TIRO AL PICCIONE

Tiro al piccione
“Dal 1960 sullo schermo tornano a crepitare i mitragliatori tedeschi, ma si punta anche l’attenzione sul ruolo attivo dei fascisti al loro fianco. Tornano a riaprirsi ferite mai rimarginate e pagine dolorose della storia sono rilette con intenti più riflessivi, problematici e articolati. […] In pratica fascismo e antifascismo non vengono più interpretati secondo un ottica ideologica, ma, al massimo, da un punto di vista morale. L’antifascismo appare come un presupposto comune, ma anche come il dato meno importante del film, che pone in primo piano l’intreccio e subordina l’evento storico a funzioni emotive. L’effetto positivo è quello di una ripresa di circolazione e di contatto tra il pubblico e la storia recente, sia pure attraverso vari tipi di mediazioni e filtri. Così, per uno strano fenomeno di avvicinamento e distanziamento, questi film riescono ancora a produrre – grazie ai meccanismi spettacolari – fenomeni di identificazione emotiva, risate liberatorie, mentre dal punto di vista storico fanno ormai sentire la distanza e l’irripetibilità del fenomeno. La monumentalizzazione della Resistenza e dello spirito antifascista consiste proprio nella adozione comune dei meccanismi narrativi, di topoi che rimbalzano da un film all’altro, permettendo di raggiungere un pubblico di massa. Così – pur unificabili tutti – sotto il comun denominatore di tentativi di ricostruzione di nuclei fattuali molto precisi (l’8 settembre, il 25 luglio, la marcia su Roma, le quattro giornate di Napoli, il processo di Verona) questi film, presi nel loro insieme, introducono nuovi termini di discorso, differenti punti di vista e soggetti dell’azione, sostituiscono alla certezza le situazioni di dubbio, alla nettezza del messaggio antifascista la rappresentazione di posizioni intermedie, ambigue. Nonostante la mediocrità stilistica e ideologica molte opere sono assai rappresentative di un mutamento dell’ottica generale. Compaiono più fascisti in camicia nera nel cinema dei primi anni Sessanta che in tutto il cinema del ventennio e lo sguardo si spinge oltre i riti e i miti di facile ridicolizzazione, fino al tentativo di ricomporre una fenomenologia di comportamenti comuni e quotidiani. La borghesia italiana può finalmente rivedersi in vesti fasciste e ridere di essa, ritenendosi completamente assolta delle colpe passate. Si cominciano a osservare e a raccontare storie di aderenti alla repubblica di Salò (Tiro al piccione di Giuliano Montaldo) e a mostrare quelle responsabilità dirette dei fascisti (La lunga notte del ’43 di Vancini) nelle rappresaglie e nella lotta antifascista che finora erano attribuite solo ai nazisti. Le maschere dell’italiano si moltiplicano: si cominciano a disporre le ragioni dei vinti accanto a quelle dei vincitori. Il dopoguerra è osservato in prospettiva: viene raccontata da più registi la caduta delle speranze e del sogno collettivo che la lotta di liberazione aveva alimentato, ma si comincia anche a sentire la distanza, la perdita di memoria, il senso di una rimozione collettiva. Lo stile comico, la farsa, il grottesco rendono, in un certo senso, più accettabile questo vero e proprio ritorno del rimosso, questa rivisitazione di una tragedia collettiva che un gruppo di registi e sceneggiatori ritiene necessario affrontare in un certo modo per raggiungere il pubblico di massa”.
Gian Piero Brunetta, Storia del cinema italiano 1960-1993, Editori Riuniti, Roma, 2001.
UNA BELLA GRINTA
“(…) L’intenzione del film è palesemente quella di mostrare gli aspetti negativi di certe carriere economiche. Per i fini della dimostrazione Montaldo ha forzato le tinte e non si è limitato a additarci un affarista sparviero che non bada a scrupoli nel suo mondo, bensì ne ha fatto anche un assassino (…) Nonostante i toni eccessivi e polizieschi della parte dedicata all’assassinio, l’epilogo ha un suo vigore morale e l’effetto di mostrare che nel ‘miracolo’ non è tutto oro quel che riluce, è raggiunto. Ottimo il Salvatori in una delle sue più mature interpretazioni.”
Sergio Frosali, “La Nazione”, 5.5.1965
AD OGNI COSTO
“(…)Sarebbe rendere un cattivo servizio allo spettatore metterlo al corrente degli imprevisti che rendono ardua una spedizione così prevista nei dettagli. Basti dire che gli esecutori del colpo sono, senza saperlo, deboli pedine di un gioco molto più grande di loro, e che a tale gioco saranno impietosamente sacrificati. Ma, per una specie di nemesi, neppure chi li ha giocati potrà godersi il frutto della propria astuzia diabolica, chè la ricchezza per la quale tanto si è combattuto finirà con l’essere dispersa, o col passare fortuitamente in mani ignare (…) Gli attori e i caratteristi, scelti fra i migliori, recitano con molta sobrietà in questo pulitissimo film, che consacra Giuliano Montaldo un regista dalla tecnica scioltissima, maturo per film anche di maggiore impegno”
Sergio Frosali, “La Nazione”, 2.12.1967

Gott mit uns
GOTT MIT UNS
“(…) E’ un film scandito con sicura progressione, senza enfasi e turgori. L’impressione che resta di questo livido universo concentrazionario, evocato con ossessiva e soffocante credibilità di situazioni e di ambienti, va spesso al di là del rifiuto emotivo sul quale ha puntato, non sempre in modo limpido, molta filmografia della guerra e dei lager, e rimanda, pur nelle forme schematiche e indirette di cui si è detto, al problema di una ‘continuità’ che in quei campi, fin dai primi giorni di pace, non viene spezzata e si insinua anzi nel futuro, riaffermandosi infine negli eserciti integrati della nuova restaurazione atlantica.”
Adelio Ferrero, “Cineforum”

Sacco e Vanzetti
SACCO E VANZETTI
“Montaldo assolve il compito prefissosi con molta chiarezza. Una volta accertato che il pamphlet nega l’eventualità dell’errore giudiziario, il film si situa d’autorità in quel filone del cinema di ricostruzione documentaria, tenuto sull’orlo del melodramma edificante dall’obbligo programmatico, che trae forza di persuasione e validità spettacolare dalla robustezza del racconto, dalla coerenza dello stile, dal giusto equilibrio fra gli elementi razionali e i ricatti emotivi.(…) Montaldo rievoca le varie fasi del processo e il clima circostante con un piglio popolare che non è allentato da qualche ridondanza, e insieme tratteggia con modi vibranti le figure dei due imputati (…) Un’eccellente interpretazione concorre al successo del film. Rispettivamente Sacco e Vanzetti, Riccardo Cucciolla e Gian Maria Volonté”
Giovanni Grazzini, “Corriere della Sera”

Giordano Bruno
GIORDANO BRUNO
“Giordano Bruno non è soltanto un film coraggioso: è un grosso film, di una intensità intellettuale e insieme di una movimentata spettacolarità che è raro veder abbinate. Una figura di questo calibro, così forte e così densa e così sfaccettata, non poteva avere altro interprete che Gian Maria Volonté, protagonista obbligato di tutte le opere più significative del cinema italiano.(…) La scelta di Montaldo è sempre straordinariamente felice: basta un primo piano per caratterizzare un personaggio. Intorno, il fasto della Venezia e della Roma rinascimentale (…)”
Vincenzo Rossi, “Il Secolo XIX”, 2.2.1974
L’AGNESE VA A MORIRE
“Che senso ha nel 1976 fare un film sulla Resistenza inspirandosi a un romanzo del 1949? “L’Agnese va a morire” di Renata Viganò, scomparsa pochi mesi fa, occupa un posto preciso nella letteratura italiana del neorealismo, soprattutto per il suo valore di testimonianza, e, come tale, è finito sui banchi delle scuole medie, ma a un lettore di oggi può sembrare un testo superato, poco attuale. Intanto almeno nelle intenzioni dichiarate di Montaldo, un’operazione di questo genere vuole essere una rivisitazione del neorealismo ovvero il ritorno a un “genere” inteso nel suo significato contenutistico, in cui il cinema italiano del dopoguerra trovò i tuoi titoli d’onore. È un ritorno, o un recupero, di una tematica civile, di una tensione morale, di un atteggiamento verso la realtà che s’oppone a una stagione in cui, tolte le poche eccezioni dei film d’autore, il cinema italiano si sbraca sempre più nel becero e nel pecoreccio, persino a livello professionale (…) In secondo luogo “L’Agnese va a morire” è, di fatto, il primo film sulla Resistenza che abbia per protagonista una donna. Anzi, quella dell’Agnese, contadina analfabeta, è una storia che si presta a una rilettura in chiave femminista. L’hanno riletta in questo modo, sollecitando con discrezione il testo della Viganò, Montaldo e il suo sceneggiatore, Nicola Badalucco (…) Nell’ambito di quel linguaggio all’insegna della chiarezza, e dell’efficacia e di una robusta drammaturgia che sono tipiche di Montaldo (“Sacco e Vanzetti”, “Giordano Bruno”), “L’Agnese va a morire” ha un salto di qualità nella parte finale dove, tra l’altro, lo soccorre la fotogenia del paesaggio delle valli di Comacchio, esaltato dal suggestivo cromatismo della fotografia di Giulio Albonico. Il modo con cui Montaldo ha saputo rievocare la durezza, la tristezza, l’inerzia, quasi, la disperazione dell’inverno 1944 raggiunge in alcuni momenti una forza tragica (…)
Morando Morandini, “Il Giorno”, 4.11.1976
“Sullo schermo, nel nitido film di Giuliano Montaldo, Ingrid Thulin fa rivivere Agnese fondendo una bravura da grande attrice con la naturalezza di una non professionista. Se il libro poteva annettere alla scuola del realismo socialista, il film si rifà piuttosto alla poetica del neorealismo. Avendo come punti di riferimento Visconti (la Bassa padana vista ancora secondo l’ottica di Ossessione), e Rossellini (Comacchio nell’ultimo episodio di Paisà), Montaldo ha cercato di aggiornare i contenuti dell’opera introducendovi una sfumatura di femminismo più consapevole. Schiacciata nel libro sotto il peso della presenza maschile (il marito, il comandante), nel film Agnese vive la sua avventura anche come presa di coscienza del suo essere donna.”
Tullio Kezich, “Panorama”, 20.11.1976

Sul set de Gli occhiali d’oro
GLI OCCHIALI D’ORO
“Il film è simmetricamente costruito attorno a due storie, quella del dottor Fadigatti e quella di Davide; due storie che mettono in campo due tipo d’amore e d’intolleranza che s’intrecciano e si rafforzano a vicenda in una specie di mutuo scambio e soccorso. Parallelamente allo svelamento dell’omosessualità di Fadigati, esplosa nell’avventura con Eraldo (…) assistiamo alla storia d’amore di Davide Lattes e Nora Treves (Valeria Golino). Davide prende coscienza con chiarezza della sua condizione di ebreo e si batte contro l’intolleranza e la persecuzione razziale, comprendendo al contempo che anche Fadigati è una vittima dell’intolleranza (…) Il film di Montaldo, pur soffrendo di qualche caduta di ritmo ed a volte di tono, è fatto con diligenza, intelligenza e sensibilità”
Fausto Bona, “Brescia-Oggi”, 25.10.1987
I DEMONI DI SAN PIETROBURGO
“Nel film lo scrittore deve lottare contro due intolleranze, che a loro volta sono l’una contro l’altra armate. La prima è l’intolleranza del regime zarista: uno stato autocratico che concedeva di tanto in tanto riforme – come l’abolizione della servitù della gleba, alla quale si accenna nel film – ma che di fatto accentrava il potere e azzerava ogni forma di opposizione. La seconda è l’intolleranza dei suoi giovani oppositori, pronti a uccidere in nome di un ideale astratto. […] Idea: forse “macchina del tempo” è una definizione giusta per questo film. Una macchina che viaggia in due direzioni: porta noi nella Russia di Dostoevskij, porta Dostoevskij fra noi. Seguendo il film è impossibile non pensare alle BR e ai loro deliranti comunicati […]. La macchina del tempo azionata da Giuliano Montaldo ci permette di osservarlo in vitro, al momento della sua nascita – una delle sue tante nascite”.
Alberto Crespi, La Russia di ieri per raccontare il mondo di oggi, in I demoni di San Pietroburgo. Un film di Giuliano Montaldo, Federico Motta Editore, Milano, 2007.
“(…)Non ha alcuna importanza. Giuliano Montaldo è tornato alla regìa di film dopo 17 anni di assenza, per raccontare questa storia che non ha nulla a che vedere con le biografie convenzionali: febbrile, nervosa, interiorizzata, è invece la vicenda viva d’un uomo straordinario. I demoni di San Pietroburgo ha valori produttivi impeccabili, è fatto benissimo, intensamente: persino il legame tra il presente e le schegge di passato in bianconero è fluido, naturale”
Lietta Tornabuoni, “La Stampa”, 25.4.2008

Piefrancesco Favino ne L’industriale
L’INDUSTRIALE
“Scritto dal genovese Montaldo, attivo dal 1961, con la moglie Vera Pescarolo e il prolifico Andrea Purgatori, è un film di esplicita denuncia etico-sociale dove vale la forma più che i contenuti. Nicola Ranieri, proprietario a Torino delle Officine Meccaniche ereditate dal padre, è sull’orlo del fallimento. Da 8 anni sposato senza figli con Laura, come lui ricca borghese, sospetta che lo tradisca con un baldanzoso garagista, ma non si rende conto di essere fallito anche come marito. Invece di raccontare cause, responsabilità, rapporti con i 70 operai che Nicola non può più pagare e rischiano di perdere il lavoro, Montaldo scarica tutto genericamente sulla recessione che affligge da anni l’Italia e l’Europa e sullo strozzinaggio delle banche e delle assicurazioni e dedica molto, troppo spazio alla sua gelosia. Non manca nemmeno una lieta fine in cui, praticando l’antica, italica arte dell’arrangiarsi, si mette sullo stesso piano dei suoi supposti persecutori. All’attivo rimangono la bravura di Favino (un po’ meno quella della Crescentini in un personaggio contraddittorio), le livide luci e i colori di Arnaldo Catinari, il talento dello scenografo Francesco Frigeri. Tirate le somme, è un film formalista.”
Il Morandini, Dizionario di cinema
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Vera Pescarolo e Giuliano Montaldo