di Luisa Ceretto
Abbiamo incontrato Mark Cousins durante i suoi soggiorni a Bologna, nel settembre 2012, in occasione della distribuzione italiana di The Story of Film: An Odyssey e nel marzo del 2014, per la presentazione di The Story of Film. I bambini e il cinema.
Con The Story of Film: An Odyssey proponi uno straordinario viaggio all’interno del mondo della settima arte. Ce ne puoi raccontare la genesi?
Inizialmente ero molto più interessato alla storia dell’arte che alla storia del cinema. Ho studiato storia del cinema ma gli scrittori, gli intellettuali che mi hanno maggiormente influenzato sono storici dell’arte come ad esempio E. H. Gombrich, Walter Benjamin, oppure in ambito cinematografico figure come George Sadoul. The Story of Film è in primo luogo un volume che ho scritto undici anni fa, una storia che è stata difatti molto influenzata da E. Gombrich, Story of Art. Un singolo volume, appassionato e dal respiro internazionale, sulla storia del cinema, per l’appunto, senza troppi termini tecnici o teorici, ma con un intento, amo molto quello che ha dichiarato Abbas Kiarostami a proposito dei suoi film, che devono essere puri fuori e ricchi dentro, è quel che volevo per la mia storia del cinema, per il testo scritto, così pure per il film. Quindi ho scritto il libro, che è stato pubblicato in diversi Paesi, in svariate lingue, incluso il mandarino e il cantonese. L’aspetto importante era che volevo fare un libro innovativo. Non sono un critico, non ho mai scritto neanche un rigo in una rivista di cinema, ma sono regista da tempo. Volevo scrivere infatti dal punto di vista di un regista, volevo un respiro internazionale, come ho già detto, che riguardasse l’Africa occidentale, l’Iran, e soprattutto, importantissimo per me, che non svalutasse le registe donne, come invece spesso accade da parte di critici e storici del cinema di sesso maschile. Io ho cercato di non farlo. Un produttore, John Archer, mi ha lanciato la proposta di poterne fare un film. Eravamo partiti con l’idea di farne quattro ore e siamo arrivati a quindici. The Story of Film: An Odyssey non si sarebbe potuto fare nell’era predigitale, doveva essere fatto con telecamere piccole, senza troupe, né luci, tantomeno avevamo bisogno di un’autorizzazione a cominciare! Ho deciso di ignorare lo showbusiness, il box office…Una volta Lauren Bacall mi ha detto: “l’industria è merda, ma il mezzo cinematografico è fantastico”. Voleva dunque essere una storia del medium, una lettera d’amore al cinema, con una certa dose di passione. Quando ero ragazzo, a Belfast, ero sempre molto teso per la guerriglia, ma poi entravo in una sala cinematografica e lì mi sentivo al sicuro. Il cinema mi dava il suo calore, in un momento difficile. Questo film l’ho fatto anche un po’ come segno di ringraziamento. Ero certo delle sensazioni da trasmettere, piuttosto che riassumere, ho preferito descrivere certi momenti del cinema, come ad esempio l’Italia dopo la seconda guerra mondiale o l’America dopo la prima guerra mondiale o ancora il Giappone negli anni trenta. Per me erano piccole storie da raccontare, questa era la maniera più accessibile per farlo. Tutto il processo di pianificazione era dato dal motto, “riprendere nella maniera più semplice possibile”.
Il cinema è l’autobiografia del ventesimo secolo e credo che abbia aiutato molti Paesi a raccontare la propria storia. Io non ho voluto fare un’opera sociologica, a me premeva ricercare la poetica del mezzo, ciò che vi è di così emozionante ed umano in esso. Ma ci sono Paesi come l’Iran, la Turchia, o altri ancora in cui sono stato dove è impossibile parlare. Ad esempio, in Senegal, il cinema non può affrontare il tema della decolonizzazione…
Il cinema quindi può avere attraverso i film una valenza conoscitiva per una migliore comprensione della storia di un Paese e più in generale per capire il rapporto con la realtà?
Sì, certamente, io ho visto il mondo attraverso i film prima di iniziare a viaggiare, è come se i film ti attirassero verso un luogo. Ad esempio ho visto l’Iran grazie alle pellicole prima di andarci, e così il Mali. È come il canto di una sirena… è davvero interessante. Ci sono momenti in cui i vari Paesi pensano di bombardarne un altro, come l’Iran, e allora diventa fondamentale vedere certi film perché mostrano quanto sia orribile quell’idea. Se prendiamo ad esempio l’Italia e il suo cinema, diciamo quello del secondo dopoguerra, si può certamente dire che fosse avanti rispetto alla realtà storica dei tempi, riabilitava il Paese, gli restituiva dignità. Complessivamente possiamo dire che il cinema degli anni cinquanta fosse invece indietro, rispetto alla realtà, come trattenuto, considerando che la società occidentale si trovava in un momento di grande cambiamento, sul piano culturale, pensiamo al mondo giovanile che si stava emancipando, ma così pure per certi Paesi, pensiamo all’Africa. Rispetto a questi fenomeni, il cinema è come se fosse sotto pressione, incapace di cogliere i segni di rinnovamento, e poi, sono arrivati gli anni sessanta e il cinema…fa il botto! Succede l’opposto rispetto al decennio precedente, il cinema si fa manifesto della libertà, della ricerca individuale, come se rispondesse ad una sorta di chiamata. È vero, la settima arte talvolta precorre i tempi, li guida, a volte resta indietro. Ad esempio, oggi, il cinema asiatico è certamente avanti, è inventivo, giocoso, parla di sé in modo molto diverso. In altre parti del mondo, non riesce a stare al passo coi tempi, pensiamo ad esempio ad Hollywood, anche se non si può generalizzare, per lo meno è difficile. Ad esempio il cinema filippino è un altro fenomeno interessante, nuovo, brillante, direi entusiasmante, che non parla solo di sé ma dice qualcosa di nuovo di questo medium…
Nel costruire The Story of Film: An Odyssey mostri come molto spesso nelle singole pellicole si possono trovare rimandi, riferimenti ad alti registi ad altri titoli…
Amando in primo luogo la storia dell’arte, bisogna sempre guardare alle connessioni visive, ad esempio, da dove vengono le influenze di Morandi? Probabilmente dalla Francia e da altri luoghi. E in The Story of Film io faccio molta attenzione alle connessioni visive. Ho visto Inception di Cristopher Nolan e lo puoi accostare a qualcosa di Jean Cocteau, si vede chiaramente. Nell’incipit del mio film ho preso un’immagine tratta dal Fuggiasco (1946) di Carol Reed, in cui delle bollicine di birra diventano un’idea, esprimono un momento di difficoltà in cui versa il protagonista. È un modo per mostrare alla gente come ragionano i registi, molti non pensano in modo troppo teorico, ma in termini di linguaggio visivo. “Quale immagine posso riutilizzare?” Ad esempio Godard in Due o tre cose che so di lei (1966) si è servito di altre bollicine, avendo in mente la pellicola di Reed, Scorsese conosceva Godard e Reed e se ne è certamente servito in Taxi driver (1976) con una scena simile, e si potrebbe continuare così, facendo molti altri esempi. Credo che quello sia il vero DNA del cinema. L’arte di riutilizzare il cinema, e nel mio film io ho cercato di mostrare costantemente quei collegamenti.

Robert Osborne e Mark Cousins, foto di David S. Holloway
Una sorta di mise en abîme…
Sì, una mise en abîme, anche se è un termine di cui non faccio cenno nella mia The Story of Film, del resto non uso neppure il termine auteur e neppure mise en scène, neanche una volta in quindici ore. Li uso nel corso di una conversazione, ma ho voluto che il film fosse visibile e comprensibile anche da un teenager. Così ho pensato che mostrando questo fantastico lavoro e cercando di fare collegamenti poetici tra le cose, un giovane possa trovare da solo la mise en abîme, non dovevo mettergliela io per forza! Quando trascorri del tempo coi registi, solitamente ti dicono da chi e dove hanno preso le loro idee, scelte, spunti, io ho studiato, come dicevo, storia dell’arte ed è uno degli esercizi che si fanno abitualmente, quello per esempio di dimostrare l’influenza di Cimabue sui pittori a venire, non è una questione teorica, nelle conversazioni che li appassiona è un po’ come passare il testimone ad una staffetta. Ed è ciò che mi interessava far vedere, mostrare quel che succede, magari in un ristorante davanti ad un piatto di pasta e un bicchiere di vino. La cosa tragica è tutto quello che non è stato visto e non ha quindi potuto influenzare, parlo ad esempio del film sull’inquinamento della baia di Minamata in Giappone di Noriaki Tsuchimoto Unforgettable Minimata: The Victims and Their World (1971), titolo che è stato visto pochissimo in Occidente, la cui visione avrebbe potuto sicuramente influenzare e migliorare con tutta probabilità i documentari occidentali realizzati successivamente.
Quindi anche la relazione col tempo, passato e presente può essere rimessa in causa, rivista.
Il cinema è l’arte del ventesimo secolo, ma mostra di essere più che mai vitale e ancorato al presente…La storia del cinema non riguarda il passato, si parla di un movimento continuo, di una continuità del momento, l’ora e l’adesso…lo guardiamo attraverso l’occhio interiore del regista che tratta l’adesso e ora e questo è importante. C’è una famosa frase di Robert Louis Stevenson che diceva che un buon racconto, se lo è per davvero, deve riproporsi come “mille immagini colorate davanti agli occhi”; io invece vorrei dire che abbiamo mille immagini colorate nella nostra mente, e sono queste che fanno il cinema, che non riguardano il passato ma il presente, in tal modo si può affermare che il cinema di Christopher Nolan sia collegato all’arte di Jean Cocteau, così come nell’opera di Gus Van Sant si possano più o meno rintracciare riferimenti a quasi tutti quelli che hanno fatto qualcosa nel cinema.
Come hai proceduto per la ricerca filmografica?
Non avevo alcun collaboratore, quindi la ricerca filmografica l’ho fatta per conto mio. Avevo comunque già scritto il libro, per il quale ho fatto cinque mesi di ricerca e poi ci ho messo sei mesi a scriverlo. Al momento di fare il film non avevo tempo di vedere molti altri film, ma il punto era cosa scegliere come location nel mondo, in quali città girare… In molti posti potevo contare su un production manager, ad esempio in Italia c’è stata una signora fantastica che vive a Venezia. Le ho detto che avevo bisogno di vedere certi luoghi di Pasolini, di andare a Milano dove Visconti aveva girato, di andare a Torino a riprendere il Museo del Cinema. E lo stesso è avvenuto a Calcutta, Pechino, Tokyo, Sidney, Los Angeles….Quindi, la maggiore ricerca di cui sentivo il bisogno per il film era andare e trovare le location, vedere i luoghi dove realmente erano stati girati i film di Ozu, quelli di S. Ray… Questa era la cosa più importante. Con Ozu ho ricostruito il suo dolore, il vuoto, la privazione, ho pianto nel vedere questo. Ho viaggiato per metà del mondo, per vedere queste “reliquie” del cinema.
Se dovessi dire a quale spettatore si rivolge il film, come lo descriveresti?
Da ragazzino ascoltavo la musica di David Bowie, le sue parole sul sentirsi un alieno, provenire da un altro pianeta, un freak. Essere amante del cinema per me corrispondeva a questo, significava, agli occhi altrui, giungere da un altro pianeta, essere uno “strano”. Poi mi è accaduto di andare in giro per il mondo e di incontrare altri freak e mi è venuto da chiedermi: ma sono io lo strano perché sono cinefilo, o lo sono gli altri a non esserlo? E ovviamente la risposta è che sono in effetti gli altri ad essere strani…Io volevo fare qualcosa per le persone sane e sensibili che possono apprezzare, volevo fare qualcosa “per noi”, e non per “gli altri”. Sono cresciuto a Belfast, dove la guerra era costante, seppure non a livelli troppo elevati. Ero un ragazzo nervoso, forse lo sono ancora, entrare in un luogo come una sala con quelle sue grandi luci, mi pareva che il cinema mi stringesse tra le sue braccia, rispondeva a quell’esigenza condivisibile di stare insieme, di socializzare e al contempo permetteva di fuggire, di andare fuori, rappresentava una forma di evasione. Non c’era però né un libro né una pellicola che spiegassero questa sensazione in maniera accettabile, per questo ho fatto The Story of Film: An Odyssey.

The First Movie (2009)
Il pubblico che può vedere con assoluta chiarezza il film è simile a me, quando avevo quindici anni! Ero innamorato dei film, ma non avevo strumenti, avevo bisogno di un menù di degustazione, una mappa per muovermi, quindi ho realizzato questo lavoro per me, quindicenne. Spero che The Story of Film sia riuscito a creare relazioni col pubblico…A New York per esempio al Museo di Arte Moderna la prima volta che è uscito il film, ci sono state circa quattrocento persone, prevalentemente sulla settantina. Si è cominciato a parlare della mia vita nel cinema, i film visti da bambino, adolescente e adulto, e di come questi stessi titoli possano o meno produrre lo stesso effetto, malgrado il tempo trascorso. Dov’ero quando ho visto Guerre stellari per la prima volta o quando ho visto i primi film di Max Ophüls?
Prima ancora di The Story of Film, nel corso dei tuoi viaggi hai realizzato interessanti lavori, come ad esempio in Iraq, The First Movie, di cosa si tratta?
Per via del mio lavoro ho viaggiato molto, ho trascorso diverso tempo in Curdistan, un posto fantastico. Lì ho incontrato un produttore e abbiamo iniziato a parlare del Paese e di come sia mal rappresentato nei film e in televisione. Così abbiamo deciso di fare un film in un villaggio dove in un solo giorno il sedici per cento della popolazione è stata “gasata”, ammazzata da Saddam Hussein. A me piace lavorare con i bambini nel cinema, è uno dei miei maggiori interessi. In questo villaggio ci sono moltissimi bambini e nessuno aveva mai visto un film su grande schermo. L’indomani ho preso due lenzuola, le lenzuola del mio letto, le ho cucite insieme per farne uno schermo e ho mostrato loro cinque grandi film della storia del cinema. Il giorno dopo ho dato loro delle videocamere dicendo che andassero a filmare ciò che volevano, potevano anche tuffarsi nel fiume con la telecamera. E quando sono tornati, le immagini erano assolutamente stupende.

The First Movie
Il film inizia con me – un po’ come con Chris Marker – che viaggio e con quel senso di perdita di se stessi di quando si viaggia, per poi prendere il via. Dopo averlo fatto ho avuto tante reazioni, Wenders mi ha chiamato dicendo che voleva che più gente vedesse il mio film e mi ha proposto di mostrarlo in prima mondiale al Festival di Telluride. E lì ho avuto recensioni fantastiche, migliori di quelle di Story of Film. È stata un’esperienza fantastica.
Tu hai collaborato con Tilda Swinton a diverse iniziative…
Sì, io e Tilda abbiamo fatto insieme cinque eventi, tutti differenti. Viviamo entrambi in Scozia, amiamo il cinema, e la cosa principale che abbiamo fatto è stata la Fondazione 8 e ½ che prende il nome dal film di Fellini. È rivolta a bambini di 8 anni e ½, e quando un bambino compie 8 anni e ½, gli offriamo la possibilità di vedere un film. Ma la cosa più divertente che abbiamo fatto, si chiama The Pilgrimage, il pellegrinaggio. Abbiamo trovato un cinema mobile, un furgone di trentasei tonnellate che si trasforma in un cinema, ci abbiamo legato una corda e il pubblico lo ha portato in giro per le strade della Scozia, non in salita, solo in pianura. Una volta arrivati in un villaggio, montavamo il cinema, la gente giungeva numerosa a vedere i film. E non sapeva che noi eravamo lì fuori che preparavamo del cibo semplice, e quando il pubblico usciva poteva anche mangiare. Volevamo “rubare” al mondo cattolico l’idea del pellegrinaggio per applicarla al mondo del cinema. In un certo senso il cinema è la nostra religione, quindi si è trattato di un pellegrinaggio verso i film. È stata un’esperienza collettiva, i bambini hanno amato moltissimo questa iniziativa e tiravano il furgone. Ci siamo divertiti moltissimo, persino con la pioggia. La gente è venuta da tutto il mondo per vedere questo evento, ci ha ripresi persino la televisione giapponese. Perché in effetti era una proposta veramente inusuale. Ma lo abbiamo fatto una sola volta perché ci piace cambiare, ogni volta organizziamo un evento diverso.

Tilda Swinton e Mark Cousins
Cinema e sacralità, un interessante binomio…
Il nostro retroterra religioso ci influenza molto. Gore Vidal ha dichiarato di essere un cattolico in un tutti i sensi tranne che nella fede! E io mi definisco così, sono un cattolico tranne che nella fede. Per molte cose odio il cattolicesimo, ma mi ha segnato molto e mi ha dato il senso di sacro. Per esempio, quando ho collaborato per la prima volta con Tilda Swinton al Ballerina Ballroom Cinema of Dreams, praticamente non avevamo budget, ma ricordo di averle detto che ero stato in una chiesa ortodossa russa, hai presente l’iconostasi…Spesso lì le figure più sacre sono tenute nascoste fino all’ultimo momento e poi mostrate. Ho detto a Tilda: perché non copriamo lo schermo come se fosse qualcosa di estremamente prezioso e lo scopriamo solo all’ultimo momento? Tilda ha avuto l’idea di creare una grande bandiera su cui c’era scritto “Stato del Cinema”. Quindi abbiamo coperto lo schermo, abbiamo presentato il film e solo allora abbiamo tolto la bandiera, svelando lo schermo per fare iniziare il film. E questo ha creato un senso di aura, di aspettativa, di meraviglia verso il film, qualcosa di simile a ciò che il cattolicesimo riesce bene a creare. Voglio aggiungere ancora una cosa abbastanza positiva sul cattolicesimo. Quando guardiamo il volto di Greta Garbo, allo stesso tempo lei c’è e non c’è, è viva in quel momento anche se ovviamente è morta da tanto tempo. È qualcosa di paragonabile alla messa cattolica, in cui il corpo di Cristo c’è e non c’è. Non c’è, ma si considera che ci sia, è la transustanziazione (il momento in cui l’ostia diventa il corpo di Cristo, il che avviene nella consacrazione).
E quella parola possiamo prenderla in prestito, è una parola utile, è ciò che a volte accade nel cinema. Roland Barthes usa questa frase: “la luce di una stella lontana”, ovvero la stella è lontana milioni di chilometri e quindi, quando la luce ci raggiunge, la stella può essere già morta, tuttavia la luce è ancora viva. Così, quando vediamo la Garbo, la sua luce è ancora viva anche se lei è morta, e quella è una sorta di transustanziazione. Ci sono cose del cattolicesimo che possiamo utilizzare, noi che siamo amanti del cinema. Il che vale anche, ad esempio, per l’induismo. E’ la presenza/assenza, l’esserci e il non esserci. Ricordo quando ho visto Un posto al sole (1951) di George Stevens. Ricordo chiaramente che, da ragazzo, volevo essere Elizabeth Taylor e Montgomery Clift, ma volevo anche essere con loro. Volevo starli a guardare, con il loro amore, e questa è un’altra cosa grandiosa dei film, voler essere il personaggio ed essere con il personaggio. È un’incredibile ambiguità, che amo moltissimo.

The First Movie
Il cinema, come tu stesso sostieni, crea empatia…
Sì lo penso veramente. È quello che è accaduto con il film che ho girato in Iraq. Quando filmavo quei ragazzini iracheni, così lontani dalla mia cultura, li guardavo attraverso la cinepresa e io mi sentivo uno di loro. La cinepresa aiuta questo tipo di legami. Siamo fatti della stessa materia, siamo esseri umani: questo l’ho sentito moltissimo mentre filmavo quei bambini. Per questo il cinema è una grande arte. Ho girato un altro lavoro dopo The Story of Film, il cui titolo è What Is This Film Called Love. È un documentario, ma in parte è anche finzione, amo quella dimensione al confine tra la realtà e la finzione, sempre che questo confine ci sia. La realtà è fantastica, essere vivi è meraviglioso, anche se certo ci sono aspetti tragici e dolorosi. Ma la vita reale è stupenda, e rende il cinema altrettanto stupendo, perché è più vicino al mondo reale di qualsiasi altra forma d’arte. Nient’altro è così vicino alla realtà, nel cinema puoi sentire il respiro del mondo reale. Basta pensare ad esempio a Pasolini, in cui c’è costantemente l’idea della natura del cinema che è così vicino alla realtà. Così vicino, ma non del tutto…
Nel tuo più recente documentario, The Story of Film. I bambini e il cinema, prosegui il tuo lavoro di ricerca…
Nel passato la cinefilia era nostalgica, riguardava il passato, era dietro alle nostre spalle. Ora, invece, grazie anche al lavoro di restauro, la cinefilia, l’amore per il cinema è al tempo presente, un po’ come Lazzaro che è resuscitato. Quindi, anziché farci venire le lacrime per i grandi film sull’infanzia, li possiamo rivedere sul grande schermo. È un atto politico perché non riguarda solo il passato, ma anche il presente e il futuro del bambino. Accostare il cinema ai bambini penso costituisca infatti un atto politico, sono convinto che il cinema sia uno dei doni più grandi ai bambini, perché dà gioia, arte, conforto, sostegno, empatia. Ed è qualcosa che è offerto a tutti i bambini e anche a quel dieci/dodici per cento di bambini che hanno difficoltà ad accostarsi alla parola scritta, ai libri. Personalmente anch’io a scuola ero terribile nella lettura e nella scrittura e invece vivacissimo nelle immagini, ed è di immagini che è costituito il cinema. Credo che l’Italia possa considerarsi il centro mondiale della narrativa visuale, basti guardare gli affreschi della Cappella degli Scrovegni a Padova, forse il primo “film” fatto al mondo, per tale ragione penso sia il Paese in cui si sia lavorato al meglio sull’arte visiva.
Ci puoi parlare della costruzione del film, del modo in cui hai pensato di creare questo singolare e potente affresco sull’infanzia?
Non sono mai stato un granché con la memoria verbale ma con quella visiva sì, me la sono cavata sempre benissimo. Non c’è una storia lineare, una progressione, ho scritto la sceneggiatura su un foglio di carta, non c’è una sceneggiatura, ci sono temi: il bambino distruttivo, quello avventuroso. Per ciascuna sezione ho indicato dei titoli che mi sembravano rilevanti, insieme alle connessioni di tipo visivo, perché lo sguardo salta da un tema all’altro in maniera immediata, visiva, per l’appunto. Volevo inserire film noti, specie all’inizio, come quello di Spielberg, E.T. per dare allo spettatore la gioia del riconoscimento e poi anche l’opposto, la gioia del non riconoscere i film, il non sapere, spero che anche per i cinefili sia prevalso questo sentimento ambivalente. Ho scelto film in cui il bambino fosse visto come co-regista o creatore insieme al regista e quindi viene dato al bambino lo spazio per improvvisare come nella musica jazz. Cosa che ad esempio non si trova nell’animazione, ecco perché l’ho esclusa. Ci sono venticinque paesi, ci sono film dal Giappone, dalla Corea, dall’Africa, dall’India. Mi dispiace non avere inserito film italiani, avevo pensato a Il ladro di bambini di Gianni Amelio (1992), la scena sulla spiaggia, ma poi è prevalso il desiderio di “tirare” la conoscenza, come si fa con la mozzarella fusa, di prendere per mano lo spettatore e spingerlo al limite della sua conoscenza, camminare in una terra incognita, servendomi di titoli poco noti, come ad esempio i film albanesi che ho inserito. È il piacere della scoperta. I viaggi migliori sono quelli in cui ci si perde un po’ per strada e ci si abbandona al piacere della scoperta, che è uno dei sentimenti più forti dei bambini. A proposito della libertà e della politica nell’ambito dell’infanzia, penso che i bambini siano schiavi viziati, tenuti spesso come dei principi. Noi diamo loro tutto quello che vogliono, iphone, e quant’altro, ma a ben vedere fanno tutto quello che diciamo loro, quando devono andare a letto, a scuola, dove devono andare. Ogni film per un ragazzo è un saggio sul desiderio di liberarsi, di saltare il fosso. Volevo trattare certe tematiche sull’infanzia, come ad esempio quella dell’attaccamento per cui ho citato Kes (1969) di Loach, oppure il tema dei bambini sotto stimolati, che hanno voglia di imparare, ma il loro cervello, simile ad una spugna, non riceve il nutrimento adatto, come ad esempio accade nel film polacco Crows (1994) di Dorota Kedzierzawska dove la protagonista vive isolata e non ha altri stimoli, per tale ragione rapisce un’altra bambina più piccola.
Nel film spazi da Riccioli d’oro (1935) di Irving Cummings a titoli più recenti, a pellicole iraniane e di altri Paesi. La rappresentazione dei bambini dai tempi di Shirley Temple è cambiata non poco…
Il cinema è cambiato molto rispetto alla rappresentazione dei bambini. Shirley Temple era truccata, pettinata, decine di persone si occupavano della luce, del set. Gli attori di quel tempo erano simili a burattini, con qualcuno che tirava le fila, un po’ come Pinocchio. Ora col digitale, grazie alla miniaturizzazione, un bambino entra in una stanza e viene ripreso senza la presenza di una troupe numerosa, può avere l’impressione di non essere filmato. Sicuramente i bambini di oggi non sono più intimiditi dalle riprese come ai tempi della “macchina hollywoodiana” che al contrario li circondava. Oggigiorno si può raggiungere un grado di naturalezza maggiore, con l’eccezione di quello che si era fatto nel 1945/’46 in Italia col Neorealismo, credo che infatti si possa affermare di trovarsi nell’età d’oro della performance dei bambini nel cinema.
E la memoria in che relazione è rispetto al cinema?
Quando vedo un film, ricordo me stesso e mi ricordo di quando l’ho visto per la prima volta. Faccio l’esempio con Quarto potere (1941) di Orson Welles. Quando l’ho visto per la prima volta, ero adolescente e pensai che fosse tecnicamente fantastico, stupefacente. Ora, quando rivedo Quarto potere lo vedo come una pellicola sulla giovinezza perduta, un momento di paradiso infantile che è passato per sempre ed è diventato qualcosa di totalmente diverso. Non solo Quarto potere riguarda la memoria, ma quando lo vedo ricordo la mia giovinezza, e il cinema è veramente grandioso in questo meccanismo. Ti entra in testa e ti mette nel cervello un marker del momento, del cinema in cui l’hai visto, della gente con cui eri, ti si fissa nella mente. È questo che lo rende così emozionante e complicato. Molti film riguardano il ricordo, ma poi diventano i tuoi stessi ricordi, e tu ti guardi indietro e ti rivedi giovane! Per sua stessa natura, ogni immagine cinematografica riguarda il passato, riprende qualcosa che è già accaduta e che non si ripeterà più. In inglese c’è una frase, “the ongoing present”, il fatto che il presente sia come una scala che si muove sempre. Lo stesso vale per il ricordo, non c’è un singolo flashback in Shakespeare, in moltissima letteratura non c’era l’idea di flashback che infatti è stato introdotto dal mezzo cinematografico. Le forme d’arte come la pittura, il teatro non sono in grado di creare il flashback, forse per quest’ultimo sì, ma è molto difficile, mentre invece il cinema ci riesce benissimo. Il cinema è dunque un mezzo fantastico per il ricordo, mentre nessun’altra forma artistica riesce a riprodurlo. E si possono fare anche i flashforward (l’anticipazione di eventi che appartengono al seguito della vicenda, ndr). Il cinema è veramente affascinante. Noi ricordiamo singolarmente come individui, ma anche per gruppi, ad esempio con chi siamo stati all’università, esiste una memoria collettiva, e poi si può entrare nel territorio più politico della memoria nazionale, che è molto interessante. Quando si osserva un Paese come l’America, che è orgogliosa della sua giovinezza, la memoria forse non conta più di tanto. Una famosa frase di Gore Vidal parla degli “Stati Uniti dell’Amnesia”. Se si guarda al senso della memoria della Cina, la Cina ha per esempio una storia che si racconta con una sola interruzione, un cambiamento di rotta avvenuto nel 1947 con l’avvento del comunismo. La memoria si struttura secondo una chiara linea divisoria. Ciascun Paese crea la propria memoria e moltissime relazioni interessanti.
(*) L’intervista è stata pubblicata sulla rivista “Cinecritica”, n°76, ottobre-dicembre 2014