funziona ancora bene come del resto anche Giordano Bruno suscita un dibattito molto serio, intenso.
A fare da sfondo alla vicenda narrata in Sacco e Vanzetti è un’America intollerante verso gli italiani…
Gli italiani hanno avuto una vita difficilissima negli Stati Uniti. Ellis Island rappresentava lo scoglio, faceva paura perché era dove, con un pretesto come una malattia, per esempio, si poteva essere rimandati indietro, era un brutto posto. Da quel luogo si poteva vedere, e lo si può tutt’ora, la statua della Libertà, da un lato c’era la libertà, ma dall’altra c’era il rischio di dover tornare indietro, a casa. Comunque sono partiti milioni di persone dall’Italia per andare nel Nordeuropea, nel Sud e nel Nord dell’America, in tutto il mondo, non dobbiamo dimenticarlo.
A proposito ancora di Sacco e Vanzetti e di Giordano Bruno, Gian Maria Volonté ha avuto un ruolo fondamentale nel dare corpo ai personaggi, rispettivamente di Bartolomeo Vanzetti e del filosofo domenicano. Cosa ci può dire di uno degli attori forse più talentuosi, la cui carriera artistica si è legata a molto cinema impegnato nostrano?

Sacco e Vanzetti
Gian Maria è un personaggio indimenticabile e inimitabile. Perché lui viveva il proprio personaggio durante tutta la lavorazione del film, anche fuori scena, di notte, diventava il personaggio. Non posso dimenticare quando Gian Maria stava studiando il copione per Giordano Bruno, era molto impegnato, aveva annotato le sue battute su un quaderno con dei segni, delle sue annotazioni. Andai a trovarlo a Fregene e lui volle recitarmi un po’ di frammenti importanti. Io gli dissi che era sulla buona strada e che lo ringraziavo del lavoro. Ma mi disse di aspettare un attimo. Le stesse frasi me le recitò con un leggero, ma preciso, accento nolano… “hai capito, hai capito, Santità? Pensavo di venire qua da voi…” Mamma mia, mi sono trovato davanti, improvvisamente, Giordano Bruno! Fu incredibile e lo fu anche per tutta la lavorazione del film, e anche un grande amico. Che poi, anche per Sacco e Vanzetti vi fu una immedesimazione totale nel personaggio. Non va dimenticato che la detenzione e i processi durarono sette anni e, mentre Bartolomeo Vanzetti era un uomo libero, senza legami affettivi, il povero Sacco, aveva invece moglie e figli, era un uomo del Sud, legato alla famiglia e quindi molto più vulnerabile. Vanzetti era molto attento e premuroso verso Sacco e nel recitare nei panni di Vanzetti, Volonté ne aveva mutuato l’atteggiamento. E a sua volta, Gian Maria, in quel ruolo, era molto attento verso l’attore che interpretava Nicola Sacco, Riccardo Cucciolla, anche fuori dal set, gli chiedeva sempre se avesse sete, fame, se avesse freddo, se fosse stanco. Vivere così un personaggio rendeva Gian Maria, come ho detto, incredibile. Che poi quando interpretava personaggi negativi e nella sua filmografia non ne mancano, poteva divenire un personaggio veramente negativo.

Philippe Noiret ne Gli occhiali d’oro (1987)
Oltre che con Gian Maria Volonté ha lavorato con una moltitudine di attori italiani e stranieri di grande livello tra cui John Cassavetes, Ingrid Thulin, Edward G. Robinson, Janet Leigh, Klaus Kinski, Ann Bancroft, Philippe Noiret… Tra le peculiarità delle sue regie vi è sempre grande attenzione per la direzione degli attori…
Ho sempre avuto grande ammirazione per gli attori, so cosa vuol dire fare una scena, e poi rifarla altre volte, la tensione e la necessità di ricaricarsi per la scena clou, il riuscire a trovare la giusta tonalità. So bene cosa vuol dire fare il mestiere dell’attore.
In Italia la censura non ha sempre facilitato il percorso registico e al contempo anche certa critica cinematografica non ha accolto favorevolmente o sostenuto i propri autori, come invece è accaduto, ad esempio, nella vicina Francia, mi riferisco soprattutto agli anni cosiddetti d’oro del cinema italiano, della stagione sul finire degli anni cinquanta, sessanta…

C. Lizzani, G. Montaldo e F. Fellini
A proposito di censura, pensi che un film di Mario Monicelli fu addirittura censurato (Totò e Carolina, 1955, ndr) (4), tagliato più volte, è assurdo. Ma in verità il cinema italiano ha vinto, anche nei momenti di crisi ce l’ha fatta, grazie ai nostri autori e ai nostri attori, è riuscito ad uscire da certi labirinti, perché anche i divieti sono stati superati con la grinta di certi registi. E poi dobbiamo ringraziare i martiri della qualità, quelli che coi loro film ottenevano un pallino come valutazione critica ma riempivano le tasche dei produttori di denaro che, a loro volta, erano poi invogliati a chiamare Fellini o altri autori per produrre un bel film e avere qualche soddisfazione. Era un cinema a pugno chiuso, eravamo tutti piuttosto uniti, molti vicini, adesso invece è tutto un po’ più sparpagliato. Ci sono film che hanno fatto anche buoni incassi, come ad esempio i film di Monicelli, di Scola, per non parlare degli sceneggiatori come Age & Scarpelli, Ennio Flaiano, Leonardo Benvenuti, De Bernardi e ancora tanti altri nomi, erano questi gli sceneggiatori che, essendo amici, discutevano, litigavano, eravamo tutti fratelli. È stata una stagione dove si sono fatti film meravigliosi e anche graffianti, potrei citare titoli come La grande guerra di Mario Monicelli o le pellicole di Ettore Scola, c’è sempre dentro un discorso importante, si ride ma si riflette anche. Questo cinema, malgrado le difficoltà, è sopravvissuto.
L’avvento del digitale ha certamente rivoluzionato il modo di fare cinema, ha impresso un cambiamento importante, rispetto al relativo processo creativo, qual è la sua opinione, rispetto anche alla produzione cinematografica odierna? Lei, tra l’altro, è stato di recente presidente del Premio David di Donatello, quindi ha avuto modo di vedere molti film ed entrare in contatto con personalità emergenti della cinematografia nostrana…

Sul set de L’industriale (2011)
Quando sono arrivato negli anni cinquanta a Roma non c’era la pubblicità, non c’era la televisione, i documentari li facevano solo grandi registi affermati come Gillo Pontecorvo, Michelangelo Antonioni, Florestano Vancini. E quindi per gli altri, cosa rimaneva? Ci si doveva arrangiare, si poteva fare l’aiuto regista, lavorare in televisione, oppure trovare piccole parti se si era attori, per sopravvivere, non c’era altro. Ora il problema è la tecnologia moderna, la gratuità della fruizione, ma anche la televisione. Ci sono dei giovani registi e sono anche bravi, alcuni usciti dal Centro Sperimentale, ma vanno messi nelle condizioni di poter lavorare. Infatti ora i film si girano col telefonino, si scrivono le sceneggiature al computer, tu e il computer, i produttori non finanziano più le sceneggiature. È cambiato il mondo, la pellicola non c’è più, ci sono tanti film ma è difficile vederli, spesso non escono neppure, c’è una sovrapproduzione. E certi lavori, poi, si capisce che sono stati fatti di corsa, senza cast, senza appetizing…

Ennio Morricone e Giuliano Montaldo
Note:
- Una Cooperativa di spettatori nata a Genova nel 1950, col fine di produrre film fuori dal condizionamento e dalle logiche del mercato. La Cooperativa rimase in vita pochi anni e riuscì a produrre unicamente due film, Achtung Banditi! e Cronache di poveri amanti.
- Il film fu presentato alla ventiduesima edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia nel 1961.
- La morte legale (Italia, 2017) regia di Silvia Giulietti e Giotto Barbieri.
- Totò e Carolina di Mario Monicelli, film sottoposto a censura perché il personaggio di Totò ridicolizzava eccessivamente la Polizia. Il film, ridotto a 80 minuti, rivide la luce nella propria versione integrale soltanto sul finire degli anni novanta con la reintroduzione di tagli (imposti da tre commissioni di censura), per una durata complessiva di 93 minuti. Fortemente menomato, il film non ottenne un grande successo.
© Riproduzione riservata