L’UNIVERSO DI MARGARETHE VON TROTTA

di Luisa Ceretto

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Con un percorso contrassegnato da rigore e impegno, Margarethe von Trotta è tra le maggiori autrici della cinematografia tedesca, rappresentante di quel nuovo cinema impostosi alla ribalta internazionale sul finire degli anni settanta, che ha saputo anche nei decenni successivi proseguire nel segno di un cinema di qualità, spesso dall’impronta autobiografica. Regista che ha messo al centro della propria opera l’indagine dell’universo femminile, in particolare il conflitto tra dimensione pubblica e sfera privata, dando vita a ritratti indimenticabili, condividendo sin dall’inizio con gli altri autori, da Fassbinder a Schlöndorff, la profonda critica alla società tedesca e ad un passato dall’eredità ingombrante. Un cinema profondamente radicale, che non fa concessioni alle aspettative spettacolari e si fa portavoce di un dissenso, un “non essere d’accordo con i ruoli o luoghi comuni, con le convenzioni e le violenze generate dal rispetto delle regole. È un dissenso che, partendo da casi particolari, si estende ad un giudizio globale sulla società contemporanea che non può essere positivo, in cui si salva soltanto l’umanità, la generosità, l’onestà e la dignità dei singoli che vanno controcorrente, e che risultano per lo più sconfitti dal contesto in cui vivono”. (1)      Come cinéphile, il suo incontro col cinema avviene all’inizio degli anni sessanta, durante un soggiorno a Parigi, dove ha occasione di vedere la pellicola di Ingmar Bergman, Il settimo sigillo (1957) “uno choc culturale e artistico – una vera rivelazione”, dichiarerà più tardi la regista. Facendo propria la lezione della nouvelle vague, la sua scuola diviene la sala cinematografica, dove conoscere pellicole del passato, ma non solo, insieme ad un avvicinamento progressivo alla pratica registica. Prima, però, si cimenta nella recitazione teatrale con un’impostazione che poggia sugli insegnamenti stanislawskiani dell’identificazione al personaggio. Pur facendo tesoro dell’insegnamento dei vari registi con i quali ha occasione di lavorare, l’attività teatrale resta transitoria, in attesa del debutto nella settima arte. E la prima occasione importante, con il ruolo di protagonista, le viene proposta da Gustav Ehmck nel 1968 nel film, Giochi con tipi strani. images (2)Successivamente lavora con Schlöndorff, per un adattamento della pièce teatrale di Brecht, Baal. Occasione che consentirà alla futura regista di entrare in contatto con gli attori dell’Antiteater e di fare la conoscenza di Rainer Werner Fassbinder. Con Fassbinder nasce una fruttuosa collaborazione, reciterà difatti nelle sue pellicole Gli dei della peste, Il soldato americano e poi ancora in Attenzione alla puttana santa. Con Schlöndorff, con cui nel frattempo si è sposata, è co-sceneggiatrice del film L’improvvisa ricchezza della povera gente di Kombach, che affronta il tema dell’organizzazione patriarcale e autoritaria nel diciannovesimo secolo, dove Margarethe von Trotta si ritaglia il ruolo di una contadina esasperata dalla dure condizioni lavorative. E ancora ha un ruolo ne La morale di Ruth Halbfass , mentre in Fuoco di paglia (1972), oltre ad essere interprete, scrive la sceneggiatura. Si tratta di una pellicola sulla lotta di emancipazione femminile in cui si rovesciano i canoni del cinema classico, il matrimonio che sanciva l’happy end per la coppia protagonista, portando in tal modo alla luce problematiche femminili fino ad allora inedite. Di tre anni più tardi è la sua prima co-regia, sempre col marito, Il caso Katharina Blum, tratto dal romanzo di Böll, lucido atto di accusa contro il potere dei media. Il colpo di grazia, ispirato all’omonimo romanzo di Yourcenar, segna la sua ultima interpretazione in una pellicola diretta da Schlöndorff. Nel 1977 realizza la sua prima regia, Il secondo risveglio di Christa Klages dove lo schema del polar è pretestuoso per un solido racconto morale, in cui emerge in tutta evidenza l’ interesse verso tematiche legate al mondo femminile, una riflessione sulla condizione delle donne, all’indomani del ’68. Parallelamente prosegue la carriera di attrice, lavorando col regista Herbert Achternbusch e, successivamente, con Zanussi.

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©Volker Schlondorff, Baal con Margarethe von Trotta, R.W. Fassbinder, 1969

La sua seconda regia, Sorelle (1979) conferma un talento che si misura con l’introspezione psicologica, il cui rimando più o meno esplicito è il cinema di Bergman. Il rapporto tra le due sorelle, Anna e Maria, il tentativo dell’una di trascinare l’altra nella propria direzione, anticipa per certi versi quello delle le protagoniste del film seguente, Anni di piombo (1981) –  ispirato alla vicenda delle sorelle Ensslin, a Christiane e alla più giovane, Gudrun, terrorista della banda Baader-Meinhof, trovata morta in cella -. Opera che la consacra tra i grandi del cinema europeo, meritatamente vincitrice del leone d’oro, premiata da una giuria presieduta da Italo Calvino. Come osserva Ester Carla de Miro d’Ajeta: “con un taglio che era stato tipico del cinema espressionista, Margarethe von Trotta si era infatti ispirata alla realtà andando al cuore del problema e trasformando una storia privata in un dramma della sua generazione, scavando profondamente nelle motivazioni del passato tedesco e, di conseguenza, nelle azioni del presente e nelle scelte terrorismo/riformismo, legate da una radice comune di opposizione allo ‘stato delle cose’. E questa comune origine diventa ancora più importante nel film perché non si limita all’ideologia, ma affonda le sue radici nell’affettività di una vita condivisa e di un legame di sangue come quello tra due sorelle, che diventa anche metafora delle due Germanie, quella dell’Ovest e quella dell’Est, separate ancora dal muro in quegli anni, e sulla cui ambivalente coesistenza la regista ritornerà non a caso più esplicitamente con il suo ultimo film, La promessa” (2). Lucida follia (1982) i cui dialoghi in Italia sono tradotti da Dacia Maraini, è una riflessione sull’amicizia tra donne.

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Barbara Sukowa in Anni di piombo, 1981

Come dichiarava la regista,  “Oggi l’amicizia tra donne ha un altro scopo: quello di crescere insieme, di comunicarsi le reciproche esperienze, di aiutarsi a vicenda nella valorizzazione delle proprie capacità, e, soprattutto, quello di rendersi la vita più vivibile attraverso un’affettività spontanea che non conosce il bene ed il male, che accetta l’altra per i valori umani di cui è portatrice”. (3) Sul finire degli anni ottanta, dopo una lunga gestazione, Margarethe von Trotta dirige Rosa Luxemburg in una suggestiva ricostruzione storica, il film regala un altro ritratto femminile dove pubblico e privato dialogano profondamente. Il cinema di Margarethe von Trotta, come è stato definito, è un cinema degli opposti, dove coesistono ragionevolezza e passionalità, morte e vitalità, arcaismo e modernità, ideali assoluti e distacco critico, mondo interiore e realtà circostante. Ne sono esempi, lo splendido Paura e amore (1987), moderna rilettura cechoviana di Tre sorelle, e L’africana (1990). Nel 1993 su una sceneggiatura scritta da Felice Laudadio, che ha sullo sfondo l’Italia e una sua difficile pagina di storia, Margarethe von Trotta gira Il lungo silenzio, che racconta l’impegno civile della moglie di un magistrato in prima linea, ucciso in un attentato organizzato dalla mafia. Dopo La promessa (1995), una storia d’amore di una giovane coppia separata dal muro di Berlino, la regista si dedica alla realizzazione di alcuni progetti per la televisione, una produzione parallela che affianca quella per il grande schermo, che prosegue anche con l’affacciarsi del ventunesimo secolo. Con Rosenstrasse (2003) la regista fa ritorno alla storia del proprio paese, all’eroismo di centinaia di donne che nel 1943 manifestarono a Berlino contro la deportazione dei loro mariti, riuscendo a farli liberare, in un racconto che alterna tempi diversi e il sovrapporsi di ricordi di una protagonista di quel periodo, Ruth e di sua figlia. Successivamente realizza altri lavori che restano inediti in Italia e nel 2012 firma Hannah Arendt, rigoroso ritratto sull’autrice del libro “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”, basato sulla teoria per cui l’assenza di radici e memoria e la mancata riflessione sulla responsabilità delle proprie azioni criminali trasformano esseri banali in agenti del male. Il suo primo documentario, Searching for Ingmar Bergman, presentato all’ultima edizione del festival di Cannes in prima assoluta, nasce come progetto dedicato al regista svedese in occasione del centenario della sua nascita, un maestro che l’ha profondamente influenzata nel modo di fare cinema. Per raccontare la figura di Bergman, adotta una scrittura che si alimenta di emozioni personali, ma anche avvalendosi di testimonianze di registi come Carlos Saura, Olivier Assayas, Mia Hansen-Løve e delle attrici e collaboratori dei film di Bergman, come Katinka Farago, la sua assistente di produzione per trent’anni, che dichiara quanto il maestro svedese fosse tormentato da una grande paura di non essere all’altezza del proprio compito, di quanto la mattina delle riprese si svegliasse pietrificato dalla paura. A proposito dell’influenza di Bergman sulla propria opera, Margarethe von Trotta è esplicita: “Ho  l’impressione che lui sia davvero mio padre (…) dipendo ancora da lui.” L’inquadratura della scena finale del documentario per certi aspetti lo conferma. Alla fine del viaggio ‘alla ricerca’ di Ingmar Bergman, von Trotta si ritrova nel punto esatto in cui è nata per così dire tale dipendenza, ovvero la spiaggia della scena di apertura de Il settimo sigillo: sola, al centro di un paesaggio tagliente, lei appare piccola, vulnerabile, con lo sguardo rivolto verso le scogliere da dove, un tempo, Bergman osservava dalla sedia da regista, “Ho paura di non aver mai superato questa insicurezza”. L’abbiamo incontrata in occasione di uno dei suoi recenti soggiorni in Italia.

 

 

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Note:

  1. Ester Carla de Miro d’Ajeta, Margarethe von Trotta. L’identità divisa, Le mani, Recco, 1999
  2. Ibidem, p. 212
  3. Ibidem, p. 247