CLAUDE SAUTET

di Gabriele Rizza

Claude Sautet è nato il 23 febbraio 1924 a Montrouge, alla periferia di Parigi. Studia nella capitale e si iscrive, con l’intenzione di dedicarsi alla pittura e alla scultura, alla Scuola di Arti decorative. Appassionato di musica, diventa critico musicale per il giornale “Combat”. Nel 1946 entra all’IDHEC e due anni dopo debutta come assistente di diversi registi. André Cerf, Jean Devaivre, George Franju, Pierre Montazel, Guy Lefranc, Carlo Rim e Yves Robert. Lavora anche come co-sceneggiatore e co-adattatore, ad esempio in Le fauve est lache di Maurice Labro (1958, che lancia Lino Ventura) e Les yeux sans visage di Georges Franju (1959). In questo periodo gira un cortometraggio (Nous n’irons plus au bois, 1951) e un lungometraggio per meglio sbarcare il lunario: Bonjour sourire (1956) con Henri Salvador e Annie Cordy, accolto nell’indifferenza generale.

Nel 1960 passa alla regia con Classe tous risques, tratto dal romanzo di José Giovanni, di cui cura l’adattamento insieme all’autore e a Pascal Jardin. Interpreti principali: Lino Ventura, Jean-Paul Belmondo e Sandra Milo. Il film è un grande successo e impressiona una parte della critica per la sicurezza della messa in scena. Le proposte si moltiplicano, ma sono tutti sottoprodotti di questo primo tentativo. Sautet rifiuta: “ Ho fatto Classe tous risques -dichiara- perché mi piaceva l’idea di uno che tenta un colpo in un paese straniero e gli va male, tutto qui”. Nel frattempo non abbandona le sue attività, anzi si interessa sempre più alla scrittura e collabora a numerose sceneggiature, tra cui Symphonie pour un massacre (Jacques Deray), Monsieur (Jean-Paul Le Chenois) e Peau de banane (Marcel Ophüls). Nel 1964, tentato di nuovo dalla regia, scrive e realizza L’arme à gauche tratto da un romanzo di Charles Williams. Interpretato da Lino Ventura, Sylvia Koshina e dall’americano Leo Gordon, il film contiene alcune delle più belle sequenze marine mai girate in Francia. L’arme à gauche conferma il suo talento, ma orienta i critici verso una falsa pista: Sautet viene considerato un cineasta dell’azione pura, influenzato dai film di Walsh o di Siegel.

Nello stesso periodo, si fa apprezzare come sceneggiatore di riguardo: a lui ci si rivolge quando un progetto zoppica o una situazione si blocca. Sempre più richiesto, è coautore di Louis Malle in Le voleur, di Jean Delannoy in Le soleil des voyous, di Alain Cavalier in Mise à sac e La chamade, di Philippe de Broca in Le diable par la queue, di Jacques Deray in Borsalino, di Jean-Paul Rappeneau in La vie de chateau e Les mariés de l’an II. Nel 1969, nuovo colpo di fulmine che ci regalerà Les choses de la vie, dal romanzo di Paul Guimard e l’adattamento di Jean-Paul Dabadie. Il film, interpretato da Michel Piccoli, Romy Schneider e Lea Massari, ottiene il premio Louis Delluc e rappresenta ufficialmente la Francia al festival di Cannes del 1970. Risulta evidente che per Sautet il cinema non è più solo spettacolo, ma diventa anche un modo perfetto di posare lo sguardo sul mondo, gli uomini, la società. Come si può vedere anche in Max et les ferrailleurs (1970, con Michel Piccoli, Romy Schneider, Bernard Fresson), autopsia di una macchinazione e di un personaggio, storia violenta, ridicola e romantica.

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Gérard Depardieu, Yves Montand, Michel Piccoli, Serge Reggiani, Vincent, François, Paul et les autres

Les choses de la vie gli dà un’improvvisa celebrità ma fa nascere l’altro malinteso che non si è mai dissipato: alcuni hanno visto in lui un sociologo che si compiace a descrivere le pene d’amore e i problemi di soldi della borghesia francese contemporanea. È vero che da Les choses de la vie fino  a Garçon!, gli otto film girati tra il 1970 e il 1983 sono scritti – dallo stesso Sautet con la collaborazione di Jean-Loup Dabadie, di Claude Néron o di Jean-Paul Torok – con l’occhio rivolto alla società francese attuale; ma l’intenzione di dimostrare una tesi è lontanissima dal regista, che aveva avuto modo di dichiarare nel 1971: “Quando scrivo una sceneggiatura o giro un film non ho una coscienza preordinata di alcun tipo. Ad un certo punto le cose si mettono in modo tale che non posso evitarle”. E ancora: “Non vedo altro paragone se non con la musica dove il tipo di armonia, di accordo o di ritmo iniziale fa sì che, qualunque sia il percorso, una logica sotterranea imponga il materiale che si deve trovare alla fine “ (“Positif”, n. 126).

Da quel momento, sempre in compagnia dei suoi collaboratori e amici (Jean-Loup Dabadie e Claude Néron alla scrittura, Jean Boffety alla macchina da presa, Philippe Sarde per la musica), Claude Sautet ha saputo raggiungere il cuore del pubblico e della critica: César et Rosalie (1972), Vincent, François, Paul et les autres (1974), Mado (1976). Sequenze apparentemente anodine si vedono divorate dal fuoco della vita e del reale. Con lui grandi attori come Romy Schneider, Michel Piccoli, Yves Montand, danno vita a personaggi molto diversi da quelli che interpretano di solito. Con lui infine, nuovi venuti, come Gérard Depardieu, Ottavia Piccolo, Jacques Dutronc si integrano, senza alcuna frizione, al suo universo di autore e regista.

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Romy Schneider, César et Rosalie

Il concetto di ‘logica sotterranea’ spiega l’opera e il rapporto dell’uomo con l’opera. Claude Sautet è un cineasta lento (solo un film ogni due anni: se la sua attività sembra più frenetica tra il ‘70 e il ’73 è solo perché ha a disposizione già pronta la sceneggiatura di César et Rosalie), i cui temi prendono forma, generalmente, in una specie di corpo a corpo con il cosceneggiatore, a partire da una situazione elementare. Il cinema di Sautet è preciso, senza concessioni per le civetterie, rigoroso e necessario come la partitura di un concerto. Il racconto e i movimenti della macchina da presa lo interessano solo in quanto permettono quello che chiama “l’approccio concreto dei personaggi”. Per questo bisogno di autenticità, Sautet si inserisce nella linea dei maestri italiani e nella tradizione francese di Jacques Becker (“il cineasta che più mi ha influenzato”).

“Se ho la certezza che Claude Sautet sarà il nostro più grande cineasta – ha detto Jean-Pierre Melville nel 1962 – è perché, al di là del talento, ne conosco il coraggio tranquillo. Tutti noi conosciamo almeno un centinaio di pseudo registi che accetterebbero qualunque infamia pur di impressionare qualche metro di pellicola, mentre Sautet, il falso taciturno, inquieto e sicuro di sé, aspetta di essere ispirato per girare. Ma quando gira, ci mette l’anima”.

(*) Il testo è apparso sul catalogo del festival, “France Cinéma”, 1990, diretto da Aldo Tassone, in cui è stata dedicata una retrospettiva a Claude Sautet.

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Romy Schneider, Yves Montand, César et Rosalie