
Da RESIDENZE INVERNALI (1989)
Le nostre anime dovrebbero dormire
Le nostre anime dovrebbero dormire
come dormono i corpi sottili
stare tra le lenzuola come un foglio
i capelli dietro le orecchie
le orecchie aperte
capaci di ascoltare. Carne
appuntita e fragile, cava
nel buio della stanza. Osso lieve.
Cosí la membrana stringe
la piuma alla spalla dell’angelo.
Trasparenti sono le orecchie dei malati
dello stesso colore dei vetri
eppure ugualmente sentono
il rullio dei letti
spostati dalle braccia dei vivi.
Alle quattro, nei giorni di festa
hanno fine le visite. Lente
le fronti si voltano verso le pareti.
Nei corridoi vuoti scende una pace d’acquario.
Luci azzurre in alto e in basso
sulla cima delle porte
sul bordo degli scalini.

Luci notturne.
I malati dormono gli uni
vicini agli altri posati
su letti uguali.
Solo diverso è il mondo
di piegare le ginocchia
se le ginocchia
possono piegare, diversa
l’onda delle loro coperte.
Pochi riescono ad alzarsi sulla schiena
come nelle malattie di casa
e ogni letto ha grandi ruote di metallo dentato
molle che di scatto
serrano il materasso
o di colpo lo innalzano.
Il letto stride, si placa.
Luci di Natale.
La corsia è una pianura con impercettibili tumuli.
Con quali silenziosi inchini s’incontrano i pensieri dei morti.
Luci d’inverno.
Nella sala degli infermieri luccicano carte di stagnola
l’odore del vino sale nell’aria.
Se i vivi accostassero il viso ai vetri appannati
se allungassero appena le lingue
il vapore saprebbe di vino.
C’è un attimo prima della morte
la notte gira come una chiave.
Quali misteriosi cenni fanno i lampioni ai moribondi,
quante ombre lasciano i corpi.
Le dieci. Sulla tovaglia un coniglio rovesciato di fianco
patate bollite, asparagi passati in casseruola.
Nella stanza regna una solenne miseria.
I vivi chiamano come da barche lontane.
Da NOTTI DI PACE OCCIDENTALE (1999)
Non esiste innocenza in questa lingua
Non esiste innocenza in questa lingua
ascolta come si spezzano i discorsi
come anche qui sia guerra
diversa guerra
ma guerra – in un tempo assetato.
Per questo scrivo con riluttanza
con pochi sterpi di frase
stretti a una lingua usuale
quella di cui dispongo per chiamare
laggiù perfino il buio
che scuote le campane.

***
C’è una finestra nella notte
con due sagome scure addormentate
brune come gli uccelli
il cui corpo indietreggia contro il cielo.
Scrivo con pazienza
all’eternità non credo
la lentezza mi viene dal silenzio
e da una libertà – invisibile –
che il Continente non conosce
l’isola di un pensiero che mi spinge
a restringere il tempo
a dargli spazio
inventando per quella lingua il suo deserto.
La parola si spacca come legno
come un legno crepita di lato
per metà fuoco
per metà abbandono.
Da IL CATALOGO DELLA GIOIA (2003)
Silenzio mattutino. Una qualità dei passi sul selciato
delle voci. È il suono delle saracinesche
che si sollevano sui negozi intatti: un segnale di pace
l’annuncio dello shofar nel giorno.
Sole silenzioso sulle coperte, sui pavimenti
sulle tazze della colazione e lo smalto del vassoio.
Sì. Non benedetto abbastanza ogni risveglio silenzioso e vivo
non ancora malato non ancora schiavo.

F
È la lettera della felicità terrena del soffio che fugge dalle
labbra, è la fiducia dei fiori che si flettono quando scende il sole,
ma è anche la lettera del fulmine, della fiamma che fende il buio.
“Fa freddo” diciamo e la f si raddoppia nello stesso fiato della
bocca sul fuoco.
Da IL BALCONE DEL CORPO (2007)
L’aria è piena di grida
Pensi davvero che basti non avere colpe per non essere puniti,
ma tu hai colpe.
L’aria è piena di grida. Sono attaccate ai muri,
basta sfregare leggermente.
Dai mattoni salgono respiri, brandelli di parole.
Ferri di cavalli morti circondano immagini di battaglie
Le trattengono prima che vadano in un futuro senza cornici.
Cosa ci rende tanto crudeli gli uni con gli altri?
Cosa rende alcuni più crudeli di altri?
Le crudeltà subite e poi inghiottite fino a formare una guaina
con aculei sul corpo ferito?
O semplicemente siamo predestinati al male,
e la vita è solo fatta di tregue dove sostiamo
per non odiare e non colpire?

Da SALVA CON NOME (2012)
Spazio dell’invecchiare
Solo la nudità alla fine ci raggiunge
esatta come la luna crescente nei capelli.
Esiste una gioia nella reticenza
e un riparo perfino in questo spazio
che ha un inizio e una fine.
Non voglio scrivere un’elegia alla vecchiaia,
solo dire che spingere le braccia dentro il freddo
è una prova che ha il senso di trovare il verbo in una frase.
Senti come guadagni la via del corridoio.
Non è scontato il passo col respiro.
Conta i mattoni pensando ai ciottoli di fiume
all’acqua che ti fasciava il piede
ricorda quanta tenacia c’è voluta a decifrare
le mappe dentro alle parole.
Da HISTORIAE (2018)
Confini
L’ennesima notizia della strage arriva questa sera
nell’ora in cui messi gli ultimi panni in lavatrice
si scoperchiano i letti per dormire.
Sullo schermo del televisore unica luce nella stanza buia
scorrono visi morti e morti vivi, lampi di armi,
corpi nudi e dentro ai calcinacci un cane.
La storia moltiplica i suoi spettri, li affolla
ai confini degli imperi nell’èra di ferro che ci irradia.
Ha inizio un assedio senza nome.
Acque reflue, alluvioni, rocce spaccate
in cerca di petrolio. Resistono gli schiavi
intenti a costruire le nostre piramidi di beni.
Esilii
Oggi penso ai due dei tanti morti affogati
a pochi metri da queste coste soleggiate
trovati sotto lo scafo, stretti, abbracciati.
Mi chiedo se sulle ossa crescerà il corallo
e cosa ne sarà del sangue dentro il sale.
Allora studio – cerco tra i vecchi libri
di medicina legale di mio padre
un manuale dove le vittime
sono fotografate insieme ai criminali
alla rinfusa: suicidi, assassini, organi genitali.
Niente paesaggi solo il cielo d’acciaio delle foto,
raramente una sedia, un torso coperto da un lenzuolo,
i piedi sopra una branda, nudi.
Leggo. Scopro che il termine esatto è livor mortis.
Il sangue si raccoglie in basso e si raggruma
prima rosso poi livido infine si fa polvere
e può – sí – sciogliersi nel sale.
