GIAN MARIA VOLONTÉ. I VOLTI DI UN GRANDE INTERPRETE DEL CINEMA DI IMPEGNO CIVILE di Luisa Ceretto 

 Io credo di aver sempre dato ai film un contributo consapevole, cosciente, ma non credo che esista un mio cinema.  Esiste il cinema d’autore, di Petri, il cinema di Rosi, il cinema di Maselli, il cinema di Montaldo, il cinema di Amelio.  A me è capitata l’avventura, abbastanza straordinaria, di attraversare un periodo legato a questi autori, a questo cinema, del nostro paese e ho dato il mio contributo. Tutto qui.  (Gian Maria Volonté, 1991) 

Protagonista di una stagione cinematografica unica, che iniziata a metà degli anni sessanta, ha raggiunto l’apice nel decennio successivo, Gian Maria Volonté ha dato vita ad una variegata e composita galleria di personaggi, interprete ineguagliabile delle ansie e delle contraddizioni della società italiana  di quegli anni. Figura chiave di un cinema di impegno civile, che si impone negli anni settanta, con registi come Giuliano Montaldo, Francesco Maselli, Paolo e Vittorio Taviani, Gillo Pontecorvo, ma soprattutto Francesco Rosi ed Elio Petri – che dopo la fortunata pagina del Neorealismo e del cinema degli anni cinquanta e inizi sessanta, ha fatto parlare di sé a livello internazionale, ottenendo importanti riconoscimenti -, di rado, le scelte professionali di un artista hanno coinciso con tanta coerenza con le scelte di vita. Gian Maria Volonté proviene dal teatro, cui farà spesso ritorno, e concepisce il mestiere dell’attore come testimonianza ideologica, ne è prova la scelta di film che corrispondano ad una certa idea di cinema, ogni titolo costituisce una tappa importante, di riflessione, ma aldilà delle sue scelte di campo ha sempre perseguito un rigore professionale. Schivo, solitario, meticoloso, prodigioso, Volonté è un attore che ha spesso scelto di interpretare “uomini contro”, un punto irrinunciabile per lui, che lo ha orientato nel lavoro e nella scelta, appunto, dei personaggi. Personaggi con tale comune denominatore, eppure diversissimi tra loro, frutto di un lavoro “bizantino e indefesso”, quasi ossessivo, esercizio di studio, dalle mille sfaccettature. Camaleonte dalla versatilità senza pari, Volonté affronta i suoi protagonisti reinterpretandoli, racchiudendone l’essenza in un gesto, in uno sguardo, come ricorda Francesco Rosi, “s’impadroniva dell’animo del personaggio”.

in Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) di Elio Petri

Nasce a Milano il 9 aprile 1933, ma la famiglia di lì a poco si trasferisce  a Torino, dove trascorre l’infanzia e l’adolescenza. In uno scenario su cui incombe il conflitto bellico, nell’autunno del 1942 le continue incursioni aeree costringono i Volonté  a lasciare il capoluogo subalpino per rifugiarsi nell’astigiano, a Valfenera, dove il giovane Gian Maria potrà ultimare le elementari. Torino, sullo sfondo della ricostruzione del dopoguerra, è la città dove Volonté scopre l’interesse per il teatro. Dopo aver interrotto gli studi e svolto lavori saltuari, comincia a frequentare lo Studio Drammatico Internazionale i Nomadi, una scuola di recitazione fondata da Edoardo Maltese, dove ha la sua prima esperienza sulle scene ne L’Antigone.  Nell’autunno del 1951 è alla ricerca di una nuova compagnia, si rivolge al Teatro itinerante dei “Carri di Tespi” di Mario Ruta di passaggio, appunto, a Torino. All’inizio è impiegato come aiutante di scena, successivamente con ruoli via via più importanti. Come egli stesso ricorda: “Giravamo l’Italia del Nord…si montava in piazza il tendone con le capriate in legno, le sedie per il pubblico, la pedana per gli attori e, d’inverno, le grosse stufe a segatura, finchè non avevamo esaurito il repertorio” (1). Nel 1953 lavora con la compagnia di Alfredo De Santis, calcando palcoscenici di teatri importanti come il Politeama Giacosa di Napoli o ancora il Carignano di Torino. L’anno successivo riesce ad entrare nell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, a Roma, dove si diploma 1957.

in Cristo si è fermato a Eboli (1979) di Francesco Rosi

Il legame col Piemonte lo conserva nel tempo nell’interpretazione di personaggi subalpini memorabili.  Unica la capacità di calarsi nei protagonisti di pellicole importanti come Banditi a Milano (1968), Sacco e Vanzetti (1971) e Cristo si è fermato a Eboli (1979). All’indomani dei primi successi cinematografici coi western firmati da Sergio Leone (1965-1966), nel novembre 1967, Volonté si trasferisce a Milano, per le riprese del film ispirato alle vicende della banda Cavallero – un gruppo di rapinatori politicizzato che aveva terrorizzato il Nord Italia, il cui ricordo era ancora vivo nell’immaginario collettivo -, per interpretare il ruolo del leader, Pietro Cavallero. Diretto da Carlo Lizzani, Banditi a Milano  inaugura il filone del poliziesco all’italiana. Interessante ciò che dichiara il regista su Volonté/Cavallero, che “si presentava al contempo come protagonista e antagonista. Un bandito, un uomo che andava battuto, che doveva rappresentare un perdente ma al tempo stesso aveva una carica di ambiguità, di populismo”(2). E ancora Lizzani, ricordava: “Eravamo nascosti nel sedile posteriore della macchina, con cui Volonté/Cavallero fuggiva dalla polizia; a me venivano i brividi quando sentivo la sua voce sarcastica urlare contro la polizia le stesse battute che mesi prima il vero Cavallero aveva pronunciato. Se io avevo i brividi mentre lo ascoltavo quando lui urlava, non era perché sembrava vero, ma perché la sua sensibilità interpretativa aveva creato uno straordinario effetto di realtà reinventata (…) Siamo rimasti tutti colpiti dal modo in cui ha saputo cogliere quel sarcasmo, quell’ironia tipica del personaggio Cavallero ed anche la sua mitomania (…) Volonté fa affiorare questo groviglio inestricabile che c’è nell’uomo tra bene e male, tra valore e non valore”(3).

Gian Maria Volonté in Banditi a Milano (1968) di Carlo Lizzani

Come ha osservato Fabrizio Deriu, “Volonté inizia a sperimentare per il personaggio di Cavallero alcune soluzioni di trasformazione dei tratti della fisionomia. Nel gioco che stabilisce tra il volto dell’attore e la maschera del personaggio si comincia a leggere il consolidarsi di un modo di lavorare sul fisico che si perfezionerà di lì a poco nel disegno di personaggi sorprendentemente potenti. Il modo di sorridere e sogguardare di Cavallero è studiato con precisione” (4). Del resto coglie perfettamente le esclamazioni, scandite in un inconfondibile accento torinese, e presta altrettanta attenzione nell’aspetto fisico: “portamento eretto, all’occorrenza spavaldo o amichevolmente accattivante (non lontano da quello che vedremo più tardi nel commissario di Indagine)”(5).

Riccardo Cucciolla e Gian Maria Volonté in Sacco e Vanzetti (1971) di Giuliano Montaldo

Nel 1971, in Sacco e Vanzetti,  la pellicola diretta da Giuliano Montaldo, Gian Maria Volonté interpreta Bartolomeo Vanzetti, emigrato piemontese di Villafalletto, nel cuneese, che raggiunge, ventenne, Plymouth in Massachusetts, e che, insieme a Nicola Sacco, il 23 agosto 1927, sarà ingiustamente condannato alla pena di morte, pellicola che ha sensibilmente contribuito alla riabilitazione storica e morale di Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco negli Stati Uniti. Gian Maria Volonté tornava sullo stesso soggetto dello spettacolo teatrale di undici anni prima, con un’inversione di ruolo, nei panni, difatti, del piemontese Bartolomeo Vanzetti, al fianco di Riccardo Cucciolla in quelli del pugliese Vincenzo Sacco. Volonté aveva lo stesso atteggiamento protettivo che Vanzetti aveva con Sacco. Come racconta Cucciolla: “Con Gian Maria c’è sempre stata una lotta…: ‘No, in questo primo piano devi andare avanti tu perché è giusto che sia così’ …E io facevo la stessa cosa con lui”… (6).Sul set, Volonté era preparatissimo: “Come di consueto aveva ricopiato minuziosamente le battute della sceneggiatura, annotando e sottolineando le parole, i silenzi, un lavoro che trasformava la sceneggiatura in uno spartito musicale. Tra lui e Montaldo non ci furono momenti conflittuali, come in altre occasioni, rimaneva nella parte anche nelle pause: un piemontese schivo, di poche parole”( 7).  A proposito del lavoro di Volonté sul personaggio di Bartolomeo Vanzetti, Montaldo ricorda: “Direi che proprio in Sacco e Vanzetti ho visto cosa vuol dire lo studio, l’assimilazione immediata di certi aspetti, la ‘spugna’. Mi ricordo che feci vedere a Gian Maria alcune sequenze che avevo portato dagli Stati Uniti trovate alla Libreria del Congresso e alla Cineteca Nazionale di Washington. Gli feci vedere alcuni momenti un po’ stentorei che aveva questo anarchico dolce ma dall’aspetto forte. Bisognava quindi mettere insieme questi due aspetti, questo della stentoreità un po’ proterva e questo piacere, come dire?, di passare alla storia che Vanzetti avvertiva. Via via che il movimento popolare nel mondo stava crescendo, c’era (…) un uomo, un pescivendolo, che stava diventando sempre più attento, aveva sempre di più appreso, capito, studiato in questi anni di carcere. Quindi facendogli vedere quel materiale, dove si intuiva questo tipo di doppio lavoro che c’era dentro questo personaggio (…) Gian Maria lo aveva colto al volo. E devo dire che se adesso dovessi ripensare a un momento che abbiamo rifatto (…) Se adesso dovessi dire quale dei due documentari fosse quello vero e quello presentato da Gian Maria, ho delle difficoltà a dirlo” (8).

con Paolo Bonacelli in Cristo si è fermato a Eboli

Per quanto, come è stato affermato, l’impiego di Volonté nel film sia quantitativamente minore rispetto a quello di Riccardo Cucciolla, “qualitativamente, tuttavia, quella di Vanzetti è una delle più intense interpretazioni date da Volonté nell’arco della sua carriera d’attore (…) c’è un’adesione ideale nei confronti non soltanto del film in generale, ma anche della specifica parte (…) verso quella che fu appunto la battaglia umana e civile di cui Bartolomeo Vanzetti fu suo malgrado il protagonista e il simbolo (9). Allora, risolto il problema dell’aspetto esteriore del personaggio nel modo più semplice e diretto (ma in ogni caso con meticolosa accuratezza, recuperando i tratti caratteristici della figura di Vanzetti come fissata nei documenti fotografici e cinematografici: folti baffoni scuri, capelli corti (…) forte inflessione dialettale della terra piemontese d’origine), Volonté concentra il suo lavoro sulla resa dei contenuti interiori e intellettuali della parte” (10).

nel Sospetto (1975) di Francesco Maselli

Nel 1979 firma la penultima collaborazione con Francesco Rosi, è Carlo Levi nel romanzo autobiografico, Cristo si è fermato a Eboli (che racconta del periodo in cui lo scrittore torinese è condannato dal regime fascista nel 1935-36 a vivere al confino, in Basilicata), che Volonté aveva avuto modo di conoscere a metà degli anni sessanta. “Il libro di Levi”, sono parole di Volonté, ”ha proprio agito in profondità, ha lasciato un grosso segno, e stando lì si sente anche maggiormente che è proprio la sintesi di un’esperienza molto profonda (…) Quello che a Rosi interessava, e anche a me, era la mediazione che questo personaggio poteva fare fra l’occhio di Franco, che era quello della macchina da presa, e il mondo contadino che pian piano si andava scoprendo: quindi un rapporto di mediazione continua. E ci interessavano a grandi linee non tanto i segni esteriori di Levi ma l’idea di un intellettuale di tipo europeo, cresciuto e formatosi in uno spazio culturale come quello di Torino di quegli anni” (11). La recitazione di Volonté in questo film non presenta particolari invenzioni. “Eppure il suo personaggio è la chiave di volta dell’architettura compositiva sulla quale si regge la trasposizione cinematografica del romanzo. In primo luogo Volonté sostiene il film al giusto livello di esecuzione e di recitazione, ovvero su quel piano dove si realizza l’incontro di attori diversi che devono coordinare e armonizzare le singole parti e gli stili individuali di recitazione in un insieme che deve risultare omogeneo (…) Levi è uno ‘straniero’ nel Sud, dunque un elemento estraneo e non familiare di fronte al quale reazioni e atteggiamenti non naturali o, più precisamente, di naturalezza simulata o recitata possono essere giustificati (…) In secondo luogo Volonté sostiene eccellentemente la non facile impresa di traduzione dei complessi temi e rapporti presenti nel romanzo in una diversa materia espressiva, che è quella propria della recitazione. È noto lo scrupolo con cui Volonté si addentrava nella conoscenza del testo originale nel caso di sceneggiature tratte da opere letterarie, ma il Cristo si è fermato a Eboli potrebbe essere l’oggetto-modello di un inedito studio sulle modalità in cui l’attore entra in gioco nella riscrittura e nella ricomposizione delle strutture narrative nel passaggio dal romanzo al film”(12). 

nel Caso Mattei (1972) di Elio Petri


Ma come Gian Maria Volonté ha saputo tratteggiare con maestria e puntuale precisione idiomatica e caratteriale i protagonisti delle pellicole qui sopra citate, altrettanto ha saputo calarsi in figure appartenenti ad altre culture e latitudini geografiche. Si pensi, ad esempio, alle opere di Leonardo Sciascia, di cui è stato accuratissimo interprete in A ciascuno il suo (1967) e Todo modo (1976) di Elio Petri, poi in Porte Aperte (1990) di Gianni Amelio o ancora in Una storia semplice (1991) di Emidio Greco. Volonté svolge un lavoro accuratissimo portando all’attenzione linguaggi settoriali, come quello politico, burocratico, giuridico. Riesce ad essere con uguale bravura il commissario di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), così come il metallurgico della Classe operaia va in Paradiso  (1971) entrambi diretti da Petri, il presidente dell’Eni del Caso Mattei (1972) di Rosi o ancora il militante comunista del Sospetto (1975) di Maselli. Dopo un allontanamento forzato nei primi anni ottanta dalle scene, nel frattempo la cinematografia italiana sembra allontanarsi dalla sua vocazione e interesse verso un cinema impegnato, si apre un nuovo capitolo artistico per Volonté in cui lo stile recitativo muta sensibilmente, dove mette in scena un animo ferito, tormentato, dando vita a personaggi che arricchiscono ulteriormente la sua gamma di ritratti, è il caso del giornalista televisivo Bernard Fontana ne La morte di Mario Ricci (1983) dello svizzero Goretta, o di Zenone dell’Opera al nero di André Delvaux (1988).

in La classe operaia va in Paradiso (1971) di Elio Petri

Quando nel 1991 a Venezia ottiene il Leone d’oro alla carriera, Volonté dichiara: “Francamente non ho mai pensato al mio lavoro di attore in termini di carriera. Fin dagli inizi, sia quando ero all’accademia, sia quando ho interpretato i primi ruoli, persino quando ho fatto il suggeritore, mi piaceva il luogo, la ‘casa’ del teatro, che poi in seguito è diventata la casa del cinema. E forse non c’è mai stata un’idea di carriera, come di un percorso obbligato. Ecco perché di volta in volta mi riferisco al film che faccio e mi concentro nel personaggio” (13). Può essere interessante, a tal proposito, elencare i film che ha rinunciato a interpretare. Scinde il contratto già firmato di Metti una sera a cena (1968) di Giovanni Patroni Griffi. Successivamente, il rifiuto più noto riguarda la proposta da parte di Federico Fellini di fare Il Casanova (parte che poi sarà di Donald Sutherland). Rinuncia all’offerta di Bernardo Bertolucci di lavorare in Ultimo tango a Parigi e poi in Novecento, come nel Padrino di Coppola. Dopo essersi proposto, declina l’invito ad interpretare il protagonista di Padre padrone dei fratelli Taviani. Per quanto riguarda il lavoro e la tecnica di Gian Maria Volonté, il docente universitario Ferruccio Marotti evidenzia la singolare capacità, da un lato, di usare mezzi della tradizione, e dall’altro una totale novità di presenza e nell’uso di strumenti interpretativi, individuandone la modernità nel suo essere “attore di spettacolo”, al di là del mezzo tecnico che aveva di volta in volta a disposizione, poteva trattarsi di televisione, cinema, teatro.  Lo studioso suggerisce, infatti, di tenere presente, nell’universo figurativo dell’attore, questi due aspetti: il primo, dato dal rapporto con la grande tradizione italiana (e in particolare vanno ricordati Orazio Costa e Sergio Tofano dell’Accademia romana, dove Volonté si era diplomato); il secondo, invece, era rappresentato da Strehler. “Realmente Gian Maria rappresenta quello che in qualche modo è stato il mito degli ultimi anni di Stanislavskij, la capacità di entrare nel personaggio dall’esterno o dall’interno a seconda delle situazioni, il ‘metodo delle azioni fisiche’.

in Porte aperte (1990) di Gianni Amelio

Era un attore che da un lato giungeva ad una comprensione graduale, progressiva e profonda del personaggio, e dell’altra si estraniava dal personaggio stesso. Le sue interpretazioni più famose, infatti, danno un’immagine totalmente straniata (…) Ecco la cosa straordinaria per me, storico dello spettacolo, è questa capacità di Gian Maria di dare del personaggio sempre i due aspetti, l’oggettivo e il soggettivo insieme.” (14) Attore dalle straordinarie capacità tecniche, il suo percorso artistico si contraddistingue per l’unicità nel rigore, nella serietà, oltre che per l’assoluta dedizione ai progetti ai quali ha partecipato. Un “autore-attore”, tra i maggiori interpreti del cinema mondiale, come è stato definito da Welles, da Bergman, che ha dato vita sullo schermo a figure dall’interiorità tormentata, complesse, mai scontate, molto distanti dai personaggi che più facilmente vengono attribuiti alla tipologia nazionale, legata a certa tradizione del cinema nostrano. 

Nel Magnifico cornuto (1964) di Antonio Pietrangeli

Nello scorso decennio il Museo Nazionale del Cinema di Torino, per celebrare uno degli interpreti più grandi del cinema italiano, ha istituito un Fondo Gian Maria Volonté grazie alla figlia, Giovanna Gravina Volonté, che ha donato l’intera documentazione in suo possesso relativa al padre. Il Fondo documenta una parte importante dell’attività di Volonté, in particolare l’ultima parte del suo percorso, gli anni ottanta e novanta, con documenti come contratti, corrispondenza, scritti e documenti personali risalenti anche alla fine degli anni cinquanta e fino ai settanta. Oltre alle sceneggiature, ai documenti di lavoro e ai contratti dei film interpretati da Gian Maria Volonté, un’ampia sezione è costituita da una serie di soggetti e sceneggiature, di film realizzati o meno, che furono inviate e proposte allo stesso Volonté. Non mancano le testimonianze in campo teatrale con testi e copioni di spettacoli diretti e/o interpretati da Volonté o semplicemente vagliati dall’attore. Tra i documenti di carattere privato, oltre ad appunti, scritti e corrispondenza, spicca un’ampia raccolta di carte nautiche, testimonianza della passione per la barca a vela da parte di Volonté. Tra il 17 maggio e 15 settembre 2017 si è svolta a Torino la mostra, Sotto il segno di Volonté, attraverso i materiali che Giovanna Gravina Volonté aveva donato poco prima.  Per ricordare il grande attore che lo scorso aprile avrebbe compiuto 90 anni, proponiamo un’intervista alla figlia Giovanna e a due registi che hanno lavorato con lui.

Nel Caravaggio (1967) di Silverio Blasi

Giovanna Gravina Volonté, figlia di Gian Maria Volonté e di Carla Gravina, è ideatrice e direttrice del Festival “La valigia dell’attore”. Ci siamo conosciute diversi anni fa, in occasione di una delle prime edizioni del Festival, e ci siamo di recente nuovamente incontrate. E’ stata l’occasione per chiederle di raccontarci delle iniziative in ricordo del padre, della manifestazione che si tiene ogni anno in luglio alla Maddalena, che rende omaggio a Gian Maria Volonté e a pagine del cinema che lo hanno avuto come straordinario protagonista e che, attraverso un laboratorio attoriale, “Valigialab”, è anche rivolta al futuro, agli interpreti di domani.

A seguire, proponiamo due interviste rilasciate nel 1998 da André Delvaux, regista belga, scomparso nel 2002, e Claude Goretta, regista svizzero scomparso nel 2019, che avevamo incontrato, in occasione di una manifestazione in memoria di Gian Maria Volonté, promossa da Cineteca di Bologna, Museo Nazionale del Cinema di Torino e Palazzo delle Esposizioni di Roma. Avevamo chiesto di raccontarci la loro collaborazione con lui, protagonista, rispettivamente, de L’Opera al nero (1988) e de La morte di Mario Ricci (1983) (15).

In Cristo si è fermato a Eboli

NOTE:

  1. Mirko Capozzoli, Gian Maria Volonté, pag. 26, add editore, Torino, 2018
  2. Fabrizio Deriu, Gian Maria Volonté. Il lavoro d’attore, pag. 211, Bulzoni Editore, Roma, 1997
  3. Carlo Lizzani in, Valeria Mannelli (a cura di), Gian Maria Volonté. L’immagine e la memoria, pag. 55, Transeuropa/Cineteca di Bologna, Ancora, 1998
  4. Fabrizio Deriu, op. cit. pag. 212
  5. Ivi, pag. 212
  6. Mirko Capozzoli, op. cit., pag. 163
  7. Ivi,  pag. 1
  8. Fabrizio Deriu, op. cit. pag. 2
  9. Nella vicenda reale è Bartolomeo Vanzetti ad aver lasciato la maggior parte dei documenti scritti. È sui suoi testi  che Woody Guthrie compone un ciclo di canzoni e Joan Baez la ballata per il film di Montaldo. Si rimanda al numero XIV di “Primi Piani” al testo di Anna Albertano su Sacco e Vanzetti, Heres to you Bartomeo Vanzetti e Nicola Sacco
  10. Fabrizio Deriu, op. cit. pag. 224-225
  11. Mirko Capozzoli, op. cit., pag. 21
  12. Fabrizio Deriu, op. cit., pag. 250
  13. Mirko Capozzoli, op. cit., pag. 279
  14. Ferruccio Marotti in Fabrizio Deriu, op. cit. pagg. II-VI
  15. Entrambi gli incontri sono pubblicati nel volume, Gian Maria Volonté. L’immagine e la memoria (a cura di Valeria Mannelli) nella sezione “Incontri con i cineasti della sua vita”, 1998, Ancona, Transeuropa/Cineteca di Bologna.
In Sbatti il mostro in prima pagina (1972) di Marco Bellocchio