Numero IV – Aprile 2017
Sommario:
- La lunga vita di Dacia Maraini di Anna Albertano
- Incontro con Dacia Maraini di Anna Albertano
- La vertigine della vita altrui – Annotazioni su Storia di Piera di Piera Degli Esposti e Dacia Maraini di Roberto Chiesi
- Il teatro per le donne di Dacia Maraini di Michela Turra
- Tre giovani donne e una rivista letteraria degli anni sessanta: Angela Giannitrapani, Marisa Di Iorio e Dacia Maraini nella redazione di “tempo di letteratura” di Loredana Magazzeni
- Opere
LA LUNGA VITA DI DACIA MARAINI
di Anna Albertano
Dacia Maraini, tra le scrittrici italiane più lette al mondo, è autrice di romanzi, racconti, opere teatrali, saggi e poesie, vincitrice di innumerevoli premi, nel ’90 il Premio Campiello, nel ’99 il Premio Strega, da anni è candidata al Premio Nobel per la Letteratura. Nel suo intenso e infaticabile percorso biografico e letterario -nel novembre scorso ha compiuto ottant’anni-, s’incrociano elementi poco comuni.
C’è intanto l’origine familiare, una genealogia degna di un antico casato. La madre, Topazia Alliata, principessa e pittrice siciliana, vissuta fino all’età di 102 anni, la nonna materna, cantante lirica, figlia di un diplomatico cileno; il padre, Fosco Maraini, scrittore ed etnologo toscano di origini ticinesi, il nonno paterno, scultore, la nonna paterna, scrittrice, di padre inglese e madre ungherese di origine polacca. Dacia nasce a Fiesole, all’età di un anno affronta un viaggio in nave per il Giappone, dove il padre si trasferisce per condurre le proprie ricerche, nel ’43, insieme alla famiglia viene internata per due anni in un campo di concentramento. Tornata in Italia presso i nonni materni, conosce la Sicilia, non una terra “immaginaria… sognata, mitizzata”, ma quella di un’aristocrazia caduta in rovina e di una vita da contadini, da cui otto anni dopo sceglie di andarsene per seguire il padre a Roma, dove insieme agli studi, per guadagnare lavora come segretaria, poi come hostess. Un’infanzia e un’adolescenza vissute all’insegna del multiculturalismo, ma segnate dalla paura, dalla fame e dalla povertà.
All’inizio degli anni sessanta, dopo un matrimonio finito e un figlio perso al settimo mese, risale il suo incontro con Alberto Moravia, che coincide col suo esordio come scrittrice. A lui infatti chiede la prefazione al suo primo romanzo, La vacanza, che esce nel ’62 per l’editore Lerici. La sua lunga relazione con Moravia, appena separatosi da Elsa Morante, è al centro delle cronache e per lei, giovane scrittrice che ha già pubblicato alcuni racconti su riviste quali “Nuovi Argomenti”, fondato insieme ad altre scrittrici una rivista dal titolo “tempo di letteratura”, segna l’inizio di nuove conoscenze e amicizie.
A Roma, uno dei centri , insieme a Torino e Milano, in cui secondo Calvino gravita la vita letteraria in quegli anni, trainando l’Italia verso una dimensione internazionale, il legame tra cinema e letteratura si fa sempre più stretto. Tra le numerose opere di Moravia portate sugli schermi, Il disprezzo nel ’63 diventa un film per la regia di Jean-Luc Godard, Le mépris, considerato un caposaldo della Nouvelle Vague. Dacia intanto scrive i romanzi L’età del malessere (‘63), A memoria (‘67), poesie e testi per il teatro. Insieme a Moravia e a Enzo Siciliano nel ‘66 fonda il Teatro del Porcospino. Frequenta scrittori e intellettuali, intraprende lunghi viaggi in Oriente e in Africa seguendo Moravia corrispondente all’estero, e sui set di film, in compagnia di Pasolini e di Maria Callas. In questo periodo nascono collaborazioni per il cinema, con Pasolini scrive la sceneggiatura de Il fiore delle mille e una notte, mentre dal suo romanzo Memoria di una ladra viene realizzato un film di Carlo Di Palma interpretato da Monica Vitti.
Negli anni settanta, in un clima culturale che insieme alla liberazione dei costumi, iniziata nel decennio precedente, vede crescere la mobilitazione per la conquista dei diritti delle donne (la legge sul divorzio, del ’70, viene confermata dal referendum quattro anni dopo, la legge 194 sull’aborto è del ‘78), Dacia Maraini, da sempre attenta a questi temi, si afferma come scrittrice dalla parte delle donne. Nel 1973 fonda il Teatro della Maddalena gestito da sole donne, dove cinque anni più tardi verrà rappresentato Dialogo di una prostituta con un suo cliente, tradotto e portato in scena in molti paesi. Prosegue a scrivere romanzi, Donne in guerra, poi Isolina. Nell’80 con Piera Degli Esposti scrive Storia di Piera, da cui Marco Ferreri girerà l’omonimo film, nell’’88 con Margarethe Von Trotta la sceneggiatura del film Paura e amore, un adattamento dalle Tre sorelle di Cechov. Molti dei suoi testi in prosa e teatrali riguardano la condizione delle donne. Nel ‘90 il suo romanzo La lunga vita di Marianna Ucrìa –storia di emancipazione femminile ambientata tra il sei e il settecento-, con cui vince il Premio Campiello, diventa un film di Roberto Faenza. Il suo impegno nella rivendicazione dei diritti civili si rivolge nel frattempo anche ad altri soggetti. Nel ‘99 con i racconti di Buio, sull’infanzia indifesa, ottiene il Premio Strega. Altre opere successive hanno per tema la denuncia di condizioni di sfruttamento e di emarginazione.
I molteplici tratti che hanno caratterizzato la sua esistenza, una vita che ha attraversato amori, successo, lutti e soprattutto impegno, hanno contribuito a farne un personaggio, complice la sua immagine, dallo splendore della giovinezza alla ricchezza espressiva della maturità, fino alla giovanilità dei suoi ottant’anni. Ma Dacia Maraini oltre che narrare molte storie, ha saputo scrivere la propria, imprimerle puntualmente la direzione che voleva, rimanendone protagonista, varcando tempi diversi e cogliendone di volta in volta lo spirito senza lasciarsene condizionare e proseguendo oltre nella propria ricerca. Ha saputo fondere i diversi aspetti del proprio temperamento, delicata e insieme anticonformista e spregiudicata, schiva e combattiva, ha continuato a mettere il dito nelle piaghe della società italiana, nei suoi recessi fermi nel passato, attenta ai suoi pesanti retaggi, alle disparità e alle discriminazioni ai danni dei più deboli. E ha recuperato negli anni la propria biografia, l’infanzia, grazie ai diari di sua madre (La nave per Kobe), ha ripercorso i taccuini del padre per aprire con lui un dialogo immaginario (Il gioco dell’universo), ha ritrovato con la memoria figure care scomparse che continuano a vivere nel “giardino dei pensieri lontani” (La grande festa). Ha raccontato contemporaneità e storia, toccando i temi essenziali della vita e della letteratura, la solitudine, l’amore, la sofferenza, la morte, l’amicizia, la maternità, intrecciando nel tempo i filamenti del proprio vissuto con le tensioni attraversate e di cui continua ad essere testimone.
ANNA ALBERTANO, autrice di romanzi, racconti e poesie, ha incontrato e tradotto autori stranieri fra cui il Premio Nobel Nagib Mahfuz, Assia Djebar, Sélim Nassib. Fra le sue opere, Progressivo silenzio, Notre-Tanz, Dialoghi di un mattino di fine millennio, La notte di San Giorgio, Dando il blu, Stagioni promesse, Lettere d’Occitania. Autrice di filmati, è tra i fondatori dell’Archivio M.C.
INCONTRO CON DACIA MARAINI
di Anna Albertano
La sua immagine pubblica è contraddistinta dai tratti particolari della sua biografia, la sua famiglia, la sua infanzia, i suoi legami umani e artistici, la sua passione civile, soprattutto dalla parte delle donne. C’è qualche aspetto di sé che malgrado la sua popolarità è poco conosciuto e che vorrebbe invece far conoscere?
La mia grande passione per il teatro. Il tanto teatro fatto nelle cantine, per strada, all’estero, in Italia e la poca considerazione ottenuta nel mondo teatrale. Ogni volta devo ricominciare da capo nonostante gli entusiasmi con cui volta per volta vengono accolti dal pubblico. Dialogo di una prostituta con un suo cliente è stato rappresentato in 12 paesi. Maria Stuarda è stata rappresentata in 24 lingue, in Giappone per esempio la rappresentano ogni anno da quindici anni. Stravaganza è stata rappresentata in sei paesi sempre con molto successo. I digiuni di Catarina da Siena è stata rappresentata per anni in giro per l’Italia. Marianna Ucrìa è stata prodotta dallo Stabile di Catania e ha girato l’Italia con un successo strepitoso, tanto che raddoppiavano le repliche per fare entrare tutti. Ebbene, se oggi scrivo un testo, stento a trovare una produzione. Insomma come se non avessi mai scritto per il teatro… Mi sono chiesta perché? Secondo me le ragioni sono due : la prima è la misoginia che regna in teatro. Una misoginia antichissima come la storia del teatro. Secondo: non si sopporta che una persona che ha successo in un campo poi ne abbia anche in un altro campo. Come si permette di invadere un campo che non è il suo? Ma io ho cominciato a fare teatro a 13 anni, in collegio a Firenze, con le mie compagne. Scrivevo testi che poi rappresentavamo tutte insieme. E ho sempre continuato. Ho sempre scritto drammi e salvo recitare ho fatto di tutto, dalla suggeritrice alla regista, dal tecnico delle luci e dei suoni alla scopina. Conosco molto bene il teatro dall’interno; ho fatto le tournée per l’Italia portando la scena sul tetto della macchina, e dentro i cinque attori di Ricatto a teatro. Ho avuto testi diretti da grandi registi come Ronconi (Memorie di una cameriera), con protagoniste prestigiose come Anna Maria Guarnieri, o Mela con la regia di Calenda e la partecipazione di Elsa Merlini. Ma niente, come se non l’avessi mai fatto.
Visto da oggi, dal punto d’arrivo, il suo percorso di scrittrice è articolato e coerente. Insieme al caso, alle coincidenze della vita, c’è stato certamente un costante impegno da parte sua. Quali sono stati i momenti più difficili, e quanto ha contato allora la sua determinazione nel proseguire per la sua strada?
I momenti più difficili vengono quando ti scontri con lo scetticismo della gente, con la sfiducia nel futuro, nel lavoro in comune. O quando trovi chi si considera migliore di te e vuole prevalere e metterti da parte. Queste persone che io considero infelici e malate, preferiscono farsi del male piuttosto che dartela vinta. E alle volte ci riescono.
L’incontro con Alberto Moravia cosa ha significato nella sua vita, da un punto di vista affettivo e professionale?
Un uomo dolcissimo e pieno di attenzioni che mi manca molto. Un uomo con cui potevo passare ore e ore a parlare delle grandi questioni del mondo. Di una intelligenza esplosiva ma sempre umile e a disposizione degli altri. Era molto amabile Alberto ed è stato naturale per me amarlo di un amore sereno e profondo. Abbiamo viaggiato insieme, vissuto insieme, fatto progetti e condiviso interessi e passioni. Salvo il teatro che ad Alberto non piaceva tanto, la letteratura, il cinema, i viaggi, sono stati il nostro pane quotidiano. Come scrittore mi ha insegnato -ma più che insegnato, dato l’esempio- l’onestà intellettuale, il rigore, il continuo approfondire e sperimentare, nonché l’impegno e la coscienza civile. Ma queste cose me le aveva già fatte conoscere mio padre che era un grande uomo di scienze e di cultura.
E Roma, l’ambiente letterario e artistico che ha frequentato, i suoi vari incontri con scrittori, registi, poeti, che importanza hanno avuto per lei?
Quella romana, ma non solo, direi in tutta Italia gli artisti si riconoscevano come una comunità che aveva un suo valore da difendere e conosceva la militanza e la solidarietà… Ci si incontrava per il piacere di incontrarsi. Oggi non succede più. Oggi ci si vede per un convegno, per una discussione pubblica, ma non si usa più incontrarsi nei ristoranti, nei bar per il solo piacere di chiacchierare e scambiarsi opinioni e raccontarsi i progetti a cui si sta lavorando. La comunità degli artisti non si riconosce più come tale. Si tende all’individualismo sfrenato e ciascuno è chiuso in un piccolo circolo di amici. La solidarietà sembra scomparsa.
“La vita o si vive o si scrive, io non l’ho mai vissuta se non scrivendola” diceva Pirandello, e altri scrittori, fra cui Philip Roth, hanno affermato la stessa cosa. La necessità di ritirarsi, di lasciare fuori il mondo esterno per fare uscire il proprio, per fare arrivare alla pagina visioni, ricordi, immaginazione, riflessione, spesso prevale in chi scrive. Cosa può dire in proposito?
Non sono d’accordo con Pirandello. La vita la si vive e la si scrive quasi contemporaneamente. Se non si vivessero certe esperienze, in maniera diretta o indiretta, non si potrebbe raccontare ciò che ci riguarda non solo come persone ma come popolo, come paese, come epoca… Ma non so cosa sia la mondanità. Odio i vestiti firmati, le macchine di lusso, i salotti dove si incontrano persone in vista. Faccio una vita da certosina: scrivo chiusa in casa. Esco solo per fare la spesa, per andare a qualche mostra, vedere qualche film e assistere a molti spettacoli teatrali.
Qual è stato il periodo più felice della sua vita, o che ricorda più volentieri?
La felicità la si scopre sempre dopo, quando non c’è più. Ci sono stati molti momenti felici nella mia vita e me ne accorgo solo ora.
Quali sono le opere alle quali è più legata?
Di solito l’ultima perché è quella che mi ha tenuto compagnia per anni. La convivenza crea affezione. Poi il libro viene stampato e se ne va per il mondo. E nasce un altro rapporto, un altro progetto a cui dedicarsi anima e corpo.
Lei ha avuto un rapporto privilegiato col cinema, frequentava Pasolini e ha collaborato con lui nella sceneggiatura de Il fiore delle mille e una notte, suoi romanzi sono diventati film, ha scritto sceneggiature di film importanti e ne ha diretto anche uno. Può raccontare qualcosa…
Sì ho lavorato molto per il cinema, con Pier Paolo Pasolini, con Marco Ferreri, con Margarethe Von Trotta, con Faenza e tanti altri. Amo il cinema e l’atmosfera che crea intorno a un progetto di racconto. Ma non amo scrivere per il cinema. La sceneggiatura non è fatta per essere letta, ma serve per i tecnici e per i costumisti e per gli scenografi. Una sceneggiatura non deve avere uno stile narrativo, diventerebbe ridicola. La storia sì, c’è e va costruita bene, ma senza nessuna attenzione al linguaggio che per me invece è parte fondamentale del progetto… Oggi infatti quando mi si prospetta un film preso da una mio libro, come ha fatto Irish Braschi con L’amore rubato, dico “fate voi” io non voglio entrarci. Mi basta una fedeltà di fondo al testo e che venga fuori un buon prodotto.
Diverse sue opere riguardano la condizione delle donne in Italia, la strada per raggiungere la parità dei diritti da noi pare ancora molto lunga…
Ormai non si può più pensare solo in termini europei. Il mondo ci sta addosso e il mondo è pieno di ingiustizie che riguardano le donne. Per fortuna da noi molte cose sono cambiate in seguito al movimento delle donne degli anni 70. Possiamo dire che è stata una vera rivoluzione pacifica. Ha cambiato tutte le leggi patriarcali che dominavano nel paese da secoli: dal Diritto di famiglia alle leggi sulla Violenza sessuale, dal Delitto d’onore alle leggi sulla Parità salariale. Ma, come dicevo prima, sarà difficile difendere questi diritti dai vari fondamentalismi, se non ci crediamo veramente. I diritti a cui teniamo non sono diritti occidentali, ma universali e come tali andrebbero rivendicati. Non è un caso che tutti quelli che scappano da guerre, da dittature, vogliano venire da noi: qui c’è pace e libertà, due cose non facili da trovare, due grandi conquiste che ci sono costate infinite sofferenze. Ma ci vuole così poco a perdere tutto. Di questo molti non si rendono conto. Consumano tutte le energie a fare risse interne, per piccole questioni di potere, è proprio una disgrazia. Quando alzeranno lo sguardo dal proprio ombelico si accorgeranno che il mondo è entrato in guerra e non ci sarà più niente da fare.
In La lunga vita di Marianna Ucrìa come in Bagheria ha portato alla luce modi d’essere e sentire che nel nostro Paese non solo sopravvivono da secoli, ma forse hanno trovato nuova linfa in un presente imbarbarito…
Certo l’attaccamento ad alcuni sentimenti, come quello del possesso della persona amata, vive ancora e resuscita appena viene messo in discussione il diritto di proprietà. Come insegnare che le persone non si possono possedere per nessuna ragione al mondo? Possedere una persona, anche se per amore, vuol dire farla schiava e la schiavitù l’abbiamo abolita no? Non è un diritto possedere l’altro, fosse pure un neonato, anche se lo è stato per millenni. La cultura del possesso è talmente radicata che risalta fuori ad ogni guizzo di paura collettiva portando la storia indietro di secoli.
Le condizioni di sofferenza fisica e psicologica alle quali possono portare malattie incurabili, o menomazioni da traumi, incidenti, rendono la scelta di porvi termine come l’unica e ultima libertà che abbiamo. Cosa ne pensa?
Penso che la persona debba essere libera di decidere della propria vita. Nessuna legge può vietarla. Solo la religione può vietare la libertà personale ma per fortuna siamo un paese laico. D’altronde negli ospedali viene praticata di continuo nell’indifferenza generale… Purtroppo il difetto maggiore del nostro paese è che non riusciamo mai a prendere delle decisioni chiare e limpide, trasparenti. Tutto si fa ma in segreto e con la complicità di medici e familiari.
Quali sono adesso i principali stimoli per lei nella scrittura, la memoria, la testimonianza, temi attuali?
Non ci sono regole. Attingo alle esperienze, dirette o indirette, che mi hanno colpito di più.
In questo tempo di contatti virtuali perenni che raramente diventano comunicazione, attraverso le sue opere riesce ad aprire un dialogo col lettore?
Vede, il teatro dovrebbe essere protetto e tenuto caro proprio per questo. In mezzo a una marea di spettacoli virtuali, dove abbiamo sempre davanti uno schermo, in teatro ci sono persone che si incontrano dentro una sala, che interagiscono e intelligenze che si intrecciamo, emozioni che passano da una parte all’altra del palcoscenico. Questa è la grandezza del teatro. Ma anche la narrazione, se è fatta solo per dare pugni nello stomaco, o per consolare, o per eccitare, senza scandagliare in profondità, lascia il tempo che trova, diventa consumo. Il vero scrittore è come un palombaro che scende nelle acque profonde dell’inconscio collettivo e trova degli oggetti anche a lui sconosciuti che porta alla luce della consapevolezza. Non è un eroe, solo ha il coraggio di scendere dove è pericoloso andare. E non lo fa per dimostrare qualcosa, ma per capire lui stesso cosa nasconda il buio.
(31 marzo 2017)
LA VERTIGINE DELLA VITA ALTRUI
ANNOTAZIONI SU STORIA DI PIERA DI PIERA DEGLI ESPOSTI E DACIA MARAINI
di Roberto Chiesi
“Solo le storie sono capaci di colmare gli squarci del dolore. Solo le storie ci aiutano a sopravvivere ai nostri morti” scrive Dacia Maraini nel suo libro autobiografico La grande festa (Rizzoli, 2011). Le storie da osservare o da ascoltare, prima, da chi le ha vissute, come trame da contemplare nella ricchezza e nella complessità di un ordito spesso contraddittorio ed enigmatico, da ritessere, poi, nel fluire della narrazione sulla pagina, affidate al lavoro metodico della scrittura quotidiana, secondo le alchimie e le leggi del respiro narrativo, che non si devono riconoscere alla lettura ma restare segrete, chiuse nell’organicità viva della narrazione. Nella Grande festa, Maraini rievocava i suoi morti ed esorcizzava lo strazio della loro assenza definitiva rendendoli personaggi di storie di un passato che riaffiorava di continuo sulla carta, lasciando emergere alcuni episodi rivelatori della loro personalità, del nodo di affetti e sentimenti che ci legano per sempre a chi non c’è più. Le parole della scrittrice immergevano le immagini dei suoi fantasmi in una luce dolorosa e dolce, struggente, seguendo l’intermittenza della memoria e trovando una forma di pacificazione soltanto nell’affabulazione, nel paziente lavoro di traduzione del dolore nei segni della scrittura e nei movimenti del narrare. Se in E tu chi eri? Interviste sull’infanzia (Bompiani, 1973), Maraini interrogava personalità di scrittori, artisti, registi etc. sul mistero della loro infanzia, sull’identità perduta o preservata di se stessi bambini, in Storia di Piera (Bompiani, 1980) il dispositivo dell’intervista origina un’originale macchina narrativa dove i racconti frammentari di un’altra voce via via compongono la storia di un’altra vita, in quel caso di un’amica, l’attrice Piera Degli Esposti. Maraini accompagnava la narrazione, chiarendo subito quale fosse la sua posizione: “Sono sempre stata così, io, poi sai: mi piacciono più le storie degli altri che le mie… e quando una persona mi interessa, mi affaccio sulla sua vita e sono presa da una specie di vertigine, ci casco dentro e non riesco più a uscirne.” Ascoltare le parole della vita dell’altra, convertirle in una forma scritta che sia fedele al suo modo di esprimersi, è un atto d’amore, di affetto che rimane discreto e pudico, anche se la scrittrice sollecita e stimola a parlare l’amica, divenuta un suo personaggio ma che esiste al di fuori di qualsiasi finzione, perché tutto ciò che racconta l’ha veramente vissuto e sofferto. Affacciarsi sulla sua vita, significa guardarla da una posizione che sembra di distacco, di lontananza, tranne poi scoprire presto che, invece, contemplare quell’esistenza altrui – soprattutto quando è stata così dolorosa, complessa e anomala come quella di Piera – provoca una vertigine che fa cadere dentro quel pozzo di vicende, immagini, traumi e sofferenze. La narratrice cade dentro il pozzo perché nella vita altrui riconosce dei riflessi, delle dinamiche, dei dolori che ha condiviso anche lei, in tempi e luoghi differenti – come “i sogni di una sensualità sepolta sotto coltri di timori, di sensi di colpa, di incertezze” – e non può né vuole resistere alla vertigine di abbandonarsi al flusso quasi ipnotico della memoria altrui. Si avverte subito, come un fenomeno magico, la fascinazione che ha esercitato sulla Maraini lo “strano caso di famiglia sconquassata e infelice che nello stesso tempo contiene in sé le ragioni arcaiche dell’unione e dell’amore. Un amore che contro ogni legge della natura si protrae al di là della vecchiaia, della dissoluzione, della morte fisica”. La madre e il padre di Piera sono personaggi che sfuggono a qualsiasi epoca, che si staccano dal periodo in cui sono vissuti e si impongono in una dimensione mitologica, con la loro diversità e con la violenza del sentimento che li ha uniti e li ha resi unici, fra le famiglie dell’Italia di allora e di oggi.
Isabelle Huppert e Hanna Schygulla in Storia di Piera di Marco Ferreri
Due figure del Mito
La madre, “così roboante nel suo essere donna, così nerissima mia madre, con i capelli neri lunghi, quasi blu, un vitino stretto, un sedere a mandolino, un seno enorme, insomma una donna vera, bellissima”, era una donna che viveva forte, libera, randagia, in primavera ed estate sempre in corsa sulla sua bicicletta, attraversava luoghi di passaggio come bar e stazioni, seducendo gli uomini che le piacevano ma rimanendo legata al marito, sindacalista comunista innamorato pazzo di lei tanto da adattarsi alla sua anomalia, da rassegnarsi a vivere all’ombra della selvaggia energia di lei, che non avrebbe mai potuto rimanere chiusa in una convenzionale vita domestica. Entrambi, il padre e la madre, vivevano in un’appassionata, intensa autodistruzione continua e prolungata, la madre “era una grande “distruttora” della vita, una grande distruttora di sé. Spesso mi diceva: devi essere contenta, perché hai una bella vita. Lo dice perché lei non l’ha avuta. Era scalmanata violenta selvaggia, non è stata felice…”. Piera Degli Esposti si interroga spesso, con un dolore sempre vivo, sull’enigma di sua madre, che fu anche vittima delle meschinità e delle repressioni della società del suo tempo (che la obbligava a frequenti, distruttivi elettroshock): “penso che mia madre sia abitata come da persone, da paure, furori sessuali, sensi di colpa, chissà, una folla di persone, di voci e lei non ci sta, fugge”. Queste fughe continue si arrestavano d’inverno, dove la sua energia si rarefaceva: “d’estate era degli altri, mi cacciava, mi allontanava… d’inverno si chiudeva, dormiva, era questa doppiezza che mi tormentava”. Mentre affabula, Piera segue sempre dei movimenti divagatori, lascia momentaneamente i genitori e se stessa in un frangente per seguire un’altra vicenda, ma ritorna inevitabilmente a loro, spesso ritrovandoli nella solitudine in cui li ha lasciati, in cui hanno vissuto quasi tutta la loro tormentata esistenza. Quando li ricorda insieme, evoca una breve vacanza, una delle rare parentesi di normalità, che non può non ricordare con rimpianto: “io avevo una gioia di vederli, loro due, normali, insieme, questa cosa così strana…” L’eccezionalità, l’anomalia di questi due genitori li rende necessariamente, agli occhi della figlia ma anche a quelli della narratrice/intervistatrice che ascolta e ritesse e di noi lettori, come si è detto, delle figure mitologiche perché vivono in un’altra dimensione rispetto a quella della norma e della quotidianità. Questa dimensione mitologica – dove agisce una morale che non corrisponde a quella comune – ha attratto l’attenzione della scrittrice anche perché vi ha forse riconosciuto alcuni lineamenti del proprio sentimento nei confronti della famiglia e delle figure genitoriali. Maraini, infatti, è condotta dalle parole dell’amica a confrontare il proprio amore per il padre con il sentimento provato dall’amica per il suo, scoprendo dinamiche di analoga complessità in una storia diversissima. Naturalmente Maraini è affascinata anche dall’eroina protagonista, Piera, eterna ragazza, dotata di una sensibilità a fior di pelle ma anche della resistenza di una guerriera che si risolleva da ogni duro colpo le venga inferto (abusi sessuali quando era bambina, malattie, morte del padre) e che ha trovato definitivamente se stessa nella recitazione (come Maraini nella scrittura). L’autrice di Teresa la ladra la guarda con complicità e al tempo stesso con lucidità, ne analizza il linguaggio “fatto di immagini-segnali che escludono con decisione inconsapevole i luoghi comuni del parlato cosiddetto normale”, un linguaggio che già ne esprime la diversità, con numerose e vivaci punte espressive valorizzate dalla mano della stessa Maraini, intervenuta sulle pagine di trascrizioni del loro dialogo registrato. Confessa che “a volte faccio fatica a seguirti perché salti da un’epoca a un’altra, non hai il senso del tempo, come se il tuo passato dentro di te fosse tutto su una stessa fila, senza profondità, senza passaggi… ma mi piace seguirti.” Perché significa confrontarsi con un altro sentimento del tempo, opposto al suo, che la può condurre a rivendicare il valore delle fantasie femminili coltivate nella reclusione di tante donne coatte dentro le case domestiche: “Oggi le donne scendono in strada perché ogni movimento porta con sé anche una ferocia di liberazione, non vorrei che si dimenticasse come è bella la loro fantasia che si è formata dentro i muri, dentro gli interni delle case, come sono importanti, affascinanti queste fantasie che nascono dagli interni… nessuno si domanda mai: ma cosa fa quella donna tutto il giorno là dentro casa? Cosa pensa tante ore, sola, cosa sente? (…) Il cervello della donna è un cervello che non si conosce, è sempre stato chiuso nei muri, negli interni, con quei furori sopiti, quelle lunghissime malinconie, quei torpori, quelle sensualità…” Maraini e Degli Esposti evocano in queste poche parole la solitudine di tante donne che hanno sacrificato le loro esistenze ai mariti e ad una reclusione dominata dai doveri di moglie-madre ma che, come carcerate, conservavano un giardino segreto nelle loro menti dove essere libere, dove vivere, da sole, emozioni inconfessabili e rimaste silenziose. Questo continuo ondeggiare del tempo, lasciato giustamente alle sue intermittenze – “Non mi va di fare l’ordinatrice… penso che lascerò le cose come stanno, nel loro disordine, come sono venute…” – conferisce ai flussi delle parole e delle immagini che evocano una vivacità intensa. Piera è un io femminile “vissuta fra la grazia disperata di mio padre e l’aggressività di mia madre”, legatissima affettivamente ad entrambi ma con dinamiche molto diverse. Una bambina che ha sofferto della solitudine in cui si è trovata, della necessità di arrangiarsi da sola: “io ero la figlia di me stessa. Io ero la mia bambina”.
Dopo il passaggio dall’oralità alla pagina scritta, Storia di Piera ha poi vissuto un’ulteriore metamorfosi, diventando un film nel 1983, alla cui sceneggiatura hanno lavorato, ancora, le due amiche. Come ha raccontato Piera Degli Esposti nell’intervista audiovisiva del dvd del film (a cura di Silvia d’Amico Bendicò, Gioia Magrini e Roberto Meddi, edizione Medusa, 2011), i registi che avevano espresso il proprio interesse per un adattamento, furono Marco Bellocchio, Lina Wertmüller, Salvatore Piscicelli e Marco Ferreri, ma fu scelto quest’ultimo, particolarmente congeniale ed amato da Degli Esposti:“Le ha costruito intorno un paesaggio indimenticabile”. Ferreri ha privilegiato il personaggio della madre (interpretata da una straordinaria Hanna Schygulla, premiata a Cannes) su quello della figlia (Isabelle Huppert da adulta e Bettina Gruhn da bambina) ma è attraverso lo sguardo di quest’ultima che vengono rivissute le esistenze di questi due genitori (il padre è Marcello Mastroianni). Anziché ambientare la storia a Bologna, Ferreri ha preferito trasporla in una cittadina immaginaria che risulta dalla fusione di luoghi di Sabaudia, Latina e Pontinia. Con le sue sceneggiatrici, ha aggiunto numerosi episodi, imprimendo al racconto una linearità temporale cui le ellissi, le sospensioni, le dilatazioni, l’intensa corporalità di molte situazioni, conferiscono un’aura visionaria. Anche Dacia Maraini ha amato il film, ritenendo la sceneggiatura più bella fra tutte quelle cui abbia lavorato: “credo di aver dato molto alla definizione dei due personaggi – la madre e la bambina – e al rapporto tra le due. Con Marco ho lavorato bene, nonostante la sua fama di pessimo carattere, anche vera. È un uomo di grande sensibilità e di grande rispetto per la persona con cui lavora. Ha rispettato moltissimo il lavoro mio e di Piera anche sul piano della sceneggiatura. Ha fatto suoi, e reso visione immagine, una struttura e personaggi che già c’erano, che sono rimasti. (…) quando si scrive, Ferreri ha bisogno di continui riferimenti d’immagini, non punta sulla psicologia o sulla narrazione o sui fatti, quel che conta per lui è l’immagine, e si sono costruite intere scene attorno a un’immagine.” (da Franca Faldini e Goffredo Fofi, Il cinema italiano d’oggi 1970-1984 raccontato dai suoi protagonisti, Mondadori, 1984).
ROBERTO CHIESI, critico cinematografico e responsabile del Centro Studi – Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna, è membro del comitato di redazione dei periodici «Cineforum» e «Studi pasoliniani». Scrive per i periodici «Cineforum, «Segnocinema», «Cinecritica» e «Cinemasessanta». Ha collaborato al Dizionario Treccani del cinema e alla Storia del cinema italiano 1970-1975 della Scuola Nazionale di Cinema. È autore o curatore, fra gli altri, dei libri Hou Hsiao-hsien. Cinema delle memorie nel corpo del tempo (Le Mani, 2002), Jean-Luc Godard (Gremese, 2003), Pasolini, Callas e «Medea» (FMR, 2007), Il cinema noir francese (Gremese, 2015), Cristo mi chiama ma senza luce (Le Mani, 2015), di alcuni film della collana dvd di Bim Bergman Collection e, per le edizioni Cineteca di Bologna, di La rabbia (2008), Appunti per un’Orestiade africana (2009, dvd e libro), Fuoco! Il cinema di Gian Vittorio Baldi (2009), L’Oriente di Pasolini (2011), Accattone (2015), Il mio cinema (2015) di Pier Paolo Pasolini e dell’edizione dvd di Salò o le 120 giornate di Sodoma (2015).
IL TEATRO PER LE DONNE DI DACIA MARAINI
di Michela Turra
“Ma che ne potete sapere di una puttana che si è mangiata il cuore?” È “Veronica, meretrice e scrittora” che, dal lazzaretto, si rivolge a Dio in questi termini dalla penna di Dacia Maraini: uno dei suoi personaggi teatrali più belli, donna in senso pieno, cortigiana veneziana del Rinascimento che vive d’amore, passione e scrittura. Una delle tante protagoniste a tutto tondo cui la scrittrice ha dedicato il proprio teatro:
come Maria Stuarda, Clitennestra, Charlotte Corday, Santa Caterina da Siena, “Camille” – all’anagrafe Claudel, scultrice, amante di Rodin e sorella del poeta Paul, che insieme alla madre la fece internare e morire in un manicomio senza fondati motivi -. Lo scarto tra il cuore delle donne e la cruda realtà è poetica ricorrente nella copiosa produzione teatrale di Dacia Maraini, che si è espressa in testi politici, femministi ,d’impegno storico e sociale, rappresentati ovunque, tradotti e continuamente riproposti a distanza di anni. Da Viva l’Italia, sul brigantaggio al sud tra il 1861 e il 1865, a La donna perfetta, in cui una ragazza ingenua e innamorata finisce per morire di aborto, a Il cuore di una vergine, specchio di ipocrisie e brutture in un carcere femminile immaginario, ai tanti monologhi femminili, il registro è drammatico e spesso culmina in finali tragici. Ciò che colpisce è l’intensità, la forza della scrittura, quasi la drammaturga volesse liberare dalla gabbia della pagina la parola, che da scritta deve farsi viva in palcoscenico. La Maraini si è del resto cimentata in teatro a tutto tondo,nel 1973 fondando insieme a Maricla Boggio e altri il teatro de La Maddalena, per la cui compagnia ha scritto a quattro mani con l’attrice Prudencia Molero l’atto unico Suor Juana, altro personaggio di grande complessità, e ancora prima, nel 1966, creando, insieme ad Alberto Moravia, Enzo Siciliano ed altri intellettuali, la Compagnia del Porcospino. In quel piccolo spazio nel cuore di Roma, di cui era un habitué anche Pasolini, gli scrittori si confrontavano, si scambiavano idee e rappresentavano i propri e gli altrui testi. Un battesimo eccellente per Dacia, per la quale il dialogo e lo scambio con gli altri è sempre stato fondamentale, a disposizione della macchina teatrale a trecentosessanta gradi, a volte sarta a volte regista (di Alberto Moravia nel suo La vita è gioco ad esempio). Il suo Stravaganza, riguardante cinque malati di mente all’indomani della legge Basaglia orfani del luogo di contenzione dove finiranno per tornare, ha interessato Federico Fellini, mentre con Piera Degli Esposti l’operazione è stata inversa a quella consueta e il vissuto dall’attrice è finito in un libro scritto a quattro mani, poi divenuto film. Donne descritte nella loro difficile libertà accanto naturalmente a uomini: di cui la pièce tutta femminile diretta da Gabriele Marchesini nel 1977 Una casa di donne, tratteggia molte possibili tipologie maschili. Per lo stesso regista, nello spettacolo In viaggio da Itaca rappresentato al teatro Bonci di Cesena nel 2010, la Maraini ha dato vita alla sofferenza amorosa di Calipso, affrancando la ninfa dal suo personaggio di contorno e rendendola protagonista. Scorrendo la sua fortunata e generosa parabola teatrale, si scopre che l’iter marainiano segue quello della storia del teatro italiano stesso: teatrini underground e gruppi d’avanguardia negli anni Sessanta e Settanta, poi teatri e compagnie più importanti una volta passata l’onda della ricerca. Negli anni Duemila, tanto per dire, A piedi nudi, testo che fa parlare tre donne molto diverse per bocca di una sola attrice, approda al Piccolo Eliseo di Roma, e Dialogo di una prostituta con un suo cliente, scritto nel ’73, al Brancaccino, per la regia di Walter Manfrè sempre nella capitale. In contatto con varie realtà italiane (ad Arona è direttrice artistica del festival Teatro sull’Acqua), prodiga con gruppi in difficoltà (ad Antella non ha voluto i diritti per aiutare la compagnia “A tratti brevissimi”), la Maraini coniuga la passione per la scrittura con quella per la scena grazie alla sua felice capacità espressiva. Fare Teatro. 1966-2000, due volumi editi da Rizzoli raccolgono trent’anni di testi suoi, ma già nel 2012 lo stesso editore ha pubblicato Dialogo di una prostituta con un suo cliente e altre commedie, comprendente anche inediti. Il successo, come il teatro, non sopporta i tempi morti.
MICHELA TURRA vive e lavora a Bologna. Laureata in Scienze politiche con una tesi sul cinema di Antonioni, giornalista professionista, ha pubblicato sei romanzi, tre dei quali per ragazzi, e una raccolta di poesie, oltre a vari racconti e testi poetici su antologie e riviste. E’ autrice di teatro e direttrice della rivista di poesia “Le Voci della luna”. Si occupa e scrive di arte figurativa.
TRE GIOVANI DONNE E UNA RIVISTA LETTERARIA DEGLI ANNI SESSANTA: ANGELA GIANNITRAPANI, MARISA DI IORIO E DACIA MARAINI NELLA REDAZIONE DI “TEMPO DI LETTERATURA”
di Loredana Magazzeni
“tempo di letteratura” fu una rivista letteraria fondata da Angela Giannitrapani e Marisa Di Iorio, che vide racchiusa nei quattro numeri, tutti editi fra ’60 e ’61, una riflessione filologica ed insieme politica sulle forme e i destini della letteratura italiana e straniera agli inizi degli anni Sessanta. La rivista esce con il 1° numero nel marzo 1960, pubblicata dalla casa editrice napoletana Pironti, di Napoli. Ha sede redazionale a Viterbo, direttore responsabile ne è Nullo Minissi, orientalista ed esperto di letteratura comparata, docente a Napoli dal 1958 e a lungo Rettore dell’Università Orientale, marito di Angela Giannitrapani. Nell’introduzione al primo numero (non firmata) si dichiarano gli intenti della rivista, che rivendica le radici europee della cultura italiana, proprio nel momento in cui l’Europa esce dalle macerie della distruzione recata dai due conflitti mondiali: “Per undici secoli la cultura è stata “Europea”, ma “La prima metà del nostro secolo ha consumato la distruzione della “Europa”, così che da “mondo” è divenuta una “parte del mondo”. La rivista si propone il fine di “cogliere in concreto gli orientamenti letterari del dopoguerra dal punto di vista della crisi della “Europa”, mentre riconosce il valore sociale della letteratura proprio nel suo essere “l’elemento più importante nella formazione della coscienza”.
La redazione è composta, come si diceva, da Angela Giannitrapani, di origini siciliane (Marsala, 1925 –Viterbo, 2009), studiosa e poi docente di Letteratura angloamericana in varie università italiane (Viterbo e Messina) e straniere (Reading e Los Angeles), che ha all’epoca trentacinque anni, e due scrittrici ventenni che, da Napoli e Palermo si sono trasferite da poco a Roma, e la napoletana Maria Luisa Gambardella (cognome da sposata di Maria Luisa – Marisa – Di Iorio, che fonderà, agli inizi degli anni Ottanta, la casa editrice romana Empirìa). Successivamente, Marisa Di Iorio inviterà a far parte della redazione Dacia Maraini, che ha da poco pubblicato alcuni racconti, tra cui Sotto l’albero carrubo, su “Nuovi Argomenti”. Marisa, che aveva cominciato a lavorare nella redazione di “Nuovi Argomenti”, collaborando a un’indagine sull’edilizia romana1, invita Dacia Maraini a unirsi alla redazione di “tempo di letteratura”. Queste note sono riportate dalla stessa Marisa Di Iorio, allora appena laureata in Filologia romanza, sotto la guida di Salvatore Battaglia, all’Università Federico II di Napoli, nella postfazione di Lettere a Sombre, libro pubblicato postumo dell’amica Angela Giannitrapani, conosciuta proprio in quel Chiostro del Salvatore, sede dell’Istituto di Filologia Romanza2 a Napoli. Anche Sombre, pseudonimo affettuoso con cui Angela chiamava il maestro viterbese Felice Norcia, collabora al primo numero con un intervento poetico.
Nei quattro numeri della rivista, che uscirono fra 1960 e 1961, le collaborazioni risultano aperte a una cultura europea edangloamericana, con contributi che spaziano dalla poesia alla narrativa, alla critica letteraria. Un apporto d’arte è dato fin dall’inizio dalla grafica della copertina, uguale per tutti i numeri, ad opera del pittore concettuale milanese Lucio Pozzi, allora marito di Dacia Maraini. Sul nero di fondo, uno squarcio nella carta lascia intravedere il titolo della rivista, “tempo di letteratura” (scritto tutto in minuscolo) e un piccolo lembo di colore giallo, come un sole che esca da una lunga tenebra. E dalla lunga tenebra del dopoguerra usciva infatti la cultura italiana, negli intenti delle redattrici, che alternano interventi di scrittori e critici accademici a quelli di esordienti e ai propri. Nel 1° numero,il contributo di Giannitrapani e quello dello studioso statunitense Frederick Hoffman sono incentrati sul romanzo americano dopo il 1950, e soprattutto su Faulkner, autore di principale interesse per Angela Giannitrapani, che aveva dedicato proprio allo scrittore americanoun lungo studio pubblicato nel 1959, negli Annali dell’Istituto Universitario Orientale.
La letteratura americana, prodotta da scrittori come Faulkner, Hemingway, Steinbeck e Dos Passos, viene indicata nel lungo saggio come quella che, fra gli anni ’40 e ’50 del Novecento,ha tentato di parlare alle coscienze europee, ridefinendo e ristabilendo i confini spesso violati fra uomo e terra, vitalismo ed equilibrio naturale, con uno sguardo al rapporto etico fra letteratura e storia, rapporto che anche la letteratura italiana ha sempre sentito fortissimo, nascendo educativa e civile e portando all’attenzione del lettore il reale e le sue “degradazioni”, in rapporto al potere e alla storia. Sono gli anni del Neorealismo, nella letteratura e nel cinema. Sul primo numero della rivista appaiono due racconti di tipo neorealista, uno di Giuseppe Bonaviri, Appunti per un diario medico, e uno di Dacia Maraini, Racconto 12, su cui ci soffermeremo. Nel secondo numero la narrativa è affidata al giornalista Nino Longobardi (Torre del Greco, 1925 – Roma, 1996) con un lungo racconto in forma di diario, I giorni della miseria; nel terzo e quarto numero, usciti in un’unica edizione, datata “Estate 1961”, per la narrativa ritroviamo la penna di Dacia Maraini, con il lungo racconto L’esame, Franco Mendico, con una breve prosa dal titolo La fiasca rossa e lo scrittore e giornalista romano Alessandro Silj (Roma, 1935), con un metafisico Racconto. Vengono pubblicati inoltre su tutti e quattro i numeri contributi saggistici di taglio filologico sulla lingua nella narrativa italiana contemporanea, in particolare da parte di Angela Giannitrapani che affronta,ad esempio,il tema della lingua in Carlo Cassola, il quale aveva appena pubblicato il suo romanzo più famoso, La ragazza di Bube (prima pubblicazione, Einaudi, 1960). Salvatore Battaglia, le cui lezioni, seguite da Marisa Di Iorio e da Angela Giannitrapani, che si era laureata in Lettere qualche anno prima di Marisa, erano state l’occasione per la loro conoscenza, compare in veste di collaboratore nel secondo numero della rivista con un denso saggio sul romanzo di Vasco Pratolini, Lo scialo (prima pubblicazione, Mondadori, 1960), nel contributo intitolato Il nuovo romanzo di Pratolini. Sebbene anche la poesia faccia la sua comparsa su “tempo di letteratura“, e alcuni autori, come Sombre, Maraini, Gambardella e Bonaviri, vi compaiano sia in veste di narratori, sia come poeti, e nonostante il secondo numero rechi un corposo inserto di poesia polacca e tedesca, la rivista dedica un’attenzione maggiore alla narrativa, che sembra essere la lingua comune e la coscienza di quegli anni intessuti di neorealismo, immortalati dal cinema, portatori del peso e del clima pesante del dopoguerra.
Sono anni di formazione letteraria per tutte e tre le scrittrici, che vedono l’intrecciarsi di linee di tensione intellettuale che vanno dall’impegno critico nei confronti della società del dopoguerra agli innestidelle varie tendenze del neorealismo e del nuovo romanzo italiano, ma anche all’influsso della narrativa americana. In particolare colpisce il forte stile paratattico del Racconto n.12 di Dacia Maraini, in cui viene disegnata, con rapidità e sicurezza descrittive, la quotidianità di una famiglia borgatara (si parla di un piccolo paese di mare, senza specificare se si tratti di un piccolo comune del litorale romano o della Sicilia) composta da una madre, vedova di guerra, e dai suoi tre figli, Lucrezio, Bebé e la più piccola, d’età indefinita e senza nome, cui è lasciato il punto di vista e il racconto delle vicende. Il tema della povertà, dello sfruttamento sul lavoro, della prostituzione giovanile, dell’esclusione, del sogno negato di affermazione sociale (Lucrezio vuole diventare attore, Bebé si fa corteggiare da uomini ricchi che poi l’abbandoneranno), del desiderio di sicurezza per i figli e di riscatto, da parte della madre, destinati ad infrangersi presto, sono le tappe attraverso cui si snoda la narrazione affidata alla figlia più piccola, quella considerata dai due fratelli un po’ scema, quella che si identifica nella madre, nel suo ottimismo pieno di illusioni, destinato a cadere:
Lucrezio diede un calcio al letto. Infilò le mani nelle tasche, con forza, come se volesse sfondarle. Tirò su dal naso. Sputò in terra. «Porco mondo. Porco, porco porcoporco» urlò sbattendo la testa contro il muro. Il catrame untuoso della notte imbrattò la finestra. Colò appiccicoso fra i buchi del tetto. La casa era sommersa. Il fuoco faticava a drizzare le orecchie. Agitava la coda violetta. Cercai la luna fra gli angoli scalcinati e le croste dei tetti, lì dove si accumulano gli escrementi dei gatti e vi cresce l’erba. Il catrame resinoso l’aveva lordata tutta, come un decotto di liquorizia, l’aveva insudiciata e non se ne scorgeva che un alone labile macchiato di nero3.
Dei vinti di borgata, la cui morte si allarga come profumo di “gelsomini nella sera” attorno alla bambina che sopravvive aggrappata nel letto alla madre, “Fiato nel fiato”:
La mamma mi abbracciava. Voleva che dormissi stretta a lei. Non mi lasciava respirare. Fiato nel fiato. I miei fratelli vivevano, fuori di me in qualche posto, come gelsomini della sera4.
Nel secondo numero, datato “Estate 1960”, il contributo di Maraini è una lunga poesia, dal titolo Ma chi cantare, dedicata al tema degli eccidi di guerra e della morte per odio dei bambini ebrei nei lager nazisti. La poesia canta il bisogno di non dimenticare, di prendere “carta e matita” e testimoniare ciò ch’è stato di inaudito, ora che “la guerra è passata e le case sono tornate a vivere”, e il pericolo è nel non pensare più all’orrore “dei bambini che morivano a chili e puzzavano/ puzzano ancora/ di odio e di gas/ della morte dolciastra di latte/ di anice e disinfettante/ di biscotti e cloroformio”.
Nel terzo e quarto numero, riuniti in un’unica raccolta, la rivista ospita di nuovo un lungo racconto di Dacia Maraini L’esame. Il protagonista, Giovanni, è un adolescente visto nel suo rapporto con la realtà che lo circonda: la famiglia, la scuola, il mondo adulto ancora sconosciuto e la sessualità. Giovanni non è ricco: vive con la madre separata, magliaia, figlia di un contadino anarchico, e con la sorella Lilla, che sta per sposare Peppe, un giovane che presto emigrerà per andare a lavorare in Francia nelle miniere. I suoi compagni sono il Cella, il Coniglio, attraverso i loro occhi scopre l’attrazione per le ragazze, mentre a casa è lui ad essere oggetto di attrazione per una giovane vicina sposata, la signora Mella, con cui consumerà i primi rapporti sessuali. Giovanni viene bocciato e perde un anno di scuola. Durante l’estate, in una Roma infuocata e vuota, decide di provare a superare l’esame di quarta e di quinta liceo insieme. Il nuovo anno scolastico trascorre in modo diverso, Giovanni si chiude in casa in uno studio matto e disperatissimo, ma non trascura di osservare intorno la vita che va avanti: la sorella Lilla si scopre incinta e la sua figura s’ingrossa, presto avrà un bambino. Ma il cambiamento riguarda tutti: Giovanni scopre di amare la storia, lo studio non nozionistico come quello che impartiscono con riluttanza i suoi professori di scuola, ama la storia viva e vorrebbe approfondire ogni argomento, ogni domanda. Scopre che l’italianità, di cui parla il prof. Tarocco “come di una cosa preziosa da conservare”6, invitando i suoi allievi a evitare i romanzi moderni e comunque le “idee che non fossero le sue o del libro di testo”, è qualcosa di lontano dal suo mondo, da Lilla che cambia forma, dal dottore dai gesti untuosi, ma soprattutto dalla sua sensazione di avere “una vita davanti da costruire e la violenta sensazione di non poter comunicare con gli altri”7.
Il racconto o romanzo di formazione, che poi vedrà lo splendido esordio di La vacanza8, è qui condensato e rovesciato rispetto ai suoi precedenti storici: non dunque al cosiddetto romanzo di scuola, si rifà Maraini, a cui si ispirano le opere iniziali di Leonardo Sciascia o di Lucio Mastronardi o di Laudomia Bonanni, gli adolescenti in formazione (Giovanni ne L’esame, Anna ne La vacanza) hanno occhi solo per viaggi all’interno di se stessi e alla scoperta della propria sessualità come qualcosa che è linea di confine, fragile e permeabile, continuamente percorsa e negoziata fra mondo adulto e mondo bambino. Una sessualità indefinita ma potente, tanto nei ragazzi adolescentiquanto negli adulti, dove l’ambiguità risiede nel non tagliare mai il confine con l’erotismo che emana dal corpo bambino, quasi a rasentare l’abisso della pedofilia e l’indistinzione. Tanto Pasolini quanto Nabokov o Morante o Maraini o Sapienza attraversano nei loro romanzi questa indistinzione erotica, la descrivono e ne danno voce, senza condanna o autocompiacimento, proprio negli anni in cui la liberazione sessuale è appena un lontano sentore di rivoluzione e di lotte che giungono dagli USA e che si insinuano timidamente nelle nostre case e nelle scritture contemporanee destinate a restare.
Di questo laboratorio di scritture, incubatoio di presente e di linguaggi, la rivista di tre donne, “tempo di letteratura”, ha saputo dare un piccolo ma vigoroso assaggio, seppure nella sua breve stagione. Stagione da tornare a indagare, per ritrovare oggi l’attualità di quelle stesse domande al nostro tempo e alla nostra letteratura.
Note:
1) Paolo di Paolo, Empirìa, ovvero, la dignità e la ricerca. Intervista a Marisa Di Iorio, www.italialibri.net; altre notizie su Dacia Marini in Nuovi Argomenti in Carol Lazzaro-Weis, Dacia Maraini, in Rinaldina Russel, ItalianWomen Writers. A Bio-Bibliographical Sourcebook, Greenwood Press, Westpoint, Connecticut, London, 1994, pp. 216-217.
2) Angela Giannitrapani, Lettere a Sombre (1956-1964), Introduzione di Felice Norcia, Nota finale di Marisa Di Iorio, a cura di Gabriella Norcia, Roma, Empiria, 2010.
3) Dacia Maraini, Racconto n. 12, in “tempo di letteratura”, n. 1, pp. 26-58; le citazioni sono da pp. 54-55
4) Ibidem, p. 58.
5) Dacia Maraini, Ma chi cantare, in “tempo di letteratura”, n. 2, pp. 54-59.
6) Dacia Maraini, L’esame, in “tempo di letteratura”, n. 3-4, estate 1961, pp. 117- 178, la citazione è presa da p. 143.
7) Ivi, p. 132.
8) Dacia Maraini, La vacanza, prefazione di Alberto Moravia, Milano, Lerici, 1962.
LOREDANA MAGAZZENI vive a Bologna e dal 1998 fa parte della redazione della rivista “Le Voci della Luna” e del Gruppo ’98 di Poesia. Ha pubblicato poesia (La miracolosa ferita, Canto alle madri e altri canti, Fragilità del bene, Volevo essere Jeanne Hébuterne), curato antologie e traduzioni di poesia (con F. Mormile, B. Porster e A. M. Robustelli La tesa fune rossa dell’amore. Madri e figlie nella poesia femminile contemporanea di lingua inglese, 2015, La Vita Felice), saggi e articoli su letteratura e storia delle donne.