Se scrivo pane in ungherese vedo la figura di mia madre accanto al forno… il suo volto rosso per la fatica e la felicità per le cinque pagnotte per i suoi tanti figli. Il pane in italiano è solo quello del fornaio… Nella lingua italiana non c’è il sospiro di mia madre, povera, né il brontolìo di mio padre, povero, né i dialetti dei vicini, è orfana di genitori, odori, sapori che evocano i ricordi più dolorosi… Edith Bruck
Edith Steinschreiber Bruck, nata a Tiszabercel, un piccolo villaggio ungherese ai confini dell’Ucraina, il 3 maggio 1931, nel 1944 viene deportata con gran parte della sua famiglia ad Auschwitz. Sopravvissuta insieme alla sorella ai campi di concentramento nazisti, torna in Ungheria, dove ritrova un fratello, anch’egli sopravvissuto. Dopo una travagliata erranza che dall’Ungheria la porta prima da una sorella in Cecoslovacchia, poi in Israele, passando per la Germania e la Francia, torna alcuni anni dopo in Europa. Nel 1954 giunge a Roma, dove decide di fermarsi.

Qui conosce il poeta e regista milanese Nelo Risi, che diverrà il compagno della sua vita. Insieme frequentano molti scrittori, fra cui Carlo Levi, Montale, Ungaretti, Luzi, Vittorini, Pratolini, Carlo Bo, Moravia. A Torino Edith conoscerà più avanti Primo Levi. Nel 1959 viene pubblicata la sua prima opera Chi ti ama così, racconto autobiografico sulla sua esperienza nei lager, che aveva iniziato anni prima in ungherese, ma in cui adotta la lingua italiana, come per le opere successive. A partire dagli anni sessanta, scrive racconti, romanzi, opere teatrali e raccolte di poesia e collabora come sceneggiatrice e consulente a opere cinematografiche sulla Shoah, negli anni settanta esordisce alla regia di film e documentari. Col tempo, oltre alla scrittura si dedica sempre più alla testimonianza della sua esperienza concentrazionaria nelle scuole. Nel 2018 riceve la laurea honoris causa in Informazione, Editoria e Giornalismo dall’Università Roma Tre, e le viene conferita, unitamente a Emma Bonino, l’onorificenza “Guido II degli Aprutini” dall’Università di Teramo. Nel 2019 l’Università di Macerata le conferisce la laurea honoris causa in Filologia moderna.

La Shoah, genocidio perpetrato dalla Germania nazista nei confronti degli ebrei, che ha portato allo sterminio di 6 milioni di persone, all’incirca i due terzi degli ebrei europei, il “male assoluto” secondo Hanna Arendt, resta un muro di fronte al quale la mente umana non ha risposte, perché quell’efficiente macchina dell’annientamento, la “soluzione finale” che attraverso la deportazione e la selezione, giunge a compimento con l’eliminazione nelle camere a gas, e comprende il sistematico sfruttamento delle vittime, da vivi e da morti, non è stata frutto di una mente delirante e di un manipolo di suoi seguaci, ma dell’organizzazione capillare di un intero paese, resa possibile grazie alla complicità dei suoi alleati, interessando un esteso campo di azione nell’Europa nazifascista, con vari livelli di partecipazione, politica, istituzionale, sociale. E se nei tratti poco conosciuti di quel passato si scopre, ad esempio, che nella zona di occupazione italiana della Francia del sud, i soldati italiani salvavano gli ebrei (1), da parte dei francesi, sotto il regime di Vichy, la pratica quotidiana di delazione di ebrei attraverso lettere anonime è documentata (2).
Della Shoah, di capitoli di un orrore su cui la storia non ha ancora messo un punto, c’è una memoria collettiva indiretta, derivante da letture, testimonianze, immagini sullo schermo, che porta con sé accenti di una fonetica sedimentata nell’inconscio, che risuonano sinistri come echi di un incubo che non può essere dimenticato. È un orrore che inizia da lontano, da un antisemitismo diffuso. Edith Bruck nella sua opera d’esordio, racconta il clima di crescente intolleranza in Ungheria, negli anni quaranta, dove la gente del villaggio, anche i ragazzini, prendono di mira gli ebrei, attraverso forme di quotidiana umiliazione e prevaricazione. Lei, bambina, insieme alla sua e alle altre famiglie ebree diventano oggetto di persecuzione e vengono vessati in quanto diversi. Il razzismo è frutto di pregiudizi, di profonda ignoranza, Edith Bruck ricorda l’analfabetismo della comunità ungherese in cui vengono discriminati, ma raccontando poi del suo arrivo nel nostro paese, fa riferimento all’ignoranza degli italiani. Difficile darle torto, la popolazione italiana, che nel dopoguerra era in parte analfabeta, a settant’anni di distanza è tornata ad esserlo. Lo confermano i valori dominanti di una società dove l’apprendimento e la conoscenza contano poco, e manca la consapevolezza di sé come popolazione che all’estero ha subito e spesso continua a subire discriminazioni. Il latente e costante antisemitismo nel nostro paese sarebbe altrimenti inspiegabile.
In Chi ti ama così Edith racconta il terrore della selezione, di Josef Mengele, “l’angelo della morte”, autore di atroci esperimenti ad Auschwitz, soprattutto sui bambini. “Capace di ordinare la morte di milioni di persone innocenti”, conduceva instancabili ricerche genetiche in nome della superiorità della razza germanica. Mengele, non va dimenticato, insieme ad altri criminali nazisti fra cui Adolf Eichmann, nel dopoguerra ha trovato appoggio, rifugio, e ha vissuto tranquillamente in Alto Adige, dove gli è stato rilasciato il falso documento d’identità che gli ha permesso di emigrare e di sfuggire alla giustizia (3).
Primo Levi, con la sua riflessione e i suoi interrogativi sulla Shoah, ha posto le pietre miliari per accostarsi all’Indicibile, alla dottrina del male, all’unicum che è stato Auschwitz, a partire dalla cancellazione della persona e della dignità dei deportati, ridotti ad un numero tatuato sul braccio. Edith Bruck, amica di Levi, sottolinea la grande differenza tra la propria esperienza e quella di Levi, intellettuale torinese, che ha vissuto con lucidità e coscienza il campo di concentramento, “io non l’ho vissuto da un punto di vista storico, morale”. Nella sua intensa narrazione, lascia infatti fluire il racconto della non vita nei campi nazisti, nella linearità delle azioni vissute, degli ordini eseguiti, delle violenze quotidianamente subite, restituendo senza mediazione l’inesplicabilità dell’orrore di un mondo sorto nel cuore della civiltà europea che sfugge ad ogni orizzonte umano. Edith, che al momento della deportazione ha solo tredici anni, attraversa di continuo quella che Primo ha definito la “zona grigia”, in cui vittime e carnefici, buoni e cattivi non sono più fra loro nettamente separabili e riconoscibili, e se Levi ha sempre cercato la luce nei territori più dolorosi dell’essere, lei ama ricordare della propria esperienza in quei luoghi della morte alcuni momenti di luce, in cui il nemico mostra barlumi di umanità. Il suo racconto non si ferma ai lager ma prosegue sul disorientamento del dopo, al momento del ritorno dai campi di concentramento, il rigetto dei superstiti dell’Olocausto nell’Europa del dopoguerra, “eravamo un peso per la società e anche in famiglia”, in una società sorda ai sopravvissuti, “nessuno voleva ascoltare ciò che avevamo vissuto, o per complicità o per difesa, nessuno voleva turbare la propria povera vita.” L’itinerario di Edith approda in Israele dove il nuovo paese non ha bisogno che di soldati, e i sabra, gli ebrei nati in Israele, rimproverano ai sopravvissuti di non essersi ribellati ai loro carnefici. Il rifiuto all’ascolto, anche da parte delle persone vicine, l’indifferenza, la rimozione di un passato ingombrante, il silenzio che per ragioni diverse cade su di esso le fa dire “era meglio morire nei campi di concentramento che essere accolti in questa maniera”, perché non c’è nessuna casa ad accoglierli.
La rimozione della memoria della Shoah nel dopoguerra è avvenuta su più piani e per differenti motivazioni. Il processo di denazificazione voluto e avviato ad opera degli Alleati dopo la fine della seconda guerra mondiale, viene dopo poco abbandonato. Subito dopo la liberazione dei campi di concentramento, molti civili tedeschi vengono costretti a visitarli, a seppellire i cadaveri o a riesumarli dalle fosse comuni. Ma anche le sconvolgenti riprese nel campo di concentramento di Bergen Belsen girate da militari inglesi e dell’Armata rossa, montate da Hitchcock nel documentario Memory of the camps, a lungo dimenticato, non vengono mostrate fino agli anni ottanta. “Auschwitz non ha insegnato nulla” ha ripetuto in molte occasioni Edith Bruck, che descrive l’attuale periodo carico di rigurgiti razzisti e antisemiti come “il vento nero che soffia di nuovo sull’Europa”.
La scrittura per lei è pane, ossigeno, vera e propria terapia, le parole lo spazio dove ritrovarsi. Il proprio vissuto come ebrea perseguitata, deportata e scampata ai campi di sterminio resta il tracciato principale dei suoi libri, in forma strettamente autobiografica o in opere d’invenzione. Dopo Chi ti ama cosi, “racconto testimoniale” sulla propria esperienza nei campi di concentramento, scrive la raccolta di racconti Andremo in città da cui viene tratto l’omonimo film diretto da Nelo Risi, il volume successivo di racconti Due stanze vuote esce con la prefazione di Primo Levi. Tra le opere autobiografiche si ricordano Lettera alla madre, definita un “kaddish”, Signora Auschwitz Il dono della parola, Quanta stella c’è nel cielo, opera da cui Roberto Faenza ha tratto il film Anita B. e Privato. Altri suoi romanzi e racconti riguardano la Shoah e la sorte di sopravvissuti ad essa, fra cui Transit, Nuda proprietà, L’attrice, Lettera da Francoforte, La donna dal cappotto verde, Il sogno rapito. Il suo è un continuo confronto con la memoria, “eterno ritorno” ad una presenza ingombrante entrata nella propria vita, di cui non può né vuole liberarsi, “da Auschwitz non si guarisce”.
Negli ultimi tempi la sua testimonianza nelle scuole è tuttavia sempre più gravosa, perché spesso di fronte a volti ed espressioni impermeabili, la sofferenza di rivivere momenti dolorosi diventa una condanna. La rondine sul termosifone e Ti lascio dormire, sono due libri riguardanti la malattia e la scomparsa del marito Nelo Risi nel 2015. Nel 2018 viene pubblicato dall’Università di Macerata il volume di poesie Versi vissuti, che comprende le sue tre raccolte pubblicate precedentemente, Il tatuaggio, In difesa del padre e Monologo. La sua ultima opera in prosa si intitola Il pane perduto, e in poesia è la silloge Tempi.
L’abbiamo incontrata nella sua casa a Roma.
Note:
- https://www.lastampa.it/cultura/2010/06/28/news/francia-1943-gli-invasori-italiani-br-salvano-gli-ebrei-1.37012038
- https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1993/04/16/francesi-tutti-delatori-torna-lo-spettro-di.html
- Gerald Steinacher, “’Il Signor Mengele di Bolzano’: L’Alto Adige come via di fuga dei criminali nazisti (1945-1951)” 2013, University of Nebraska, Department of History.