CITAZIONI

Ho conosciuto Marker nel 1953-54, lui era amico di Alain Resnais che ha montato il mio primo film, La pointe courte, nel 1954. Poi siamo diventati molto amici, l’ho aiutato a fare alcune piccole cose per Dimanche à Pekin. Provava un orrore tale nei confronti dei media e della pubblicità che aveva deciso di farsi rappresentare da un gatto che si chiama Guillaume-en-Egypte, e negli ultimi vent’anni non voleva nemmeno rispondere, mostrava il gatto e dava a lui la voce, era un suo gioco.

 «Era stato Alain, nel 1955, al tavolo di montaggio, a parlarmi di Visconti, perché – diceva – il mio film gli aveva ricordato La terra trema. Lui mi aveva detto: “Lo sai che a Parigi c’è una Cinémathèque? Non ero cinefila allora. Non conoscevo Visconti né Orson Welles. E meno male! Se avessi visto i loro film, non mi sarei buttata con tanta incoscienza a fare il mio».

 Nella vita mi hanno chiamata con tanti nomi. Fra questi “la nonna della Nouvelle Vague”, perché il mio primo film uscì cinque anni prima dell’esplosione di quella corrente. Ma, nonostante questo, la definizione di “rivoluzionaria” non mi si addice, e preferisco considerarmi semplicemente una “innovatrice” dell’arte cinematografica. Un altro nome con cui mi hanno chiamata – da quando ho fatto Les glaneurs et la glaneuse – è “la signora patata a forma di cuore“, perché nel film vengono trovate delle patate a forma di cuore. In quel film ho voluto appunto mettere insieme lo spirito documentaristico e il “cuore”.

La cosa più affascinante, con le immagini, è che la gente non dice mai quello che ti aspetti, ognuno ha la propria visione. Poi il contributo dell’osservatore scorre via, come un’onda, e resta solo la foto, con il suo mistero. E’ proprio questo rapporto con l’immagine che amo nella fotografia; un rapporto che il cinema riesce a registrare. Una trappola per pensieri e sentimenti.

Sia l’immagine fotografica che l’immagine in movimento mi interessano moltissimo. Ritengo che sia necessario lavorare molto sull’immagine proprio perché siamo bombardati dalle immagini, dalla televisione, dalla pubblicità. E queste immagini da cui siamo bombardati spesso sono svuotate del loro senso. Certo ci sono delle immagini tremende – come quelle che ci sono giunte recentemente dal Pakistan e dal Cachemire – che ovviamente non sono svuotate di senso. Spesso però da questo emerge tutta la crudeltà di questa società che le trasmette per cinque minuti e insieme a due imbecilli di politici che chiacchierano e si esibiscono, per poi magari mandare di seguito una sfilata di moda. Ecco quindi che quelle immagini giustamente tremende annegano in questo vomito di immagini senza senso che è la televisione. L’unica cosa che l’artista può fare è, modestamente, cercare di creare un piccolo spazio di circolazione di emozioni e idee.

Dopo Les plages d’Agnès ho fatto una serie tv su ARTE, Agnès de ci de là Varda, avevo deciso di filmare con la mia telecamera la gente per strada, i musei, gli incontri ogni volta che andavo a presentare dei film o che viaggiavo. E in ogni episodio volevo passare del tempo con un artista come Boltanski, Pierre Soulages, Pierrick Sorin, artisti non necessariamente così noti al grande pubblico. Questa piccola serie mi ha fatto bene perché mi sono detta che esiste un modo di fare cinema che riconcilia l’arte e la vita, le persone che sono al mercato e quelle che sono al museo. Ecco il mio desiderio: che vita privata, arte, museo, commercio non siano cose separate ma tutto un insieme.

Non mi sono mai posta la domanda se sono legittimata a fare ciò che sto facendo. Non ho alcuna laurea, solo il diploma di liceo. Ho seguito all’università, come libero uditore, dei corsi di Gaston Bachelard ed ho assistito all’ultima conferenza di Antonin Artaud. Ho imparato disordinatamente attraverso la griglia dello sguardo dei surrealisti e degli astrattisti, dei “rischia-tutto” come Picasso, Magritte e Prevért. Dopo la guerra, alla fine degli anni ‘40, la poesia e l’arte erano molto importanti, lo erano per tutti. Non ci si domanda se si ha il diritto di creare. Da quando ho fatto le prime riprese del mio primo film, mi sono sentita cineasta. Ecco ciò che profondamente credo: dal momento in cui si scrive poesia, si è poeti”.

L’Europa è necessaria. Perché noi siamo come dentro un sandwich con da una parte la forza americana e dall’altra quella cinese. La forma politica di tutto ciò per il momento è un orrore… Non amo molto la politica ma ho ben chiaro che esistono dei progetti necessari, come quello dell’Unione. Come artista, la mia unica giustificazione è l’esistenza. È come essere una piccola canzone nel caos del mondo. Il mio scopo è quello di creare qualcosa da poter condividere: la bellezza, l’amore, i sentimenti. Come donna, sono sempre stata e resto femminista, e ho partecipato a lotte molto concrete: il diritto di scegliere quando e come avere bambini, l’uguaglianza dei diritti e dei salari, e in ultimo il diritto di abortire. Come cittadina rivendico tutte le lotte portate avanti in questi decenni per i diritti delle donne. Soffro tutti i ghetti, compreso quello femminista, e ho sofferto a lungo la grande discriminazione nei confronti delle donne che era presente nel mondo del cinema, dalla grande distribuzione ai più importanti festival internazionali.

Je ne me suis jamais préoccupée de la pression sociale. Elle ne s’est pas exercée sur moi. Je n’ai pas fait d’écoles, je n’ai pas été assistante, j’ai suivi des cours sans passer d’examens, je suis une autodidacte. Quand j’ai écrit mon premier film, j’ai pensé qu’il resterait comme un poème dans un tiroir, mais on l’a réalisé. Il a existé grâce à un tout petit héritage et à la générosité d’une équipe de bénévoles, dont Philippe Noiret et Alain Resnais, qui était monteur à l’époque (…)

(…) J’étais avec Jacques (Demy), un autre solitaire. On ne voyait pas les gens. On était amis de Jean-Luc Godard et Anna Karina. On vivait rue Daguerre, à Paris, ou à Noirmoutier, on n’appartenait à aucune bande. Lui était un incroyable original : quand il a fait les Parapluies de Cherbourg, cela a été une révolution. Et puis, vous savez, la Nouvelle Vague, c’est un nom qu’on a donné dix ans après à des cinéastes qui ont tourné dans les années 1960, mais ce n’était pas un groupe ou une théorie, seulement une appellation. Les surréalistes avaient élaboré un programme commun, pas la Nouvelle Vague. Je n’y suis pas affiliée, je ne représente aucun courant, si ce n’est le mien

Iconoclaste, pourquoi pas. Je n’ai respecté ni les normes ni les catégories et, toute ma vie, j’ai fait en sorte de bouger les frontières entre la fiction et le documentaire, la photographie et la vidéo, l’argentique et le numérique, la couleur et le noir et blanc… Je me sens artiste et cinéaste, je mélange les choses, je brouille les genres, je ne respecte pas les formats, les durées, je circule entre tous les moyens d’expression visuelle.

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