Cléo de 5 à 7
Parigi, 2 giugno 1961. Alle 17, Cléo, una cantante famosa che sta aspettando i risultati di un’analisi medica, si è recata da una cartomante; le previsioni sono cattive. Per un’ora e mezzo, riempie il tempo cercando di neutralizzare la sua angoscia, facendo acquisti, provando cappellini, prendendo un tassi, ricevendo la visita dell’amante, provando una canzone con i parolieri, vedendo un breve film dalla cabina di proiezione di un amico, ciondolando per il parco Montsouris… Qui incontra un soldato in licenza che la conforta per il suo buonumore e l’accompagna alla Salpétrière, dove le viene detto che deve cominciare un trattamento al cobalto. Claude Beylie
Tra le strade e nelle case di Parigi, un’ora e mezza della vita di una giovane e bella cantante convinta di essere stata colpita da un male incurabile e ormai sospesa al filo di una diagnosi clinica. La storia di una dolorosa presa di coscienza narrata con dolce partecipazione e con eleganza, splendidamente servita dalla concretezza delle immagini di Rabier e dalla presenza fisica della protagonista, Corinne Marchand. Uno dei più convincenti film «sulla donna»: la città, gli incontri, gli oggetti come li vive una ragazza malata, proprio nel momento in cui più si attacca alla realtà accentuando il suo rapporto con il mondo esterno. Massimo Magri
Senza tetto né legge
Tutta la sua esperienza di documentarista, Agnès Varda l’ha in qualche modo espressa in questo film, che ha per tema gli ultimi giorni di una ragazza trovata morta in una vigna, ad qualche parte in una Linguadoca gelata. Non aveva nessun posto dove andare, la vagabonda che tutti avevano respinto, gentilmente o duramente, ma senza drammi. Perché la forza del film sta nel non voler spiegare niente (neppure la scelta di vagabondaggio, di erranza della sua eroina) né condannare. Nel dire semplicemente, senza inutili scatti di voce, che si può morire di indifferenza. George Sadoul
In un fosso viene ritrovato il corpo di Monà (Bonnaire) una giovane morta per assideramento. Il film ne ricostruisce, in forma semi-documentaristica, gli ultimi giorni di vita il lavoro in una fattoria, l’amore di un tunisino, l’affetto di una ricca signora (Méril), il vagabondare senza meta in autostop. Il vecchio tema della società del benessere che non può tollerare la sete di libertà dell’individuo: la bella prova di Sandrine Bonnaire risente però dei facili simbolismi della sceneggiatura (il ritono al mare) e di un pacificante umanitarismo di fondo. Leone d’oro a Venezia. Paolo Mereghetti
Jane B. par Agnès V.
Ritratto-confessione-messa in scena di Jane Birkin, attrice, cantante e musa di intellettuali, a cui la Varda aggiunge scenette ed episodi spesso stucchevoli, con la Birkin nei panni di Stanlio (in coppia con Laura Betti-Ollio), Giovanna d’Arco e Calamity Jane. Narcisistico, artefatto e compiaciuto, malgrado qualche momento di verità. Dalle conversazioni tra le due à nata l’idea di Kung Fu Master… Paolo Mereghetti
Garage Demy
Pudica dichiarazione d’amore al cinema e a Jacques Demy (interpretato nei vari momenti della gioventù da Maron, Joubeaud e Monnier), regista e marito della Varda, scomparso da qualche anno: è un film di rara bellezza, dove arte e vita s’intrecciano senza retorica e con molta emozione. La memoria dell’infanzia, ricostruita in bianco e nero, diventa cinema a colori, inserito nel racconto mediante spezzoni delle opere successive (…) Le esperienze minute del singolo diventano patrimonio collettivo, la cronaca personale è il punto di partenza per raggiungere l’immaginario altrui, secondo le regole di un cinema “militante” non solo in senso politico. E a siglare tutto compare Demy stesso, in riva al mare, ormai invecchiato. Paolo Mereghetti
La regista francese di Senza tetto né legge rende omaggio al marito Jacques Demy con questa pellicola che è un atto d’amore verso il cinema. Si narra dell’adolescenza di Demy che attraversa il periodo 1938/1949. Ciò che interessa la Varda sono gli avvenimenti personali… Mymovies.it
Les Glaneurs et la glaneuse
C’era una volta la spigolatura. Così potrebbe iniziare la recensione di questo splendido documentario della Varda. Oppure: chi crede che il documentario sia una specie di sottogenere paratelevisivo veda questo e si ricreda. Perché grazie all’uso di una handycam digitale l’autrice di Sans toit ni loi torna a visitare un mondo di emarginazione di miseria che vive accanto a noi, non è costituito (come certa propaganda vorrebbe far credere) principalmente da extracomunitari ed è ricco di un’umanità che ha fatto definire a più riprese “amiche” le persone che la regista ha incontrato e ripreso. Nella tradizione letteraria italiana esiste ( o è meglio dire “esisteva”) una poesia risorgimentale intitolata La spigolatrice di Sapri. In quella francese domina il quadro di Millet esposto al Musée d’Orsay. Ma quasi più nessuno ricorda cosa sia la spigolatura, cioè il raccogliere i chicchi di grano rimasti in terra dopo la mietitura. Oggi la spigolatura avviene quotidianamente nei mercati, nei cassonetti delle immondizie, nei campi dopo che, ad esempio, le patate sono state “calibrate” perché in vendita vanno messe solo quelle con un certo aspetto e dimensione. Gli spigolatori di oggi sono persone che hanno fame e che, per assurdo, grazie agli sprechi di una civiltà dei consumi sempre più cieca e indifferente, possono sperare di sopravvivere. La Varda li segue e li riprende con lo stesso sguardo, malinconico e solare al contempo, con cui inquadra le rughe delle sue mani o la fragilità dei propri capelli. Perché questa è una lezione di cinema girato in video che unisce una grande libertà a una passione forte e matura… Mymovies
Visages Villages
Visages villages, che nel suo percorso nella Francia dimenticata ricorda – sia pur su un piano diverso – Jours de France di Jérôme Reybaud, presentato alla scorsa edizione della Settimana della Critica, è anche molto altro: è innanzitutto un mélange inestricabile di cinema e vita – come sempre nel cinema della Varda e, più in generale, nella Nouvelle vague – in cui si ragiona sulla vecchiaia, la malattia, la morte, ma anche l’amicizia.
Visages villages – questo gioco di parole puramente godardiano – infatti mette in scena prima di tutto la curiosa amicizia tra l’anziana Varda e il giovane JR (è lui che ha cercato lei e che ha voluto incontrarla), e lo fa con grande ironia: JR prende spesso affettuosamente in giro la Varda, e lei – nel suo ruolo di saggia vecchia/bambina – lo lascia fare. I due si confrontano costantemente su come procedere nel film, su dove andare a viaggiare, su quali luoghi, volti e foto ragionare, costruendo così un discorso meta-cinematografico allo stesso tempo stratificato e semplice, immediato e ‘abissale’. Una mise en abyme che viene citata dalla stessa Varda, per un discorso concettuale che per l’appunto non si nasconde in simbolismi oscuri ma si palesa nella sua auto-evidenza. E infatti il disvelamento della piena consapevolezza del discorso lo si ha in un momento che è anche il più commovente del film: la Varda insiste per mettere la foto di un suo amico scomparso sulla parete di una vecchia rovina nazista della Seconda Guerra Mondiale, fatta cadere da un promontorio e conficcatasi sulla spiaggia, come un meteorite, un ricordo incancellabile e ‘scomposto’ di un passato doloroso; è lì che chiede che venga fatta questa operazione di mise en abyme (la foto, risalente a cinquant’anni prima dell’amico, tra altre rovine), ed è lì che, amaramente, deve constatare come, soltanto il giorno dopo, l’opera sia sparita, cancellata dalla forza oscura del mare. Le immagini durano per poco, ci dicono Varda/JR, ma durano comunque sempre più dei corpi e della loro caducità. E se poi le immagini muoiono, è il cinema a restare. Alessandro Aniballi (Quinlan)
Visages Villages fin dal titolo mette in chiaro l’intento del documentario, un road movie nei villaggi e nelle periferie della Francia attraverso gli sguardi degli abitanti del passato e del presente. Come già era accaduto con Megunica (Lorenzo Fonda, 2008), viaggio in America Latina dello street artist Blu, JR documenta la sua ricerca creativa itinerante, caratteristica intrinseca di un’arte nomade, che, nonostante la mercificazione museale degli ultimi anni, resta fedele ai propri principi dettati dalla durata effimera delle opere, dal legame imprescindibile con la storia e l’aspetto dei luoghi nei quali prende forma, mostrato con scrupolosa attenzione e sensibilità. Agnès Varda non è solo l’accompagnatrice di JR, la sua curiosità verso l’inventiva di questo giovane street photographer sembra trasformarsi nel secondo capitolo di una ricerca cominciata nel 1981 filmando i graffiti di Los Angeles e i loro autori in Mur Murs, un variopinto percorso visivo in cui l’arte si fa interprete del mormorio costante del tessuto urbano. Anche in Visages Villages l’interesse verso “les murals” va di pari passo con la scoperta dei protagonisti di una realtà poco edulcorata in cui si manifestano i ritratti fotografici in bianco e nero di JR, gigantografie per certi aspetti affini ai “Daguerréotypes” dei commercianti de la rue Daguerre a Parigi delineati dalla Varda nel 1975. Cecilia Cristiani (Cinefilia ritrovata)

Janine Carpentier, Visages Villages