XIV – GIULIANO MONTALDO

Numero XIV – Ottobre 2019

 

Sommario:

 

GIULIANO MONTALDO, UN GENOVESE A ROMA

 di Luisa Ceretto

Montaldo (1)

Con una carriera di quasi settant’anni di cinema, il percorso artistico di Giuliano Montaldo si caratterizza per l’attenzione su temi che riguardano l’individuo in lotta contro il potere, per la profonda avversione all’intolleranza.
Formatosi negli anni cinquanta, facendo propria la lezione del Neorealismo, è tra le figure di spicco del panorama cinematografico italiano, a partire dagli anni sessanta, protagonista delle sue stagioni più proficue.
Noto per opere dal forte impegno civile come Sacco e Vanzetti, come Giordano Bruno, titoli che lo hanno imposto a livello internazionale, il suo è stato un cammino contrassegnato da difficoltà produttive che lo hanno spesso costretto ad una strenua difesa dei propri progetti, che è riuscito a realizzare infatti grazie ad una ostinazione fuori dal comune.
Regista cinematografico, televisivo e teatrale, nasce a Genova nel 1930, dove da ragazzo vive la seconda guerra mondiale e la Resistenza – seppure molto giovane si unisce alle Gap genovesi (nome di battaglia, Leo) -, avvicinandosi all’universo artistico come attore e poi regista in una compagnia di filodrammatica.
Il suo esordio nel cinema avviene con un film-simbolo sulla Resistenza, Achtung Banditi! (1951) di Carlo Lizzani, come interprete nei panni di un commissario partigiano.

Una pellicola la cui produzione deve molto ad una “città ostinata” come Genova, che ne ha supportato anche economicamente la realizzazione, assicurando luoghi, finanziamenti, aiuti tecnici e di ogni tipo, grazie ad una Cooperativa di Spettatori Produttori, raro esempio di autofinanziamento, creata per l’occasione.
Approdato a Roma come un “naufrago” – come ama scherzosamente definirsi -, al termine della lavorazione di Achtung Banditi!, Giuliano Montaldo giunge nella città capitolina dove avrà modo di dare avvio alla propria carriera artistica.
Dopo alcuni ruoli secondari come attore (Gli Sbandati di Francesco Maselli, Cronache di poveri amanti di Carlo Lizzani, Terza Liceo di Luciano Emmer), come sceneggiatore con De Concini (Orazi e Curiazi) o ancora come aiuto regista (L’assassino di Elio Petri, Esterina di Carlo Lizzani), collabora con Gillo Pontecorvo su La lunga strada azzurraKapò e La battaglia di Algeri.

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Nel 1961 esordisce nella regia con Tiro al piccione, tratto dall’omonimo romanzo di Giose Rimanelli, sulla vicenda di un giovane che nel 1943 decide di arruolarsi nella Repubblica Sociale di Salò. Presentato a Venezia, il film riceve critiche negative, da destra e da sinistra, anche se ottiene un buon successo di pubblico.
Quattro anni più tardi firma la sua seconda regia Una bella grinta, un ritratto dell’Italia del boom economico, che ottiene il premio speciale della giuria al festival di Berlino e col quale avvia la propria collaborazione artistica con Vera Pescarolo, sua futura moglie.
Prima, però, col nome del regista immaginario, Elio Montesti, dirige il documentario Nudi per vivere (1964) insieme ad Elio Petri e Giulio Questi.
Seguono, su commissione, Ad ogni costo(1967) e Gli Intoccabili (1969), film di genere (avventura e gangster), dove il regista genovese ha modo di confrontarsi con lo star system hollywoodiano e di lavorare al fianco di attori come Klaus Kinski, Edward G. Robinson, Janet Leigh, John Cassavetes, oltre ad avviare una proficua collaborazione con Ennio Morricone.

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Giordano Bruno (1973)

Di ritorno dagli Stati Uniti, Montaldo comincia a lavorare a temi a lui più cari, realizzando la cosiddetta “trilogia sul potere”, composta da Gott mit uns – Dio è con noi (1969), Sacco e Vanzetti (1971), Giordano Bruno (1973), rispettivamente sulla fucilazione di due militari tedeschi a cinque giorni dalla fine del conflitto mondiale, sull’ingiusta condanna di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti e sul processo religioso al filosofo domenicano.
Lungometraggi che gli valgono importanti riconoscimenti, oltre che per il rigore stilistico e l’impegno civile, per una regia dal forte impianto spettacolare, sorretta da una sapiente ricostruzione storica e direzione degli attori.

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Ingrid Thulin in L’Agnese va a morire (1976)

Con L’Agnese va a morire (1976) torna alle tematiche della Resistenza dei suoi esordi,  adattando l’omonimo romanzo di Renata Viganò, incentrato su una figura femminile, sulla sua presa di coscienza civile e antifascista.
Dopo aver affrontato nel Giocattolo (1979) un argomento complesso come il sentimento di grande insicurezza del cittadino medio italiano in una fase storica di recrudescenza terroristica, Montaldo realizza lo sceneggiato televisivo Marco Polo, un kolossal vincitore di quattro Emmy Awards, venduto in oltre settanta Paesi.
Seguono gli adattamenti dal romanzo di Giorgio Bassani, Gli occhiali d’oro (1987) sulla storia di un omosessuale ambientata a Ferrara in epoca fascista e del testo di Ennio Flaiano, Tempo di uccidere (1989) sull’impresa etiopica di legionari italiani nel 1936.

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I demoni di San Pietroburgo (2007)

Degli anni novanta due documentari, Ci sarà una volta (1992) e per il grande schermo, Le stagioni dell’aquila (1997).
Parallelamente coltiva il proprio interesse per l’opera lirica, mettendo in scena Turandot (1983 e 1999), Bohème (1994), Otello (1994), Il flauto magico (1995), Nabucco (1997), Un ballo in Maschera (1998).
Nel 2007 firma la regia cinematografica dei Demoni di San Pietroburgo e quattro anni più tardi dirige Pierfrancesco Favino ne L’industriale. Vincitore del Ciak di Corallo alla carriera dell’Ischia Film Festival (2007), in seguito è insignito del Premio Federico Fellini 8 e1/2 per l’eccellenza artistica al Bif&st di Bari.
Come attore sono molte le collaborazioni, tra cui citiamo Un eroe borghese (1994) di Michele Placido, Celluloide (1996) di Carlo Lizzani e  Il caimano (2006) di Nanni Moretti.

Giuliano Montaldo e Andrea Carpenzano

Tutto quello che vuoi di F. Bruni (2017)

Più recentemente Francesco Bruni gli ha proposto in Tutto quello che vuoi (2017) il ruolo di un poeta dimenticato. Recitazione che gli è valsa meritatamente il Premio David come migliore interprete non protagonista.
Nell’ambito di “Venezia Classici”, la sezione all’interno della Mostra veneziana dedicata a film restaurati, è stato ripresentato Tiro al piccione. Un risarcimento giunto a cinquantotto anni di distanza, per la delusione e l’amarezza allora subite. Il film era stato infatti stroncato per motivi ideologici, e le critiche, come ha dichiarato lo stesso autore, avevano finito col riguardarlo in prima persona: “Quel tiro al piccione che nel 1961 avevo subito io, ero io il piccione, al Lido”.

INCONTRO CON GIULIANO MONTALDO

di Luisa Ceretto

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Nei suoi film ha affrontato più volte il tema della seconda guerra mondiale e della Resistenza, con pellicole come Tiro al piccione, L’Agnese va a morire, Gli occhiali d’oro e ancora come Gott mit uns (Dio è con noi), e recentemente ha interpretato in Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni, il ruolo di un poeta  i cui ricordi più vividi rimandano a quell’epoca. Del resto, i suoi primi passi nel mondo del cinema erano stati come attore in un caposaldo della filmografia sulla Resistenza, si può dire che per lei quel periodo storico costituisca un tracciato familiare. In Italia la Storia, a differenza di altri paesi, come ad esempio la Gran Bretagna, resta una materia piuttosto marginale, qual è la sua opinione in merito?

Devo dire la verità, quando ho cominciato a lavorare, pensi, avevo vent’anni, era il 1950, sono quasi settant’anni di cinema, il tema della Resistenza costituiva già allora un capitolo chiuso. Tanto è vero che per il film di Carlo Lizzani, Achtung Banditi! ambientato a Genova, nelle alture liguri dove si era combattuta la Resistenza, il suo esordio, del resto lo era anche il mio, come attore (nei panni del commissario Lorenzo, ndr), non si riusciva a trovare né un distributore, né un produttore, tanto meno un finanziamento. E allora, la cosa meravigliosa fu che addirittura, ma che purtroppo non è mai più accaduta, si pensò ad una sottoscrizione popolare per riuscire a fare il film.

Montaldo e Lizzani

Giuliano Montaldo e Carlo Lizzani

E Acthung Banditi! si fece, malgrado molte difficoltà economiche, io, come  tanti altri, ho partecipato alla lavorazione del film gratuitamente. E da Roma arrivarono Gina Lollobrigida, Andrea Checchi, Lamberto Angiolani, il direttore della fotografia Gianni Di Venanzo, ai suoi esordi, e poi Carlo Di Palma come operatore, che in seguito divenne un grande direttore della fotografia. Si era in pochi ma bravissimi e riuscimmo a realizzarlo. Perché Roma, e quindi il Ministero, aveva detto di no, come dice un famoso proverbio, “i panni sporchi si lavano in famiglia ”, quel film non si doveva fare e anche la Cooperativa (CSPC, Cooperativa Spettatori Produttori Cinematografici, ndr) (1), nata in supporto alla produzione della pellicola venne messa in difficoltà. Infatti con la produzione del secondo film di Lizzani, Cronache di poveri amanti, la Cooperativa ebbe problemi di esportazione e dovette chiudere i battenti. Era questo il clima che si respirava…

La smemoratezza di cui è sofferente il personaggio da lei interpretato nel film di Bruni, è accompagnata al contrario dall’incancellabile ricordo del proprio passato. Si può dire anzi che il suo poeta rappresenti rispetto all’orizzonte buio dei giovani protagonisti, una luce che schiude in loro, seppur momentaneamente, lo sguardo verso la storia. Cosa può dire invece sulla smemoratezza che affligge da sempre e soprattutto oggi l’Italia? Un Paese dovrebbe avere a cuore la propria memoria storica…

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Tiro al piccione (1961)

Un conto è celebrare le vittorie e un conto sono, invece, le sconfitte. Perché l’Italia nel 1943 è un Paese diviso a metà e con la fuga del re, certamente un momento molto difficile. Io ho cercato di raccontarlo attraverso il libro biografico di Giorgio Rimanelli, in Tiro al piccione, la vicenda di un ragazzo che, convinto che l’Italia dovesse rimanere in guerra dalla parte giusta, ossia dalla parte della Repubblica Sociale, si arruola volontario nell’esercito, per poi scoprire che la posizione del Paese era dall’altra parte e non più da quella in cui credeva lui. Presentato alla Mostra di Venezia (2), Tiro al piccione era il primo film che raccontava di questa tragica avventura, non è stato accolto bene dalla critica, era visto con odio dalla destra e con sospetto dalla sinistra, ciò che si metteva in dubbio era la necessità di dover ancora raccontare quella vicenda storica.

Lei ha accennato poc’anzi alle vicissitudini produttive che hanno accompagnato la lavorazione dell’esordio di Carlo Lizzani. Rispetto alla sua filmografia ha incontrato spesso difficoltà a livello produttivo, e quanto hanno inciso sulle sue scelte?

Per fortuna Tiro al piccione era andato bene col pubblico e la morale è che, ancora una volta, si sopporta tutto quando si ha voglia di combattere. Dopo le mie prime regie, sono andato negli Stati Uniti dove ho girato Ad ogni costo (1967) e Gli Intoccabili (1969), che sono stati buoni incassi e mi hanno dato la forza per potermi finalmente dedicare a ciò che più mi premeva e avevo in mente, raccontare la mia sofferenza per l’intolleranza, e mi riferisco a Sacco e Vanzetti, Giordano Bruno e a Gott mit uns, film sul potere laicale, religioso e militare.

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Gott mit uns (1970)

Volevo raccontare che l’intolleranza è il peggiore dei mali, quello che fa nascere la violenza che conosciamo, l’odio o il rancore, e l’ho potuto fare, ma con fatica. Credevo che avendo realizzato film di successo, andati bene in America, fosse sufficiente per aprirmi le porte, ma invece mi venivano proposti soggetti molto più leggeri rispetto a Sacco e Vanzetti, però, ho lottato…

Il film è stato da poco restaurato e presentato nelle sale cinematografiche, tra l’altro un documentario, La morte legale (3), ne ricostruisce la lavorazione. Anche a distanza di decenni, Sacco e Vanzetti  mantiene intatta la sua forza espressiva ed attualità. Com’è nata l’idea?

L’avventura nasce così, avevo visto una pièce a Genova nella zona portuale dei cantieri navali di Sampierdarena, sulla vicenda di Nicola Sacco e  BartolomeoVanzetti, e rimasi stupefatto, a bocca aperta, non ne sapevo nulla. Nelle scuole non se ne parlava, allora ero giovane e determinato a saperne di più. In Italia non ne era giunta notizia, c’era il fascismo quando Sacco e Vanzetti sono stati condannati sulla sedia elettrica (esecuzione avvenuta il 23 agosto 1927, ndr), eppure, come ebbi modo di scoprire, c’erano state  manifestazioni in tutto il mondo. saccoevanzetti5E allora, una volta tornato a Roma, mi misi a cercare anche tra i miei volumi di casa, ma non riuscivo a trovare nulla. Trovai un amico meraviglioso, Fabrizio Onofri, uno storico e studioso che aveva del materiale e cominciò a raccontarmi la vicenda. A quel punto decisi di partire per l’America, per andare a  reperire documenti, materiali, testimonianze di chi allora era giovanissimo, qualcuno che avesse preso parte al Comitato di difesa. E così facendo, raccolsi tanto materiale da portare a Roma. Cominciammo a lavorare, Onofri fu un collaboratore stupendo e riuscimmo in tal modo a completare la sceneggiatura. Ma era necessario trovare un produttore disposto a investire. Perché come lei saprà in America è tutto nuovo, non si trova neppure un mattone del 1920, di quell’epoca. Come si fa a trovare l’America di quegli anni e dove? Non si poteva certo ricostruire tutto, sarebbe costato una fortuna. Beh, colpo di scena, sapevamo che Boston era stata costruita dagli irlandesi, quindi decidemmo di andare in Irlanda, a Dublino, dove abbiamo visto dei posti che potevano risalire a quel periodo storico, abbiamo scattato delle fotografie. Le ho fatte vedere in seguito ad un taxista di Boston per capire se potessero rimandare alla vecchia Boston… Nessuno poi ha contestato per l’ambientazione, abbiamo avuto fortuna. Oltre che in Irlanda, abbiamo girato  in Jugoslavia e a Roma, dove abbiamo ricostruito l’aula del dibattito di tutto il processo, è stato faticoso ma ce l’abbiamo fatta. Ma il colpo di scena più eclatante è stato quello di quando mi sono rivolto ai produttori, Arrigo Colombo e Giorgio Papi (Jolly Film, ndr) che, quando siamo andati per parlare del nostro progetto, erano molto impegnati su più progetti. Erano tra gli altri, i produttori di Sergio Leone, io mi ero rivolto a loro, quasi all’ultimo momento e col cappello in mano. E quando ho parlato del soggetto di Sacco e Vanzetti, ho appurato che Arrigo Colombo non era a digiuno della notizia come invece lo ero io, al contrario, ne era ben al corrente. E poi scoprii che lui, ebreo, era fuggito dall’Italia delle leggi razziali istituite nel 1938, e che imparò l’inglese dagli italiani in America, quindi era uno che sapeva tutto, aveva letto le lettere di Bartolomeo Vanzetti al Comitato di difesa. E mi disse, proviamoci! Sì, mi ci sono voluti due anni e mezzo per riuscire a realizzare Sacco e Vanzetti ma ne è valsa la pena, perché il film continua a vivere e ad essere visto. Mi chiamano anche per le scuole e mi fa molto piacere, perché i ragazzi sono interessati a questo tipo di scoperte. Il film funziona ancora bene come del resto anche Giordano Bruno suscita un dibattito molto serio, intenso.

A fare da sfondo alla vicenda narrata in Sacco e Vanzetti è un’America intollerante verso gli italiani…manifestosaccoevanzetti

Gli italiani hanno avuto una vita difficilissima negli Stati Uniti. Ellis Island rappresentava lo scoglio, faceva paura perché era dove, con un pretesto come una malattia, per esempio, si poteva essere rimandati indietro, era un brutto posto. Da quel luogo si poteva vedere, e lo si può tutt’ora, la statua della Libertà, da un lato c’era la libertà, ma dall’altra c’era il rischio di dover tornare indietro, a casa. Comunque sono partiti milioni di persone dall’Italia per andare nel Nordeuropea, nel Sud e nel Nord dell’America, in tutto il mondo, non dobbiamo dimenticarlo.

A proposito ancora di Sacco e Vanzetti e di Giordano Bruno, Gian Maria Volonté ha avuto un ruolo fondamentale nel dare corpo ai personaggi, rispettivamente di Bartolomeo Vanzetti e del filosofo domenicano. Cosa ci può dire di uno degli attori forse più talentuosi, la cui carriera artistica si è legata a molto cinema impegnato nostrano?

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Sacco e Vanzetti

Gian Maria è un personaggio indimenticabile e inimitabile. Perché lui viveva il proprio personaggio durante tutta la lavorazione del film, anche fuori scena, di notte, diventava il personaggio. Non posso dimenticare quando Gian Maria stava studiando il copione per Giordano Bruno, era molto impegnato, aveva annotato le sue battute su un quaderno con dei segni, delle sue annotazioni. Andai a trovarlo a Fregene e lui volle recitarmi un po’ di frammenti importanti. Io gli dissi che era sulla buona strada e che lo ringraziavo del lavoro. Ma mi disse di aspettare un attimo. Le stesse frasi me le recitò con un leggero, ma preciso, accento nolano… “hai capito, hai capito, Santità? Pensavo di venire qua da voi…” Mamma mia, mi sono trovato davanti, improvvisamente, Giordano Bruno! Fu incredibile e lo fu anche per tutta la lavorazione del film, e anche un grande amico. Che poi, anche per Sacco e Vanzetti  vi fu una immedesimazione totale nel personaggio. Non va dimenticato che la detenzione e i processi durarono sette anni e, mentre Bartolomeo Vanzetti era un uomo libero, senza legami affettivi, il povero Sacco, aveva invece moglie e figli, era un uomo del Sud, legato alla famiglia e quindi molto più vulnerabile. Vanzetti era molto attento e premuroso verso Sacco e nel recitare nei panni di Vanzetti, Volonté ne aveva mutuato l’atteggiamento. E a sua volta, Gian Maria, in quel ruolo, era molto attento verso l’attore che interpretava Nicola Sacco, Riccardo Cucciolla, anche fuori dal set, gli chiedeva sempre se avesse sete, fame, se avesse freddo, se fosse stanco. Vivere così un personaggio rendeva Gian Maria, come ho detto, incredibile. Che poi quando interpretava personaggi negativi e nella sua filmografia non ne mancano, poteva divenire un personaggio veramente negativo.

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Philippe Noiret ne Gli occhiali d’oro (1987)

Oltre che con Gian Maria Volonté ha lavorato con una moltitudine di attori italiani e stranieri di grande livello tra cui John Cassavetes, Ingrid Thulin, Edward G. Robinson, Janet Leigh, Klaus Kinski, Ann Bancroft, Philippe Noiret… Tra le peculiarità delle sue regie vi è sempre grande attenzione per la direzione degli attori…

Ho sempre avuto grande ammirazione per gli attori, so cosa vuol dire fare una scena, e poi rifarla altre volte, la tensione e la necessità di ricaricarsi per la scena clou, il riuscire a trovare la giusta tonalità. So bene cosa vuol dire fare il mestiere dell’attore.

 In Italia la censura non ha sempre facilitato il percorso registico e al contempo anche certa critica cinematografica non  ha accolto favorevolmente o sostenuto i propri autori, come invece è accaduto, ad esempio, nella vicina Francia, mi riferisco soprattutto agli anni cosiddetti d’oro del cinema italiano, della stagione sul finire degli anni cinquanta, sessanta…

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C. Lizzani, G. Montaldo e F. Fellini

A proposito di censura, pensi che un film di Mario Monicelli fu addirittura censurato (Totò e Carolina, 1955, ndr) (4), tagliato più volte, è assurdo. Ma in verità il cinema italiano ha vinto, anche nei momenti di crisi ce l’ha fatta, grazie ai nostri autori e ai nostri attori, è riuscito ad uscire da certi labirinti, perché anche i divieti sono stati superati con la grinta di certi registi. E poi dobbiamo ringraziare i martiri della qualità, quelli che coi loro film ottenevano un pallino come valutazione critica ma riempivano le tasche dei produttori di denaro che, a loro volta, erano poi invogliati a chiamare Fellini o altri autori per produrre un bel film e avere qualche soddisfazione. Era un cinema a pugno chiuso, eravamo tutti piuttosto uniti, molti vicini, adesso invece è tutto un po’ più sparpagliato. Ci sono film che hanno fatto anche buoni incassi, come ad esempio i film di Monicelli, di Scola,  per non parlare degli sceneggiatori come Age & Scarpelli, Ennio Flaiano, Leonardo Benvenuti, De Bernardi e ancora tanti altri nomi, erano questi gli sceneggiatori che, essendo amici, discutevano, litigavano, eravamo tutti fratelli. È stata una stagione dove si sono fatti film meravigliosi e anche graffianti, potrei citare titoli come La grande guerra di Mario Monicelli o le pellicole di Ettore Scola, c’è sempre dentro un discorso importante, si ride ma si riflette anche. Questo cinema, malgrado le difficoltà, è sopravvissuto.

L’avvento del digitale ha certamente rivoluzionato il modo di fare cinema, ha  impresso un cambiamento importante, rispetto al relativo processo creativo, qual è la sua opinione, rispetto anche alla produzione cinematografica odierna? Lei, tra l’altro, è stato di recente presidente del Premio David di Donatello, quindi ha avuto modo di vedere molti film ed entrare in contatto con  personalità emergenti della cinematografia nostrana…

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Sul set de L’industriale (2011)

Quando sono arrivato negli anni cinquanta a Roma non c’era la pubblicità, non c’era la televisione, i documentari li facevano solo grandi registi affermati come Gillo Pontecorvo, Michelangelo Antonioni, Florestano Vancini. E quindi per gli altri, cosa rimaneva? Ci si doveva arrangiare, si poteva fare l’aiuto regista, lavorare in televisione, oppure trovare piccole parti se si era attori, per sopravvivere, non c’era altro. Ora il problema è la tecnologia moderna, la gratuità della fruizione, ma anche la televisione. Ci sono dei giovani registi e sono anche bravi, alcuni usciti dal Centro Sperimentale, ma vanno messi nelle condizioni di poter lavorare. Infatti ora i film si girano col telefonino, si scrivono le sceneggiature al computer, tu e il computer, i produttori non finanziano più le sceneggiature. È cambiato il mondo, la pellicola non c’è più, ci sono tanti film ma è difficile vederli, spesso non escono neppure, c’è una sovrapproduzione. E certi lavori, poi, si capisce che sono stati fatti di corsa, senza cast, senza appetizing

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Ennio Morricone e Giuliano Montaldo

Note:

  1. Una Cooperativa di spettatori nata a Genova nel 1950, col fine di produrre film fuori dal condizionamento e dalle logiche del mercato. La Cooperativa rimase in vita pochi anni e riuscì a produrre unicamente due film, Achtung Banditi! e Cronache di poveri amanti.
  2. Il film fu presentato alla ventiduesima edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia nel 1961.
  3. La morte legale (Italia, 2017) regia di Silvia Giulietti e Giotto Barbieri.
  4. Totò e Carolina di Mario Monicelli, film sottoposto a censura perché il personaggio di Totò ridicolizzava eccessivamente la Polizia. Il film, ridotto a 80 minuti, rivide la luce nella propria versione integrale soltanto sul finire degli anni novanta con la reintroduzione di tagli (imposti da tre commissioni di censura), per una durata complessiva di 93 minuti. Fortemente menomato, il film non ottenne un grande successo.

 

 

HERE’S TO YOU, BARTOLOMEO VANZETTI E NICOLA SACCO  

di Anna Albertano

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Il 23 agosto del 1927, l’assassinio di Bartolomeo Vanzetti e Nicola Sacco nel carcere di Charlestown, segna l’atto finale di un lungo processo inquisitorio da parte della giustizia statunitense nei confronti di due innocenti, due anarchici italiani emigrati negli Stati Uniti, che vengono uccisi sulla sedia elettrica. A distanza di quasi un secolo resta una pagina buia nella storia d’America, contrassegnata dal razzismo e dal pregiudizio verso due imputati condannati e messi a morte per le loro idee, per la loro nazionalità di origine. Tutto ha inizio nel maggio del 1920, quando Ferdinando Nicola Sacco, originario di Torremaggiore in Puglia e Bartolomeo Vanzetti, di Villafalletto in Piemonte, vengono arrestati con l’accusa di aver partecipato ad una rapina a mano armata in un calzaturificio e all’omicidio del cassiere e della guardia giurata. Entrambi erano già stati inseriti in un elenco di sovversivi da parte del Ministero della Giustizia e da tempo erano controllati.  Seguono sette lunghi anni di un processo farsa, che solleva l’indignazione pubblica di tutto il mondo, perché calpesta i più basilari principi di diritto di un paese civile. Solo l’Affaire Dreyfus, è stato scritto, per l’intento persecutorio, regge il confronto con quanto accaduto a Boston.

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L’assenza di prove, le false accuse, testimoni comprati o condizionati, la non ammissione di elementi probatori essenziali per la difesa, la ferocia xenofoba del Tribunale del Massachusetts, da parte di giudici, giurati, politici, negano a priori giustizia nei confronti dei due imputati, spesso chiamati durante il processo con i più ingiuriosi appellativi. A favore dei due italiani si svolgono manifestazioni oceaniche a Chicago, San Francisco, New York, a Londra, a Parigi, e in altre grandi città, non in Italia, sotto il regime fascista. Anche la loro esecuzione ha risonanza internazionale. La drammatica vicenda nei decenni resta un simbolo nelle iniziative di protesta e di rivendicazione di giustizia e di libertà, il cantautore statunitense Woody Guthrie negli anni quaranta compone un ciclo di canzoni su di loro attingendo direttamente alle parole di Vanzetti (“le tue canzoni, le tue poesie, i tuoi sogni…”), ma è il film di Giuliano Montaldo, nel 1971, a riportare la vicenda all’attenzione di milioni di persone, film in cui l’intensità d’interpretazione di Gian Maria Volonté nei panni di Vanzetti e di Riccardo Cucciolla in quelli di Sacco, e la ballata sulle note di Morricone scritta e cantata da Joan Baez, ispirata alle parole di Bartolomeo Vanzetti, infiammano i movimenti giovanili europei e inducono studenti universitari americani di Giurisprudenza al riesame delle carte processuali e quindi a definire la condanna dei due italiani un “delitto di Stato”. La memoria di Sacco e Vanzetti, in realtà, nei decenni non si era mai spenta. In America escono diverse pubblicazioni sul tema, fra cui le lettere dei due condannati. Nel 1959 la Rai di Torino è a Villafalletto, paese di nascita di Vanzetti, nel cuneese, per realizzare un documentario, nel ‘61 viene portato in scena il dramma in tre atti Sacco e Vanzetti di Mino Roli e Luciano Vincenzoni per la regia di Giancarlo Sbragia, presentato nei teatri di molte città italiane, più tardi a Parigi, e trasmesso anche dalla radio. Nel ‘62 Dino De Laurentiis intende produrre un film, ma poi il progetto viene accantonato. Intanto c’è stato un originale televisivo americano di Reginald Rose trasmesso nel 1960 in Usa e in molti paesi, ma in Italia la Rai di Ettore Bernabei lo censura, è Italo De Feo, alta carica dell’azienda, ad opporsi duramente alla sua messa in onda, per anni, perché lo considera “antiamericano”. Il teledramma verrà trasmesso sulla Rete Due nel marzo del 1977.

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È stato certamente il film di Montaldo a smuovere le coscienze e a far conoscere nel mondo la vergogna del Tribunale di Boston, del potere conservatore del Massachusetts che aveva fatto di tutto per distruggere il simbolo dei due italiani anarchici. La loro riabilitazione da parte di Michael Dukakis nell’estate del 1977, in cui il governatore del Massachusetts dichiara: “ogni stigma ed onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti” è conseguente al film ma è anche la risposta alla richiesta di giustizia sostenuta incessantemente dalle rispettive famiglie e da Comitati internazionali, che giunge a distanza di cinquant’anni dalla loro condanna. La famiglia Vanzetti, il fratello e le due sorelle, hanno raccolto e conservato per quasi un secolo moltissimi documenti che hanno reso possibile la stesura di libri, di saggi, la realizzazione di documentari e spettacoli teatrali, dedicando la loro vita alla memoria di Bartolomeo, con il Fondo a lui intitolato, poi donato al Museo della Resistenza di Cuneo. Bartolomeo Vanzetti, Tumlin è il diminutivo con cui veniva chiamato, sin da ragazzino quando lavora fuori casa, scrive alla famiglia. A spingerlo ad emigrare, a vent’anni, è il dolore per la morte della madre. Negli Stati Uniti svolge lavori diversi, e prosegue nel suo percorso di autodidatta, legge, apprende a parlare e a scrivere in inglese, osserva. Nelle lettere ai familiari racconta il razzismo:

“Qui la giustizia pubblica è basata sulla forza e sulla brutalità … e guai allo straniero e in particolare l’italiano…”0004A6BE-sacco-e-vanzetti-vita-e-morte-di-due-martiri-di-intolleranza-e-odio

“Non credere che l’America sia civile, che nonostante non manchino grandi qualità nella popolazione americana e ancora più nella totalità cosmopolita, se gli levi gli scudi e l’eleganza nel vestire trovi dei semibarbari, dei fanatici e dei delinquenti… Qua è bravo chi fa quattrini, non importa se ruba o avvelena.”

“Tutti hanno fatto e fanno fortuna nel vendere la dignità umana, facendo  le spie sui lavori e gli aguzzini ai propri connazionali.”

Non mancano critiche agli italiani, né riferimenti alla mafia:

“Sappi che c’è una moltitudine di giovinotti italiani… che non lavora mai: sono sempre sui divertimenti e vestono elegantemente. Appartengono alla mano nera e vivono col frutto dei loro delitti.”

Vede il degrado culturale e sociale nel popolo di emigrati che ha fondato l’America:

“dopo due generazioni… codesti figli dei perseguitati inglesi, per rettitudine di sentimenti religiosi e civili che anche a quell’epoca li onoravano altamente, sono diventati ora un mostruoso miscuglio di pregiudizi di corruzione e di cattività umana.”

“L’America, cara sorella, è detta terra della libertà, ma in nessun altro lembo della terra, l’uomo trema e diffida dell’uomo, come in essa. Qui si parla della libertà per ridere e farsi buon sangue. Qui i lavoratori americani si chiamano fratelli, nella sala dell’unione, e fuori si fanno la forca e la spia.”

Bartolomeo potrebbe ottenere un’assoluzione separando la propria causa da quella di Nicola, glielo propone l’avvocato, ma è un compromesso che condannerebbe l’amico, e quindi lo rifiuta. Indifferente alla propria sorte, fino all’ultimo ha un atteggiamento protettivo verso Sacco che a differenza di lui ha moglie e figli.

In una lettera al padre, dopo aver ribadito la propria innocenza, scrive:

“Avrò contro di me la legge colle sue immense risorse; la polizia che nell’arte scellerata di perdere degli innocenti ha esperienza millenaria, sicura e protetta, incontrollata e incontrollabile in ogni sua mossa; l’odio di razza e politico; la formidabile potenza dell’oro in un paese e in un’ora che si dibatte nell’ultimo stadio della degenerazione umana e che spingerà dei miserabili a dire contro di me le menzogne più ributtanti…”

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E a proposito  della corruzione della giustizia americana:

“in America la giustizia si compra e si vende per una manata di ceci”

“se noi fossimo stati colpevoli del delitto imputatoci e fossimo appartenuti alla malavita -e da essa protetti e difesi- saremmo liberi da oltre tre anni…”

I veri responsabili della rapina e del pluriomicidio per cui sono stati condannati Nicola e Bartolomeo, come risulta da indagini, inchieste, testimonianze provenienti da più fonti, italiane e americane, erano con grande probabilità italiani. Rimasti impuniti.

Riferimenti bibliografici e filmici:

Lorenzo Tibaldo, Sotto un cielo stellato Vita e morte di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, Claudiana Editrice, Torino, 2008

La morte legale (Italia, 2017) regia di Silvia Giulietti e Giotto Barbieri

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A PROPOSITO DEI FILM DI GIULIANO MONTALDO

a cura di Gianluigi Bernini

TIRO AL PICCIONE

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Tiro al piccione

“Dal 1960 sullo schermo tornano a crepitare i mitragliatori tedeschi, ma si punta anche l’attenzione sul ruolo attivo dei fascisti al loro fianco. Tornano a riaprirsi ferite mai rimarginate e pagine dolorose della storia sono rilette con intenti più riflessivi, problematici e articolati. […] In pratica fascismo e antifascismo non vengono più interpretati secondo un ottica ideologica, ma, al massimo, da un punto di vista morale. L’antifascismo appare come un presupposto comune, ma anche come il dato meno importante del film, che pone in primo piano l’intreccio e subordina l’evento storico a funzioni emotive. L’effetto positivo è quello di una ripresa di circolazione e di contatto tra il pubblico e la storia recente, sia pure attraverso vari tipi di mediazioni e filtri. Così, per uno strano fenomeno di avvicinamento e distanziamento, questi film riescono ancora a produrre – grazie ai meccanismi spettacolari – fenomeni di identificazione emotiva, risate liberatorie, mentre dal punto di vista storico fanno ormai sentire la distanza e l’irripetibilità del fenomeno. La monumentalizzazione della Resistenza e dello spirito antifascista consiste proprio nella adozione comune dei meccanismi narrativi, di topoi che rimbalzano da un film all’altro, permettendo di raggiungere un pubblico di massa. Così – pur unificabili tutti – sotto il comun denominatore di tentativi di ricostruzione di nuclei fattuali molto precisi (l’8 settembre, il 25 luglio, la marcia su Roma, le quattro giornate di Napoli, il processo di Verona) questi film, presi nel loro insieme, introducono nuovi termini di discorso, differenti punti di vista e soggetti dell’azione, sostituiscono alla certezza le situazioni di dubbio, alla nettezza del messaggio antifascista la rappresentazione di posizioni intermedie, ambigue. Nonostante la mediocrità stilistica e ideologica molte opere sono assai rappresentative di un mutamento dell’ottica generale. Compaiono più fascisti in camicia nera nel cinema dei primi anni Sessanta che in tutto il cinema del ventennio e lo sguardo si spinge oltre i riti e i miti di facile ridicolizzazione, fino al tentativo di ricomporre una fenomenologia di comportamenti comuni e quotidiani. La borghesia italiana può finalmente rivedersi in vesti fasciste e ridere di essa, ritenendosi completamente assolta delle colpe passate. Si cominciano a osservare e a raccontare storie di aderenti alla repubblica di Salò (Tiro al piccione di Giuliano Montaldo) e a mostrare quelle responsabilità dirette dei fascisti (La lunga notte del ’43 di Vancini) nelle rappresaglie e nella lotta antifascista che finora erano attribuite solo ai nazisti. Le maschere dell’italiano si moltiplicano: si cominciano a disporre le ragioni dei vinti accanto a quelle dei vincitori. Il dopoguerra è osservato in prospettiva: viene raccontata da più registi la caduta delle speranze e del sogno collettivo che la lotta di liberazione aveva alimentato, ma si comincia anche a sentire la distanza, la perdita di memoria, il senso di una rimozione collettiva. Lo stile comico, la farsa, il grottesco rendono, in un certo senso, più accettabile questo vero e proprio ritorno del rimosso, questa rivisitazione di una tragedia collettiva che un gruppo di registi e sceneggiatori ritiene necessario affrontare in un certo modo per raggiungere il pubblico di massa”.

Gian Piero  Brunetta, Storia del cinema italiano 1960-1993, Editori Riuniti, Roma, 2001. 

UNA BELLA GRINTA

“(…) L’intenzione del film è palesemente quella di mostrare gli aspetti negativi di certe carriere economiche. Per i fini della dimostrazione  Montaldo ha forzato le tinte e non si è limitato a additarci un affarista sparviero che non bada a scrupoli nel suo mondo, bensì ne ha fatto anche un assassino (…) Nonostante i toni eccessivi e polizieschi della parte dedicata all’assassinio, l’epilogo ha un suo vigore morale e l’effetto di mostrare che  nel ‘miracolo’ non è tutto oro quel che riluce, è raggiunto. Ottimo il Salvatori in una delle sue più mature interpretazioni.”

 Sergio Frosali, “La Nazione”, 5.5.1965

AD OGNI COSTO

 “(…)Sarebbe rendere un cattivo servizio allo spettatore metterlo al corrente degli imprevisti che rendono ardua una spedizione così prevista nei dettagli. Basti dire che gli esecutori del colpo sono, senza saperlo, deboli pedine di un gioco molto più grande di loro, e che a tale gioco saranno impietosamente sacrificati. Ma, per una specie di nemesi, neppure chi li ha giocati potrà godersi il frutto della propria astuzia diabolica, chè la ricchezza per la quale tanto si è combattuto finirà con l’essere dispersa, o col passare fortuitamente in mani ignare (…) Gli attori e i caratteristi, scelti fra i migliori, recitano con molta sobrietà in questo pulitissimo film, che consacra Giuliano Montaldo un regista dalla tecnica scioltissima, maturo per film anche di maggiore impegno”

Sergio Frosali, “La Nazione”, 2.12.1967

DIO è con noi

Gott mit uns

GOTT MIT UNS

“(…) E’ un film scandito con sicura progressione, senza enfasi e turgori. L’impressione che resta di questo livido universo concentrazionario, evocato con ossessiva e soffocante credibilità di situazioni e di ambienti, va spesso al di là del rifiuto emotivo sul quale ha puntato, non sempre in modo limpido, molta filmografia della guerra e dei lager, e rimanda, pur nelle forme schematiche e indirette di cui si è detto, al problema di una ‘continuità’ che in quei campi, fin dai primi giorni di pace, non viene spezzata e si insinua anzi nel futuro, riaffermandosi infine negli eserciti integrati della nuova restaurazione atlantica.”

Adelio Ferrero, “Cineforum”

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Sacco e Vanzetti

SACCO E VANZETTI

“Montaldo assolve il compito prefissosi con molta chiarezza. Una volta accertato che il pamphlet nega l’eventualità dell’errore giudiziario, il film si situa d’autorità in quel filone del cinema di ricostruzione documentaria, tenuto sull’orlo del melodramma edificante dall’obbligo programmatico, che trae forza di persuasione e validità spettacolare dalla robustezza del racconto, dalla coerenza dello stile, dal giusto equilibrio fra gli elementi razionali e i ricatti emotivi.(…) Montaldo rievoca le varie fasi del processo e il clima circostante con un piglio popolare che non è allentato da qualche ridondanza, e insieme tratteggia con modi vibranti le figure dei due imputati (…) Un’eccellente interpretazione concorre al successo del film. Rispettivamente Sacco e Vanzetti, Riccardo Cucciolla e Gian Maria Volonté”

 Giovanni Grazzini, “Corriere della Sera”

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Giordano Bruno

GIORDANO BRUNO

 Giordano Bruno non è soltanto un film coraggioso: è un grosso film, di una intensità intellettuale e insieme di una movimentata spettacolarità che è raro veder abbinate. Una figura di questo calibro, così forte e così densa e così sfaccettata, non poteva avere altro interprete che Gian Maria Volonté, protagonista obbligato di tutte le opere più significative del cinema italiano.(…) La scelta di Montaldo è sempre straordinariamente felice: basta un primo piano per caratterizzare un personaggio. Intorno, il fasto della Venezia e della Roma rinascimentale (…)”

 Vincenzo Rossi, “Il Secolo XIX”, 2.2.1974

L’AGNESE VA A MORIRE

“Che senso ha nel 1976 fare un film sulla Resistenza inspirandosi a un romanzo del 1949? “L’Agnese va a morire” di Renata Viganò, scomparsa pochi mesi fa, occupa un posto preciso nella letteratura italiana del neorealismo, soprattutto per il suo valore di testimonianza, e, come tale, è finito sui banchi delle scuole medie, ma a un lettore di oggi può sembrare un testo superato, poco attuale. Intanto almeno nelle intenzioni dichiarate di Montaldo, un’operazione di questo genere vuole essere una rivisitazione del neorealismo ovvero il ritorno a un “genere” inteso nel suo significato contenutistico, in cui il cinema italiano del dopoguerra trovò i tuoi titoli d’onore. È un ritorno, o un recupero, di una tematica civile, di una tensione morale, di un atteggiamento verso la realtà che s’oppone a una stagione in cui, tolte le poche eccezioni dei film d’autore, il cinema italiano si sbraca sempre più nel becero e nel pecoreccio, persino a livello professionale (…) In secondo luogo “L’Agnese va a morire” è, di fatto, il primo film sulla Resistenza che abbia per protagonista una donna. Anzi, quella dell’Agnese, contadina analfabeta, è una storia che si presta a una rilettura in chiave femminista. L’hanno riletta in questo modo, sollecitando con discrezione il testo della Viganò, Montaldo e il suo sceneggiatore, Nicola Badalucco (…) Nell’ambito di quel linguaggio all’insegna della chiarezza, e dell’efficacia e di una robusta drammaturgia che sono tipiche di Montaldo (“Sacco e Vanzetti”, “Giordano Bruno”), “L’Agnese va a morire” ha un salto di qualità nella parte finale dove, tra l’altro, lo soccorre la fotogenia del paesaggio delle valli di Comacchio, esaltato dal suggestivo cromatismo della fotografia di Giulio Albonico. Il modo con cui Montaldo ha saputo rievocare la durezza, la tristezza, l’inerzia, quasi, la disperazione dell’inverno 1944 raggiunge in alcuni momenti una forza tragica (…)

 Morando Morandini, “Il Giorno”, 4.11.1976

“Sullo schermo, nel nitido film di Giuliano Montaldo, Ingrid Thulin fa rivivere Agnese fondendo una bravura da grande attrice con la naturalezza di una non professionista. Se il libro poteva annettere alla scuola del realismo socialista, il film si rifà piuttosto alla poetica del neorealismo. Avendo come punti di riferimento Visconti (la Bassa padana vista ancora secondo l’ottica di Ossessione), e Rossellini (Comacchio nell’ultimo episodio di Paisà), Montaldo ha cercato di aggiornare i contenuti dell’opera introducendovi una sfumatura di femminismo più consapevole. Schiacciata nel libro sotto il peso della presenza maschile (il marito, il comandante), nel film Agnese vive la sua avventura anche come presa di coscienza del suo essere donna.”

Tullio Kezich, “Panorama”, 20.11.1976

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Sul set de Gli occhiali d’oro

GLI OCCHIALI D’ORO

“Il film è simmetricamente costruito attorno a due storie, quella del dottor Fadigatti e quella di Davide; due storie che mettono in campo due tipo d’amore e d’intolleranza che s’intrecciano e si rafforzano a vicenda in una specie di mutuo scambio e soccorso. Parallelamente allo svelamento dell’omosessualità di Fadigati, esplosa nell’avventura con Eraldo (…) assistiamo alla storia d’amore di Davide Lattes e Nora Treves (Valeria Golino). Davide prende coscienza con chiarezza della sua condizione di ebreo e si batte contro l’intolleranza e la persecuzione razziale, comprendendo al contempo che anche Fadigati è una vittima dell’intolleranza (…) Il film di Montaldo, pur soffrendo di qualche caduta di ritmo ed a volte di tono, è fatto con diligenza, intelligenza e sensibilità”

Fausto Bona, “Brescia-Oggi”, 25.10.1987 

I DEMONI DI SAN PIETROBURGO

“Nel film lo scrittore deve lottare contro due intolleranze, che a loro volta sono l’una contro l’altra armate. La prima è l’intolleranza del regime zarista: uno stato autocratico che concedeva di tanto in tanto riforme – come l’abolizione della servitù della gleba, alla quale si accenna nel film – ma che di fatto accentrava il potere e azzerava ogni forma di opposizione. La seconda è l’intolleranza dei suoi giovani oppositori, pronti a uccidere in nome di un ideale astratto. […] Idea: forse “macchina del tempo” è una definizione giusta per questo film. Una macchina che viaggia in due direzioni: porta noi nella Russia di Dostoevskij, porta Dostoevskij fra noi. Seguendo il film è impossibile non pensare alle BR e ai loro deliranti comunicati […]. La macchina del tempo azionata da Giuliano Montaldo ci permette di osservarlo in vitro, al momento della sua nascita – una delle sue tante nascite”.

Alberto Crespi, La Russia di ieri per raccontare il mondo di oggi, in I demoni di San Pietroburgo. Un film di Giuliano Montaldo, Federico Motta Editore, Milano, 2007. 

“(…)Non ha alcuna importanza. Giuliano Montaldo è tornato alla regìa di film dopo 17 anni di assenza, per raccontare questa storia che non ha nulla a che vedere con le biografie convenzionali: febbrile, nervosa, interiorizzata, è invece la vicenda viva d’un uomo straordinario. I demoni di San Pietroburgo ha valori produttivi impeccabili, è fatto benissimo, intensamente: persino il legame tra il presente e le schegge di passato in bianconero è fluido, naturale”

Lietta Tornabuoni, “La Stampa”, 25.4.2008

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Pierfrancesco Favino ne L’industriale

 L’INDUSTRIALE

“Scritto dal genovese Montaldo, attivo dal 1961, con la moglie Vera Pescarolo e il prolifico Andrea Purgatori, è un film di esplicita denuncia etico-sociale dove vale la forma più che i contenuti. Nicola Ranieri, proprietario a Torino delle Officine Meccaniche ereditate dal padre, è sull’orlo del fallimento. Da 8 anni sposato senza figli con Laura, come lui ricca borghese, sospetta che lo tradisca con un baldanzoso garagista, ma non si rende conto di essere fallito anche come marito. Invece di raccontare cause, responsabilità, rapporti con i 70 operai che Nicola non può più pagare e rischiano di perdere il lavoro, Montaldo scarica tutto genericamente sulla recessione che affligge da anni l’Italia e l’Europa e sullo strozzinaggio delle banche e delle assicurazioni e dedica molto, troppo spazio alla sua gelosia. Non manca nemmeno una lieta fine in cui, praticando l’antica, italica arte dell’arrangiarsi, si mette sullo stesso piano dei suoi supposti persecutori. All’attivo rimangono la bravura di Favino (un po’ meno quella della Crescentini in un personaggio contraddittorio), le livide luci e i colori di Arnaldo Catinari, il talento dello scenografo Francesco Frigeri. Tirate le somme, è un film formalista.”

 Il Morandini, Dizionario di cinema

VeraEgiuliano

Vera Pescarolo e Giuliano Montaldo

FILMOGRAFIA

Regista

Lungometraggi

Documentari

  • Nudi per vivere(1963) – firmato assieme a Elio Petri e Giulio Questi con lo pseudonimo Elio Montesti
  • Genova: Ritratto di una città(1964) – cortometraggio
  • L’addio a Enrico Berlinguer(1984) – documentario collettivo
  • Ci sarà una volta(1992)
  • Roma 12 novembre 1994(1995) – cortometraggio collettivo
  • Le stagioni dell’aquila(1997)
  • L’oro di Cuba(2009)
  • Salvare Procida(2009) – cortometraggio, firmato insieme a Silvia Giulietti

Televisione

Cortometraggi

  • Arlecchino(1982)

Attore

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Sul set de L’Agnese va a morire