Numero XXIII – Gennaio 2022
Sommario:
- Il cinema di Volker Schlöndorff alla ricerca delle zone oscure della Storia di Luisa Ceretto
- Incontro con Volker Schlöndorff di Luisa Ceretto
- Bibliografia a cura di Margi Fenoglio
- Filmografia
IL CINEMA DI VOLKER SCHLÖNDORFF ALLA RICERCA DELLE ZONE OSCURE DELLA STORIA di Luisa Ceretto

Né allemand, je suis devenu français puis américain: rêveur, je me suis fait homme d’action; mélancolique, le marathon m’a converti à la joie…Je n’ai jamais été là où l’on m’attendait. Et pourtant, jamais je n’ai eu l’impression de me perdre. L’identité, au contraire de la virginité, ne se perds pas: elle s’acquiert. Quelles qu’en aient été les formes successives, je n’ai jamais cessé de sentir en moi quelque chose d’unchangé, voire d’incorrigible. Un souffle, un je-ne-sais-quoi qui veut vivre et qui m’anime. Peut-être est-ce l’âme, cette vieille lune…ou le coeur qui va, tambour battant? (*)
Volker Schlöndorff

Regista, sceneggiatore, produttore e attore, Volker Schlöndorff è tra le figure più significative del cinema tedesco del dopoguerra, e vanta una ricca e variegata filmografia. Figlio di un medico, nasce a Wiesbaden nel 1939, a cinque anni perde la madre a causa di un incidente domestico. Da ragazzino, col lavoro di caddy nel campo da golf degli Americani – nella “Little America” creatasi nella zona di occupazione americana della Germania di cui Wiesbaden fa parte -, acquista un apparecchio fotografico. La fotografia, oltre alla lettura, diviene il suo hobby preferito. Impregnato di cultura americana ascolta il jazz, frequenta l’Amerika-Haus dove può leggere Hemingway, Faulkner, successivamente Sartre, avvicinandosi all’esistenzialismo. Al liceo dirige un giornale studentesco. Nel 1956 va in Francia per apprendere la lingua, va a studiare in un collegio dei gesuiti in Bretagna, l’esperienza dovrebbe durare due mesi, ma in territorio francese rimane dieci anni.
A Parigi, frequenta il prestigioso Lycée Henri IV, ha come compagno di classe Bertrand Tavernier, con cui condivide l’interesse per il cinema, con lui frequenta le sale del Quartiere Latino e la Cinémathèque Française. Si laurea in Scienze politiche e dopo aver frequentato l’IDHEC (Institut des hautes études cinématographiques) inizia a lavorare come assistente alla regia in alcune delle opere più importanti del cinema francese dell’epoca,da L’anno scorso a Marienbad (1961) di Alain Resnais, a Fuoco fatuo (1963) di Louis Malle, a Lo spione (1963) di Jean-Pierre Melville, suo ispiratore e maestro spirituale.

Dopo la sua prima prova cinematografica, realizzata nel 1960 con l’aiuto di Bertrand Tavernier, Wen kümmert’s? (t.l. A chi interessa?), un cortometraggio di 12 minuti, su immigrati a Francoforte, in cui mostra la giornata di due partigiani algerini assassinati da un gruppo di nazisti, vietato dalla censura tedesca e rimasto inedito (1), nel 1965 rientra in Germania e grazie all’esperienza maturata collaborando con importanti registi francesi, che lo differenzia dai giovani registi dello Junger Deutscher Film (Nuovo Cinema Tedesco), esordisce con I turbamenti del giovane Törless (Der junge Törless) nel ’66, il suo primo lungometraggio, tratto dall’omonimo romanzo di Robert Musil, una storia di formazione ambientata negli anni immediatamente precedenti alla Grande Guerra. Il film riscuote un grande successo internazionale e ottiene numerosi riconoscimenti in importanti festival, fra cui il Premio Fipresci al diciannovesimo Festival di Cannes. Seguono Vivi, ma non uccidere (1967, Mord und Totschlag) un racconto generazionale, omaggio a Melville, e La spietata legge del ribelle (1969, Michael Kohlhaas ‒ Der Rebell) dalla novella di Heinrich von Kleist, attualizzata, riguardante la rivolta studentesca di quegli anni, Baal (1970) da Bertolt Brecht, che ha per tema la ribellione ed è espressione dello spirito antiautoritario del Sessantotto, interpretato dall’amico Rainer Werner Fassbinder.

Baal è anche la prima opera di Schlöndorff prodotta dalla Hallelujah-Film, la società da lui creata nel 1969 con Peter Fleischmann, cui si aggiunse nel 1974 la Bioskop-Film, fondata con Reinhard Hauff ed Eberhard Junkersdorf, case di produzione con cui il regista realizza la maggioranza dei suoi film. Segue L’improvvisa ricchezza della povera gente di Kombach (1971, Der plötzliche Reichtum der armen Leute von Kombach), come Baal prodotto per la TV. Die Moral der Ruth Halbfass (1972) e Fuoco di paglia (1972, Strohfeuer) sono due intensi ritratti femminili dove è riconoscibile l’influenza

della moglie, l’attrice e poi regista Margarethe von Trotta, sposata nel 1969, con la quale nel 1975 collaborerà in due film politici di ispirazione letteraria, Il caso Katharina Blum (1975, Die verlorene Ehre der Katharina Blum), che riflette la situazione politica tedesca degli anni settanta, segnata dal terrorismo, tratto dal romanzo breve di Heinrich Böll e co-diretto dalla von Trotta, e Il colpo di grazia (1976, Der Fangschuss) dal romanzo di Marguerite Yourcenar, con la von Trotta, invece, nel ruolo di attrice protagonista, insieme ad Alexander Kluge, che mostra l’attenzione del regista verso il tema dell’emancipazione femminile.



Successivamente prende parte con suoi episodi a film collettivi, con cui gli autori della Bundesrepublik Deutschland (Repubblica Federale Tedesca) intendevano reagire alla situazione politica del Paese e di cui Germania in autunno (1978, Deutschland im Herbst) resta il modello più riuscito. Nel 1979 Schlöndorff gira una delle sue opere più conosciute, Il tamburo di latta (Die Blechtrommel), adattamento del celebre romanzo di Günter Grass, che ottiene un ottimo successo di pubblico, film col quale raggiunge il culmine della sua carriera e prestigiosi riconoscimenti internazionali, dalla Palma d’oro al trentaduesimo Festival di Cannes ’79 (ex aequo con Apocalypse Now di F.F. Coppola) ad un Oscar nel 1980 per il miglior film straniero. Segue L’inganno (1981, Die Fälschung), ambientato nel Libano sconvolto dalla guerra civile con Bruno Ganz, poi Un amore di Swann (1984, Un amour de Swann).

Il successo gli apre le porte degli Stati Uniti, dove dal cinema d’autore passa alle grandi produzioni e lavora con star, realizzando un adattamento dal dramma di Arthur Miller, Morte di un commesso viaggiatore (1985, Death of a salesman) con Dustin Hoffman e John Malkovich, poi Tutti colpevoli (1987, A Gathering of Old Men) con Holly Hunter, opera in cui la spettacolarità si coniuga con l’impegno antirazzista. E Il racconto dell’ancella (1989, The Handmaid’s Tale), dal romanzo di Margaret Atwood con Natasha Richardson. Film che pur muovendosi fra generi diversi riflettono tensioni e conflitti della realtà contemporanea.
Negli anni novanta, rientrato nella Repubblica Federale Tedesca, Schlöndorff accetta la direzione dello Studio Babelsberg(2), per riportarlo ai fasti degli anni d’oro dell’UFA (3), realizzando poi film diversi fra loro, come Voyager -Passioni violente (1991, The voyager), tratto dal romanzo Homo Faber di Max Frisch, e L’orco -The ogre (1996, Der Unhold), da Il re degli Ontani di Michel Tournier.
Nel 1992 è autore di un grande omaggio-intervista a Billy Wilder, il maestro della commedia americana, Billy, ma come hai fatto? (co-regia Gisella Grischow), documentario straordinario, in cui viene ritratto il regista ebreo galiziano, emigrato negli Stati Uniti con l’avvento del nazismo. (In seguito, nel 2006, tornerà sull’argomento con Billy Wilder Speaks)

All’inizio del duemila, con Il silenzio dopo lo sparo (2000, Die Stille nach dem Schuss) affronta un tema a lui congeniale, quello degli “anni di piombo” , poi gira film in parte non distribuiti in Italia: Strajk – Die Heldin von Danzig (t.l.: L’eroina di Danzica, 2006), in cui si racconta, attraverso un personaggio femminile, un’operaia che lavora nei cantieri Lenin, nei primi anni Ottanta, la nascita di Solidarność – il sindacato autonomo dei lavoratori polacchi, nella Polonia comunista. Nel 2011 firma La mer à l’aube (t.l. Il mare all’alba), su un drammatico caso di rappresaglia nazista nella Francia occupata, e successivamente Diplomacy – Una notte per salvare Parigi (2014, Diplomatie), tratto dall’omonima pièce di Cyril Gely, che insieme al regista ha lavorato all’adattamento cinematografico.
Return To Montauk, del 2017, presentato alla sessantasettesima edizione del Festival di Berlino in concorso, è una struggente storia d’amore ispirata dallo splendido racconto Montauk (1975) del narratore svizzero Max Frisch, interpretato da Stellan Skarsgård e Nina Hoss.
Schlöndorff alterna al lavoro di regista cinematografico quello di regista teatrale e di opere liriche, per le quali nutre una grande passione.

Neuer Deutcher Film, la generazione della colpa contro l’eredità del passato
Esponente di punta del Neuer Deutscher Film e prima ancora Junger Deutscher Film, Nuovo cinema tedesco, gruppo di giovani registi che all’inizio degli anni sessanta avverte la crisi del cinema tedesco e l’esigenza di un nuovo cinema, libero da condizionamenti commerciali, culturali ed estetici (4), tra tutti i registi del rinnovamento della cinematografia tedesca legati all’impegno civile e a uno stile realistico, si afferma per risultati, continuità e riconoscimenti internazionali. Formatosi negli anni della Nouvelle vague francese, porta nel cinema d’autore tedesco, complessivamente colto, problematico verso la realtà e non di rado provocatorio, opere in cui allo sguardo storico-politico si unisce, insieme alla grande capacità di direzione degli attori, l’abilità di adattare sullo schermo testi letterari. Il suo cinema, che affronta autori fondamentali della letteratura tedesca ed europea del Novecento, è un cinema narrativo di vasta comunicazione contraddistinto infatti da un’impronta fortemente letteraria.
Per cogliere appieno la figura e il percorso artistico di Schlöndorff, è inevitabile una contestualizzazione storica. Per una generazione di registi cinematografici nati e cresciuti negli anni del nazismo, in un dopoguerra sconfitto, diviso e distrutto, il cinema è stato lo specchio di una coscienza storica prima che artistica, di riflessione critica prima che estetica.

Come ha scritto Pierre-Henri Gibert, autore del documentario Volker Schlöndorff. Tambour battant (5), definendolo “il più europeo dei registi tedeschi”, “La vita e il destino di Schlöndorff pongono con straordinaria acutezza l’ardua questione dell’identità…Volker Schlöndorff fa parte della generazione di tedeschi che sono stati marchiati dalla colpa, che sono diventati adulti con la vergogna di provenire dal paese dei nazisti.” Affermando inoltre che “ha abbracciato come pochi artisti la storia del suo paese, esplorandone le zone oscure alla ricerca delle radici del male e del degrado, documentando attraverso la finzione le lacune della storia nazionale contemporanea…”(6)
È soprattutto confrontandosi col resto d’Europa, in particolare con la vicina Francia, che emerge la consapevolezza della propria identità nazionale, il dover fare i conti con l’eredità nazista.

La scoperta delle atrocità naziste ed in particolare dei campi di concentramento, avviene per la prima volta con la proiezione di Notte e nebbia, a ricordarlo è lo stesso Schlöndorff nel suo memoir Tambour battant (7) (da cui Gibert trae il titolo del suo documentario, dedicato al regista), quando, ancora a Vannes, in Bretagna, insieme ad altri studenti del collegio vede la pellicola di Alain Resnais. Sconvolto da quelle immagini di cadaveri di uomini, donne, bambini, e dagli sguardi dei compagni di scuola, quando si riaccesero le luci, “com’era potuto succedere?” (“Au fond de moi-meme je n’ai jamais réglé le problème et prèsques tous mes films de Törless au Neuvième Jour, cherchent encore la réponse à cette question soulevé par Nuit et brouillard / Dentro di me non ho mai risolto il problema e quasi tutti i miei film da Törless al Neuvième Jour cercano ancora la risposta alla domanda sollevata da Notte e nebbia”). Anni più tardi, a Hollywood, Schlöndorff apprende da Billy Wilder da dove quelle immagini sconvolgenti provenissero. Erano state girate da cameraman alleati una volta liberati i campi di concentramento, immagini in cui la stessa popolazione tedesca, accompagnata perché prendesse visione di quanto era accaduto, veniva filmata per testimoniare la veridicità delle riprese, per testimoniare le reazioni che quella vista suscitava nei civili tedeschi, temendo che non si credesse a quell’inconcepibile orrore, o che qualcuno potesse dire che si trattava di una messinscena. Wilder era uno dei cameraman e fu poi incaricato del montaggio, il film si chiamò Les Moulins de la mort, fu organizzata una proiezione a Würzburg. Materiali che poi sparirono in qualche archivio, che Resnais visionò dieci anni più tardi per preparare il suo documentario.(8)

Se ne I turbamenti del giovane Törless (‘65) attualizza l’omonimo romanzo di Musil ponendo in luce il degrado morale di una classe dominante e l’autoritarismo della Germania guglielmina prossima al nazismo, ne Il tamburo di latta (‘79) attraverso il protagonista Oskar, lo sguardo è rivolto alla nascita del Nazionalsocialismo e agli anni della Seconda Guerra Mondiale. Sempre la storia tedesca, e in particolare il reclutamento di ragazzini per la Gioventù Hitleriana e la tragedia della pratica concentrazionaria e dello sterminio, sono al centro di L’orco – The ogre (1966, Der Unhold) e Der Neunte Tag (2004, t.l. Il nono giorno), quest’ultimo inedito in Italia. In La mer à l’aube (2011) è raccontato un episodio dell’occupazione tedesca in Francia di cui lo scrittore Ernst Jünger è stato testimone anche letterario. Il film affronta un periodo storico che i francesi non hanno mai affrontato con la dovuta autocritica, sul regime collaborazionista di Vichy governato dal Maresciallo Pétain.

In Diplomacy – Una notte per salvare Parigi (2014, Diplomatie) incombe per tutto il film la minaccia di Hitler di distruggere la capitale francese. Affrontando un capitolo di storia relativamente poco conosciuto, che ha per protagonisti il generale Dietrich von Choltitz, governatore tedesco della città di Parigi e Raoul Nordling, console norvegese che lo convincerà ad arrendersi, il film con destrezza mostra la contrapposizione tra la fede militare incrollabile del generale tedesco eroso dal dubbio e il coraggio del diplomatico norvegese, disposto a tutto per scongiurare la distruzione della ville Lumière.

NOTE:
(*) “Nato tedesco, sono divenuto francese poi americano; sognatore, sono divenuto uomo d’azione; melancolico, la maratona mi ha convertito alla gioia…Non sono mai stato là dove mi si attendeva. Eppure, non ho mai avuto l’impressione di perdermi. L’identità, al contrario della verginità, non si perde; la si acquisisce. Quali che siano state le forme successive, non ho mai smesso di sentire in me qualcosa di immutato, ovvero di incorreggibile. Un soffio, un non so bene cosa che vuol vivere e che mi anima. Può forse trattarsi dell’anima, questa vecchia luna…o è il cuore che pulsa a tamburo battente?”
- Dedicato a Fritz Lang, il cortometraggio è, come è stato osservato,“Une partie de campagne (di Renoir) con la secchezza di Lang”.
- Lo Studio Babelsberg è un circuito di teatri di posa, sale per le riprese e studi cinematografici, situato nel quartiere Babelsberg a Postdam, appena fuori Berlino.
- Casa di produzione e distribuzione tedesca, fondata a Berlino nel dicembre 1917, attiva fino al 1945. È stata la più grande azienda cinematografica tedesca la cui politica di acquisizioni, con la fusione della Decla-Bioskop, comprendeva, oltre ai teatri di posa di Babelsberg, anche le sale dell’UFA Palast. Sotto la direzione di Erich Pommer, nel periodo della Repubblica di Weimar, la Ufa produsse alcune tra le pellicole più importanti di autori come Lang, Murnau e successivamente di von Sternberg e von Stroheim. Sull’onda del processo di “arianizzazione” la Ufa rescisse il contratto con Pommer nel 1933.
- Sul Nuovo Cinema Tedesco vedi L’universo di Margarethe von Trotta nel n. X di “Primi Piani”.
- Il documentario di 52 minuti è stato realizzato nel 2020.
- Pierre-Henri Gibert, nel catalogo de Il Cinema Ritrovato, edizione 2020. Cfr Cinétévé .
- Nel 2009 Schlöndorff è autore di un memoir, Tambour Battant, in cui raccoglie i suoi ricordi dall’infanzia, le prime letture, gli anni al liceo, il suo ingresso nell’universo della settima arte, le sue regie e gli incontri con personalità artistiche che ne hanno segnato il percorso, edito da Flammarion.
- Il film Les Moulins de la mort di Wilder non è l’unico film sulla realtà dei campi di concentramento, anche Hitchcock fu incaricato di realizzare Memory of the camps, vedi Edith Bruck sopravvissuta all’orrore della Shoah di Anna Albertano nel numero XIX di “Primi Piani”.
Abbiamo incontrato Volker Schlöndorff a Bologna in occasione della trentacinquesima edizione del Cinema Ritrovato (20-27 luglio 2021)

INCONTRO CON VOLKER SCHLÖNDORFF di Luisa Ceretto

Lei è nato a Wiesbaden, città situata nella Germania centro-occidentale, divenuta, nel 1945, capitale del Land Assia, all’interno della zona sotto l’influenza degli Stati Uniti. Cosa ricorda di quell’epoca, subito dopo la guerra, cosa l’ha spinta verso il cinema, quali sono i film che ha visto, prima di andare in Francia?
Sì, era la zona cosiddetta “americana”, io avevo cinque o sei anni quando sono arrivati gli americani. Noi ci siamo americanizzati a fondo, immediatamente, perché è una civiltà, io preferisco parlare di “civiltà” invece di “cultura”, molto più interessante rispetto a quella tedesca, tenendo anche conto che gli americani erano i vincitori.
E la Germania, nella mente e nell’anima, ne era uscita distrutta…E lì, invece, c’erano quei giovani soldati americani con una civiltà talmente interessante, se messa a confronto con la catastrofe che era derivata dalla nostra, che sicuramente ci siamo alleati coi cosiddetti occupanti, che per noi erano liberatori e rappresentavano un nuovo inizio.
Ma il cinema non c’era dove abitavo, ero in campagna, e non ha avuto alcuna influenza, come invece l’avevano la musica, le riviste o la letteratura.

È solo verso la metà degli anni cinquanta che ho cominciato ad andare un po’ al cinema, c’erano western, soprattutto noir, e poi sono arrivati i primi film francesi di Cocteau, ma anche Rififì (1955, diretto da Jules Dassin, ndr). Ma in particolare Cocteau, Les enfants terribles, Orfeo.
L’arte, e più ancora l’avanguardia nel cinema mi aveva colpito molto, è stata la ragione che mi ha spinto a recarmi in Francia. Andare in America a quell’epoca era escluso, troppo lontano, troppo caro e per fare cosa? Invece la Francia era sull’altra riva del fiume Reno, eravamo vicini.
La vera passione per il cinema è nata in Francia, quasi subito, perché nel collegio dove sono stato c’era un cineclub, si vedevano film di Dreyer, Giovanna d’Arco. Noi, eravamo come “vampiri”, ma questo è avvenuto successivamente, alla Cinémathèque Française. Si trattava della seconda volta che “cambiavo” civiltà, la prima volta avevo lasciato quella tedesca in favore della civiltà americana e, successivamente, a sedici anni, mi ero avvicinato a quella francese, che è rimasta l’influenza più profonda, fino ad oggi.

Ben presto siamo divenuti un gruppo. C’era Bertrand Tavernier, era a scuola con me, nello stesso banco, al mio fianco. Ma non solo lui, c’era tutto il movimento intorno alle riviste di cinema minori, non dei “Cahiers du Cinéma”, ed è stato così che la cinefilia ha preso per me una fisionomia precisa.
Poi ho conseguito la maturità, nel 1958, e allora ho cominciato a frequentare la Cinémathèque, per due anni. Posso dire che la mia formazione è stata proprio francese, anche per l’aspetto letterario.
Sin dai primi anni sessanta c’erano stati fermenti all’interno del cinema tedesco, una generazione di nuovi autori aveva denunciato lo stato di crisi e l’esigenza di un suo profondo rinnovamento. Rientrando in Germania, nel 1965, com’era la situazione sul piano cinematografico?
Nel 1965 sono andato in Germania per girare I turbamenti del giovane Törless. C’era già stato il manifesto di Oberhausen (siglato nel 1962, ndr), io ero in contatto, ancora una volta, attraverso una rivista di cinema, con uno storico del cinema che si chiamava Enno Patalas, che successivamente è divenuto direttore della Cineteca di Monaco. Credo, tra l’altro, di essere stato io ad avere avuto una certa influenza affinché ottenesse quel lavoro, che non voleva, era uno storico e un critico puro, non si era mai occupato di aspetti organizzativi di un’istituzione. Perché accettasse la direzione era stato necessario spingerlo e convincerlo, così come, allo stesso tempo, era occorso che la città e i suoi rappresentanti lo accettassero. Una scelta che si è dimostrata ideale, Enno era perfetto per fare il direttore, sembrava essere nato per dirigere la cineteca, ma non lo sapeva ancora.
Io lo avevo conosciuto già nel 1960 o ’61, a Parigi, perché Enno vi si recava spesso, forse sul set di Zazie nel metrò (di Louis Malles), o in un’occasione simile, ma certamente sempre quello stesso anno ero stato a Monaco. Il mio primo contatto con il cinema tedesco era proprio avvenuto nel 1960 per L’anno scorso a Marienbad (di Alain Resnais). Avevamo trascorso due o tre mesi a Monaco, sono state riprese e tempi di preparazione molto lunghi, e ho abitato a casa di un critico, per qualche tempo, e così ho fatto la conoscenza di Enno e Frieda Grafe, sono loro, del resto, che mi hanno suggerito di realizzare I turbamenti del giovane Törless, testo che non avevo ancora letto.
E da allora ero rimasto in contatto con loro e di tanto in tanto inviavo miei testi, da Parigi, alla rivista “Filmkritik”, e riuscivo, in tal modo, a ricevere tutte le informazioni su ciò che succedeva sulla scena, non erano ancora usciti grandi film.
Per quel che posso ricordare, c’erano cortometraggi che non avevo visto, ma una volta giunto a Monaco, ho subito preso contatto con Alexander Kluge, tra l’altro ho abitato in un appartamento, affittando da lui una camera. Enno mi aveva fatto conoscere Werner Herzog, il quale aveva appena realizzato il primo cortometraggio e mi ha indicato i luoghi dove girare I turbamenti del giovane Törless: ”occorre che tu vada in Austria, sulla frontiera con l’Ungheria, c’è una cittadina, è lì che devi girare”, era sempre molto impositivo.

Ma non avevo altri contatti, sapevo che Kluge stava girando il suo primo film, tanto meno con Urlich Schamonis o coi tre o quattro fratelli Schamonis, avevo trovato molto bello, tra l’altro, il suo film, Es (1966). Il titolo fa riferimento al bambino che la protagonista porta in grembo e al suo tentativo di abortire. Un lungometraggio semi documentario e fiction, un bellissimo film su Berlino, che era stato presentato a Cannes, nella selezione ufficiale del concorso, lo stesso anno de I turbamenti del giovane Törless. D’altronde era questo il grande successo pubblico del cinema tedesco, qui si trattava di un film che parlava ai giovani e di attualità, per via dell’argomento, l’aborto era ancora vietato in Germania, come lo era in Francia. Ma oltre ad affrontare il tema dell’aborto, Es era anche un film sulla situazione della Germania dell’Est e sulla speculazione immobiliare, un’opera davvero interessante. Nel giro di qualche mese facevo parte di un gruppo che si era formato in maniera spontanea. Non è che questo gruppo preesistesse, ma come spesso accade, tutto ad un tratto esisteva,e non c’erano ancora né Wim (Wenders), né Fassbinder, sono arrivati coi loro film due o tre anni dopo. E pure Edgar Reitz…

Per quanto ciascun regista seguisse un proprio percorso artistico, c’erano tuttavia linee che ne rendevano visibili un filo rosso, una ricerca comune…
È divenuto presto un gruppo molto coerente perché avevamo tutti l’industria cinematografica contro. Eravamo quindi obbligati a chiudere i ranghi, ad organizzarci. Ci siamo anche politicizzati, perché occorreva ottenere una legittimazione in favore del cinema, per ricevere sovvenzioni, modificare la censura, che era assurda per il suo sistema di qualificazione dei film, quindi ci siamo trovati in una lotta comune che ci ha uniti e certamente ci possono essere state influenze reciproche. Non avevamo un programma comune su quale genere di film realizzare, ma c’era comunque una intesa tra di noi che non necessitava più di tanto di essere articolata. Un’intesa che poggiava sulla necessità che il cinema riflettesse la realtà rappresentata, che fosse contemporanea o meno, trovasse nuove forme, nuove estetiche, la mdp mobile, la presa diretta del suono, etc. L’unità si era creata contro un nemico comune, che era l’industria del cinema e l’estetica di certi film, e l’assenza totale di coscienza politica in quelle personalità del mondo del cinema da cui prendevamo le distanze. Tutto questo avveniva ben prima del 1968, tre anni prima, ma c’era già praticamente il programma del 1968.

Nel 1978 firma Germania in autunno, un film collettivo prodotto su iniziativa della “Filmverlag des autoren” (1) riguardante problematiche della realtà contemporanea, come il terrorismo(2), in particolare la morte dei principali componenti della banda Baader Meinhof. Cosa ricorda di quel momento, rifletteva uno spirito di grande coesione tra voi registi, una forte connessione rispetto alla realtà circostante…
Alcuni giorni dopo i funerali dei terroristi svoltisi a Stoccarda, sono andato a Bonn per festeggiare l’anniversario, era il cinquantesimo compleanno di Günter Grass e il sessantesimo di Heinrich Böll. Uno lo conoscevo perché avevo girato Il caso Katharina Blum, e con l’altro ero in contatto perché stavamo preparando Il tamburo di latta. Non ricordo di quale dei due fosse il giorno esatto del compleanno, in ogni caso c’erano entrambi, eravamo in una reception di un hotel a Bonn, era presente anche Willy Brandt.
E questo dimostrava che c’eravamo tutti, avevamo cominciato dieci o dodici anni prima, nel 1965, il 1978, era un po’ la fine, eravamo non soltanto politicizzati ma andavamo tutto il tempo a Bonn, conoscevamo personalmente tutti gli uomini politici, esponenti della socialdemocrazia, avevamo veramente contribuito a sostenere il cinema. Quel film ha documentato un momento drammatico della storia tedesca.

La sua biografia, come ha accennato, si intreccia con pagine cruciali di Storia, prima fra tutte il nazismo. Quanto la Storia è entrata nel suo fare cinema, quanto ha influenzato il suo percorso artistico, i suoi film?
Si, sicuramente, ne ho parlato anche a proposito di Romy Schneider (3), erano gli anni in cui ci sono stati i primi processi ad Auschwitz e quindi c’era questa coscienza che avevamo, un senso di responsabilità verso la nostra Storia, e su come dovevamo collocarci. Occorreva farsi carico di questa eredità, oppure ignorarla? La scelta politica è stata quella di farsene carico, per quanto in quel periodo storico fossimo poco più che bambini, ciò non voleva dire nulla, era parte della civiltà da cui provenivamo, anche perché una civiltà non cambia così velocemente. E molto presto, per quanto ci riguarda, sin da adolescenti, avevamo già la sensibilità, potevano essere i professori a scuola o altre persone, gli amici dei genitori, per cogliere e sentire ovunque i rigurgiti del nazismo, ma soprattutto il rifiuto a parlarne. Tutti sostenevano di non averne fatto parte, ma se l’intera popolazione, come dicevano, non ne aveva preso parte, occorreva che qualcuno avesse aderito. C’era una sfiducia assoluta da parte nostra nei confronti dell’universo degli adulti.
Del resto è stato Adenauer, la sua politica, a ipotizzare il 1945 come l’”anno zero” a partire dal quale una nuova società potesse crescere, senza guardare indietro, a ciò che era stato fatto prima, e senza fare i conti col passato. (4)

Il tamburo di latta costituiva, per certi versi, una riflessione sul nazismo…Ci può raccontare com’è nato?
All’estero Il tamburo di latta è percepito come un film politico, sul nazismo. Ma non era quella, se devo dire, la mia motivazione. Intanto, facevo film da tredici anni, l’affrontare un tema come il nazismo, era come sfondare una porta aperta.
Ad interessarmi era soprattutto il personaggio del piccolo Oskar e quell’universo fantastico di Günter Grass. Ciò che avevo appreso da Grass e che in precedenza non avevo del tutto capito, era che il movimento nazista fosse stato un movimento piccolo-borghese, che i partiti di sinistra, che si trattasse dei socialisti o comunisti o i socialdemocratici, si occupavano del proletariato, i partiti di destra o del centro si occupavano della grande borghesia, degli industriali e dei loro interessi economici, e la piccola borghesia negli anni trenta ma anche a partire dagli anni venti, era stata totalmente trascurata da tutti, si sentiva esclusa. Da un lato c’era il proletariato, dall’altra parte il capitale, “si, ma… e noi?” La piccola borghesia era la parte più numerosa, e non era rappresentata da nessuno, ed è ciò che ha compreso Hitler. Questo è il vero soggetto del film, non l’intuizione, ma l’esperienza stessa di Günter Grass, perché lui stesso proveniva dalla piccola borghesia, che era ancora più esacerbata a Danzica, che era un po’ come una colonia.(5) Spesso quando ci si allontana dal centro, da Berlino, i movimenti prendono le forme più estreme, si è trattato infatti di un nazionalismo piccolo-borghese.

Questa era la tela di sfondo del film, ma per me l’interesse maggiore era stata la scoperta del personaggio, il modo di raccontare molto crudo di Günter Grass e anche il ritratto che faceva della città di Danzica, un piccolo universo completamente chiuso in se stesso, come una città sotto assedio, dove tutte le qualità erano spinte al loro estremo, qualità intese non nel senso buono, relativo a tutti gli aspetti della cultura. Per me realizzare questo film rappresentava più una sfida letteraria che una sfida politica. Come passare da questo genere di letteratura al cinema? Dapprima ho pensato che fosse impossibile e poi, poco alla volta… è a quel punto che è intervenuto Jean-Claude Carrière, che mi ha spiegato che non era per nulla complicato, anzi, piuttosto semplice: “È sufficiente prendere alla lettera Günter Grass per ciò che racconta e non nel modo in cui la racconta. Non bisogna cercare di filmare lo stile, ma occorre cercare la storia che vi è dietro.” E ci siamo resi conto che era perfettamente fattibile, perché si trattava di un vissuto. Günter Grass aveva vissuto tutto ciò, beh non era certo così piccolo, ma tutto l’universo descritto, gli amici, i genitori, i vicoli, conosceva ciascun personaggio, non c’era alcuna invenzione.
I suoi film costituiscono spesso delle sfide, attingendo a testi teatrali, come per il recente Diplomacy, o ad autori, mostri sacri della letteratura, come ad esempio Marcel Proust…

Le farò una confessione. Questa notte, dopo una lunga conversazione con Jérôme Seydoux (presidente di Pathé) e la moglie Sophie Desserteaux ed altre persone, a tavola, qui a Bologna, non abbiamo menzionato espressamente Proust… ma ho ripensato al mio film Un amore di Swann (1984), il cui produttore era il fratello di Jérôme, Nicolas Seydoux, insieme a Toscan du Plantier.
Qual era stata la sfida? Ho sempre creduto che la sfida fosse: vediamo se riusciamo a girare un film su Proust, a metterlo in scena. Ma mi sono reso conto che per me la vera sfida era riuscire a fare un film francese, io che non lo sono, meglio dei francesi! Perché fino ad allora non avevo mai girato un film in Francia. Ero completamente assimilato, ma nel momento in cui volevo girare, mi hanno invece proposto di andare in Germania. Evidentemente non era una mia scelta, mi è stato chiesto di girare un film tratto da Proust. Non è che mi abbiano detto, ecco un progetto per cui cerchiamo un regista.

Non so se cercassero me o fosse una ricerca in generale. Sapevo che avevano chiesto a Peter Brook, che non poteva farlo, e prima che me lo chiedessero, mi ero proposto di farlo. Un amore di Swann direi che sia un bel film ma non riuscito. Un insuccesso programmato e mi domando come sia stato possibile che nessuno lo abbia capito. Dico che era programmato perché qualsiasi sia il grado di assimilazione, non ci si potrà mai totalmente appropriare di una civiltà. Io conoscevo perfettamente l’ambito di cui parlavo nel film, ma non faceva veramente parte di me. Ad esempio nell’adattare il testo di Günter Grass non c’era stata alcuna difficoltà malgrado fosse la mentalità piccolo borghese del regime, lo sentivo, potevo giorno per giorno inventare cose sul set e infondere vita a ciò che facevamo, renderlo credibile. Mentre invece per Proust rimaneva astratto, con molta analisi, gusto, intelligenza, con tutto quel che si vuole, ma non faceva per me, non era esattamente il mio genere.
Sono sicuro che se avessi fatto qualcosa tratto da Thomas Mann, ad esempio I Buddenbruk o altri titoli, sarei stato più a mio agio.

Era stato un peccato di orgoglio, da parte mia, voler adattare un testo di Proust. Non tanto rispetto a Proust, avrebbe potuto essere stato anche Balzac, si sarebbe posto lo stesso problema, conoscevo la società francese, a livello intellettuale, forse sul piano emozionale, ma non la conoscevo nelle viscere.
E oltre a questo, anche la scelta di Jeremy (Irons) e Ornella Muti… automaticamente si erano introdotti elementi di cui era impossibile trovare un filo comune, erano elementi troppo disparati.
Per giustificarmi, mi ero detto che gli italiani avevano preso Burt Lancaster per fare un aristocratico siciliano (ne Il gattopardo di Visconti) e che Federico Fellini aveva preso Broderick Crawford per fare Il bidone (1955) (nei panni di Augusto Rocca) o Michelangelo Antonioni aveva scelto Steven Cochran per Il grido ( 1957), ma gli Italiani lo sanno fare. La società francese è troppo chiusa, non vi si possono introdurre elementi, questa, in ogni caso, è la mia convinzione.
Sentivo bene la gelosia, il rapporto delle classi nel film, ma non sono mai riuscito a cogliere l’essenza della società francese. Il fallimento del film, per me, è che sa di finto, di troppo costruito. Ci sono tutti i migliori ingredienti ma non decolla come avrebbe dovuto.

Ecco, Jean Renoir avrebbe potuto farlo, sarebbe riuscito sicuramente nell’impresa. E dire che c’erano persone intorno a me, responsabili, produttori, come ad esempio Toscan du Plantier, che avrebbero potuto dirmi che era un errore, che il film non avrebbe potuto funzionare. Del resto, credo che Peter Brook avrebbe fatto forse lo stesso errore. Non è colpa di Proust, infatti quel che mi avrebbero dovuto suggerire era, non tanto di evitare un film su Proust, quanto di non fare un ritratto della società francese del Novecento.
Mi ossessiona questo aspetto, potrei parlarne per ore. D’altronde tutta la mia vita è stato l’attraversamento di una civiltà dopo l’altra, ho lavorato misurandomi con civiltà differenti. In America è possibile, è un paese di immigrati.
Crede che negli Stati Uniti sia più facile riuscire a realizzare un film, rispetto alla Francia?
In America, chiunque, da qualsiasi area provenga, può riuscire a fare un film americano, pure io. Infatti, non ho avuto alcun problema a realizzarne. Pensi a tutti gli immigrati che durante gli anni trenta sono arrivati e non parlavano ancora l’inglese, eppure erano già perfettamente americani. Perché la civiltà in America è costituita da influenze che provengono da ogni dove. La società francese, invece, soprattutto nel passato e quella del Novecento, era talmente chiusa, un universo chiuso, come lo era l’universo di Proust, e quindi il mio film era come un insuccesso annunciato, come dicevo prima.
E i miei amici, come Bertrand Tavernier, come Louis Malle, avevano voluto mettermi in guardia, mi avevano detto di non fare il film, di non avvicinarmi a Proust, che era come la vacca sacra, che mi sarei fatto massacrare, in realtà, però, avevano torto. Perché, in effetti, non era tanto Proust il problema, quanto il fatto di non fare parte di quella società. L’ho comunque un po’ analizzata la società francese, ma in modo più modesto, in due film francesi che ho realizzato, La mer à l’aube e Diplomacy. Ma mi sono ben guardato dall’introdurre elementi esterni, mi sono attenuto e ho preso solo tutto ciò che c’era di veramente francese per riuscirvi…

A proposito di percorsi artistici comuni, anche Bertrand Tavernier e Louis Malle si erano trasferiti oltreoceano, confrontandosi con la produzione americana…
Bertrand ha provato perché conosceva bene il cinema americano, ma ha avuto sfortuna in America perché i suoi film americani non sono stati del tutto accettati negli Stati Uniti. Round Midnight – A mezzanotte circa sì, per via del jazz, ma gli altri no.
E Malle, con cui sono stato in contatto pressoché quotidiano quando era in America, beh lui ha sposato due americane, o comunque ha convissuto, si è totalmente inserito e nondimeno è sempre rimasto il “Frenchie”, il regista francese, e questo lo riempiva di rabbia. “Frenchie, do you think I am Frenchie, but I’ll show how Frenchie I am…” Aveva raccolto la sfida ma, a parte Atlantic City, restavano film francesi. Dal momento che sono cosmopolita e multilingue, questo è un mio argomento di riflessione, come sia possibile che non si riescano a mescolare le società…
Cosa ci può raccontare dell’Orco-The ogre, com’è nata l’idea del film?

Lo considero una catastrofe, perché era un film che ho cominciato con Jean-Claude Carrière, unicamente perché Gérard Depardieu voleva farlo. Stava girando in studio a Berlino, a Babelsberg, abbiamo parlato del romanzo, Il re degli Ontani (di Michel Tournier) e mi aveva detto che assolutamente lo avrebbe girato, ci eravamo incontrati con Jean-Claude, c’era un accordo fra noi. Ma trascorso un anno, il tempo di completare la sceneggiatura e di preparare la lavorazione, Gérard, in un gesto di follia, ha dichiarato che sarebbe partito per l’America e che non avrebbe più lavorato su film francesi. Non era contro il mio film in particolare, ma verso il cinema francese in generale, è stato uno dei suoi colpi di testa, durati uno o due anni. La storia di un film è anche una vicenda economica, avevamo già impegnato parecchi soldi per la sceneggiatura e la preparazione, quindi occorreva procedere e fare il film, non potevamo dire, bene non c’è Gérard, fermiamo tutto. Occorreva, o meglio, io volevo procedere anche per ragioni economiche e comunque anche per quello in cui avevamo già investito in termini di idee, di tempo. Allora abbiamo pensato ad un altro attore francese, abbiamo chiesto a Jean Reno, che però mi ha restituito la sceneggiatura dicendo che non aveva capito nulla. Abbiamo pranzato, eravamo in tre, Jean-Claude, io e Jean Reno, lui aveva del resto ragione perché non era la persona adatta per quel tipo di personaggio. Ma ci occorreva un nome. Visto che ero molto amico di John Malkovich, allora ho provato a chiederglielo, lui che può veramente recitare qualsiasi ruolo…’tu sei robusto e grande’…e lo ha fatto magnificamente. Solo che non era un attore francese, quindi occorreva girare in inglese e, d’un tratto, il film è divenuto artificiale.
Se ci fosse stato un attore sconosciuto ma francese, sarebbe stato un film migliore, soltanto che non sarebbe stato prodotto. Avevamo un anticipo sulle entrate a livello internazionale perché avevamo un nome come Gérard Depardieu. Quindi, in sua vece, ci serviva una vedette, qualcuno che fosse del suo stesso calibro e il nome di Malkovich andava molto bene. Tra l’altro era subito dopo il successo di Le relazioni pericolose (1988, regia di Stephen Frears), il suo nome era in auge. E così abbiamo dato inizio al progetto, mi trovavo molto bene con lui, ma qualcosa non funzionava. Forse che non fosse francese era solo una delle ragioni, forse ce n’erano altre…
Lei che si è formato in un periodo di grande vivacità culturale, di osmosi tra cinema e letteratura, come vede oggi la settima arte, in questo nuovo panorama cinematografico, dove spesso pare conti maggiormente la tecnologia rispetto all’idea…

Beh io dalla tecnologia mi distacco totalmente. Onestamente, questa rivoluzione del digitale ha costituito il colpo di grazia per il cinema. È vero che è stata detta la stessa cosa con l’avvento del sonoro. Béla Balázs e altri avevano dichiarato che fosse la fine del cinema. E tra l’altro avevano ragione, perché rappresentava la fine di un certo tipo di cinema. E allo stesso modo il digitale costituisce la fine di un certo modo di fare cinema.
Perché non si tratta soltanto di una diversa modalità tecnica, ma anche ad esempio del modo di rivedere le riprese fatte, sul telefonino, in streaming… per noi il film era un oggetto che durava cento minuti o intorno a quella durata, con un inizio, uno sviluppo ed una fine, in questo ordine, ma questo oggetto non esiste più. E soprattutto il pubblico non sarebbe più capace di fruire tale oggetto. I giovani in particolare, che sono certamente intelligenti almeno quanto lo eravamo noi e altrettanto aperti, ma si sono abituati a vivere in un flou audiovisivo continuo, dal mattino alla sera, in cui non si riesce a tagliare un pezzo… e dire ecco, questo è un film.
Un film diviene parte di questo flou audiovisivo in cui essi vivono, quotidianamente, ed è a causa del digitale e di un certo tipo di cinema. Forse è per via dell’età, visto che ho quasi del tutto finito di fare cinema. Ma anche perché con questo nuovo formato, non saprei che fare. Se mi dicessero che posso girare un film di tre ore, mi chiederei ma per farne che? E lo stesso se mi proponessero di fare una serie di 12 ore. Come possiamo fare col minimo di mezzi, possiamo creare e riempire un’ora e mezzo di tensione e di emozione? Un film è come un orologio dove tutto deve funzionare in maniera impeccabile…

NOTE:
- “Filmverlag der Autoren” è la casa di produzione e distribuzione del Neuer Deutscher Film fondata a Monaco di Baviera, tra la fine del 1970 e l’inizio del 1971, aveva a modello la casa editrice autogestita di Francoforte “Verlag der Autoren”. Tra i titoli in distribuzione nel 1974 vi si trova, ad esempio, il meglio del Neuer Deutscher Film: da Fassbinder a Herzog, da Kluge a Rosa von Praunheim, Schlöndorff, Schroeter. Da quella data in poi, per più di dieci anni, praticamente tutto il cinema d’autore tedesco è stato distribuito sugli schermi della Repubblica Federale di Germania con il marchio rosso del “Filmverlag”.
- Il film collettivo firmato, tra gli altri, da Edgar Reitz, R.W. Fassbinder, A. Kluge e Schlöndorff, è stato realizzato sull’onda dei tragici eventi che ebbero inizio il 5 settembre 1977 col rapimento da parte dei terroristi della RAF del presidente della Confindustria, per concludersi col ritrovamento dei cadaveri dei principali componenti della banda.
- Nel corso della lezione tenutasi al “Cinema Ritrovato” (trentacinquesima edizione), dedicata a Romy Schneider, a Bologna, luglio 2021.
- L’espressione Stunde Null, “ora zero”, mutuata dal gergo militare, si riferisce all’8 maggio 1945 e, più in generale, al periodo dell’immediato dopoguerra in Germania e Austria. Fa riferimento alla resa incondizionata della Wermacht, al crollo del Terzo Reich e alla possibilità per i due paesi di ripartire da zero. Tra le pellicole che raccontano l’immediato dopoguerra in Germania, si ricorda il capolavoro di Roberto Rossellini, Germania anno zero (1948) dove la città di Berlino, raffigurata tra la macerie dei palazzi e la miseria in cui versa la popolazione, costituisce il riflesso della condizione esistenziale, attraverso il personaggio del giovane Edmund, di un paese sconfitto e distrutto dall’ideologia nazista.
- Città portuale da sempre contesa fra Polonia e Germania, tradizionalmente di lingua e cultura tedesca. A seguito della sconfitta della Germania dopo la prima guerra mondiale, Danzica fu dichiarata, “Città Libera di Danzica” (1920-1939). Il 1° settembre 1939 le truppe tedesche invadevano la Polonia, dando così inizio alla seconda guerra mondiale, proprio nel porto della città, dove una corazzata tedesca, in visita a Danzica, iniziava a cannoneggiare le postazioni polacche. La città rimase in mano tedesca fino al 30 marzo 1945. Dopo la cessazione della resistenza tedesca, i soldati sovietici ebbero mano libera in città, Danzica fu saccheggiata e messa a ferro e fuoco. Dopo il 1948 Stalin fece in modo che il governo polacco chiudesse i confini per coloro che volevano riunirsi alle loro famiglie in Germania. Nell’intero processo, la maggior parte degli ex-cittadini tedeschi di Danzica emigrarono nella Repubblica Federale Tedesca. In tal modo la popolazione tedesca divenne ben presto una minoranza all’interno della città. Nuovi residenti polacchi si insediarono a Danzica provenienti da altre parti della Polonia e dalle zone di lingua polacca, che vennero annesse all’Unione Sovietica. Se il tedesco prima di allora era la lingua principale nella città, quella ritratta ad esempio, da Günter Grass, nativo di Danzica, nei romanzi Il tamburo di latta, Gatto e topo e Anni di cani, in seguito la maggioranza degli abitanti divenne di lingua polacca.

BIBLIOGRAFIA a cura di Margi Fenoglio

Scritti di Volker Schlöndorff:
- Peter Buchka, Volker Schlöndorff, Hans Gerhold, Christoph Hummel, Walter Schobert (con testi di), Jean-Pierre Melville, Monaco-Vienna, C, Hanser, 1982
- Daniele Bion, Bertrand Tavernier: cinéaste de l’émotion, préface de Volker Schlöndorff, 1984
- Franz.Manuel Peter, Valeska Gert: Tanzerin, Schauspielerin, Kabarettistin: eine dokumentarische Biographie con prefazione di Volker Schlöndorff, Berlin, Hentrich, 1987
- Roland Schneider, Histoire du cinéma allemand, préface de Volker Schlöndorff. Paris, Les éditions du Cerf, 1990
- Felix Moeller, The Film Minister: Goebbels and the cinema in the ‘Third Reich’, prefazione di Volker Schöondorff, London, Axe Menges, 2000
- Licht, Schatten und Bewegung: mein Leben und meine Filme, 2008, Monaco, C. Hanser
- Tambour battant. Mémoires de Volker Schlöndorff, 2009, Paris, Ed. Flammarion (traduzione dal tedesco da Jeanne Etoré e Bernard Lortholary di Licht, Schatten und Beweging: Mein Leben und meine Filme)
- Volker Schlöndorff, Peter Christoph (e autori vari), Eine Aesthetik des Humanen. Böll, Edition Virgines, 2018
- Ann Ray: les inachevés (testi di Volker Schlördorff, Myriam Blundell, Damien Bachelt, Ann Ray), Art Cinema, 2018

Sui film/Sceneggiature:
- Le coup de grâce di V. Schlöndorff, L’Avant-Scène, 1977
- Die Blechtrommel als Film, V. Schlöndorff, Gunter Grass, Francoforte, 1979
- Die Falschung als Film un der Krieg im Libanon di V. Schlöndorff, Nicolas Born, Bernd Lepel. Francoforte, 1981
- Un amour de Swann: adaptation et mise en scène V. Schlöndorff d’après l’oeuvre de Marcel Proust; scénario Peter Brook, jean-Claude Carrière, Marie-Hélène Estienne, L’Avant-scène, 1984
- Homo Faber: sceneggiatura dell’omonimo film di Volker Schlöndorff, Rudy Wurlitzer (traduzione di Paola Boccaletti e Cristina Spettoli), Circolo del Cinema, Mantova, 1999
- L’onore perduto di Katharina Blum: sceneggiatura tratta dall’omonimo romanzo di Heinrich Böll/Volker Schlöndorff, Margarethe Von Trotta, Circolo del cinema, Mantova, 2000
- Marguerite Yourcenar e Volker Schlöndorff: le coup de grâce, dalla pagina allo schermo, tesi di Chiara Dotta, Torino: Università degli Studi/ Université de Savoie, 2000
- Il silenzio dopo lo sparo: sceneggiatura dell’omonimo film di Volker Schlöndorff/Wolfang Kohlass (traduzione dal tedesco di Lidia Castellani), Circolo del Cinema, Mantova, 2001

Monografie/cataloghi:
- Alberto Cattini, Volker Schlöndorff, La nuova Italia – il Castoro Cinema, Firenze, 1980
- John Sandfors, the new German cinema, New York, 1980
- R. Lewandowski, Die Filme von Volker Schlöndorff, Hildesheim-New York, 1981
- Wydra Thilo, Volker Schlondorff y sus peliculas, Festival Internacional de Donostia – san Sebastian, 2002
- Moeller, Hans-Bernard, Lellis George, Volker Schlöndorff’s cinema: adaptation, politics, and the ‘movie-appropriate’, Cardondale and Edwardsville, Southern Illinois University press, 2000
- Matteo Galli (a cura di) Da Caligari a Good bye, Lenin! : storia e cinema in Germania, Firenze : Le lettere, 2004

Interviste a Schlöndorff e altri volumi:
- Gian Luigi Rondi, 7 domande a 49 registi, Società Editrice Internazionale, 1975 pp.31-33
- Charles Ford, Atelier Marcel Jullian, Cinema Sur Son 31 (1949-1980), 1980 pp. 71-76 ( intervista)
- Costanzo Costantini, I re del cinema, Gremese, 1997, pag. 145-148 (intervista)
- Bob Shelton, Edwin Mellen, A Cultural Study of the Art Film, Press 2003, p. 687-692
- Tim Bergfelder, International adventures, Berghahn Books, 2005, pp. 238-241
- Daniele Sauvaget, Christian Viviani, Les Grands Realisateurs, 2006, pp. 191-192
- Les Lecons de Cinéma, Editions du Panama, 2007, pp. 58-69 (autore testi)
- Michel Ciment, Une vie del Cinéma, Gallimard 2019 (pp. 322-326)

FILMOGRAFIA
- I turbamenti del giovane Törless (Der junge Törless) (1966)
- Vivi ma non uccidere (Mord und Totschlag) (1967)
- La spietata legge del ribelle (Michael Kohlhaas – Der Rebell) (1969)
- Baal (Baal) (1970)
- L’improvvisa ricchezza della povera gente di Kombach (Der plötzliche Reichtum der armen Leute von Kombach) (1971)
- Fuoco di paglia (Strohfeuer) (1972)
- La morale di Ruth Halbfass (Die Moral der Ruth Halbfass) (1972)
- Una notte in Tirolo (Übernachtung in Tirol) (1974)
- Il caso Katharina Blum (Die verlorene Ehre der Katharina Blum) (1975)
- Il colpo di grazia (Der Fangschuss) (1976)
- Solo per scherzo, solo per gioco (Nur zum Spaß, nur zum Spiel) (1977)
- Germania in autunno (Deutschland im Herbst) (1978)
- Il tamburo di latta (Die Blechtrommel) (1979)
- L’inganno (Die Fälschung) (1981)
- Un amore di Swann (Un amour de Swann) (1983)
- Morte di un commesso viaggiatore (Death of a Salesman) (1985)
- Tutti colpevoli (A Gathering of Old Man) (1987)
- Il racconto dell’ancella (The Handmaid’s Tale) (1990)
- Passioni violente (Homo Faber) (1991)
- L’orco – The Ogre (The Ogre) (1996)
- Palmetto – Un torbido inganno (Palmetto) (1998)
- Il silenzio dopo lo sparo (Die Stille nach dem Schuss) (2000)
- Der neunte Tag (2004)
- Strajk – Die Heldin von Danzig (2006)
- Ulzhan (Ulzhan) (2007)
- La mer à l’aube (2011)
- Diplomacy – Una notte per salvare Parigi (Diplomatie) (2014)
- Rückkehr nach Montauk (2017)

ATTORE
2021 Greenlight – German Genius (Serie TV) di Detlev Buck e Cuneyt Kaya
2010 Hitler à Hollywood (Belgio/Francia) di Frédéric Soicher
Volker Schlöndorff
2006 Strajk – Die Heldin von Danzig
Radiocronista (non accreditato)
2000 Schrott – Die Atzenposse di Axel Hildebrand
1981 Mani in alto! di Jerzy Skolimowski
1972 Fuoco di paglia
Uomo al bar (non accreditato)
1971 Mathias Kneissl di Reinhard Hauff
Capostazione
1964 L’amore e la chance
Il militare tedesco (segment “Chance du guerrier, La”)
1962 Lo spione
L’homme dans la barre (non accreditato)
1961 Leon Morin prete
Un soldato tedesco (non accreditato)
MONTAGGIO:
2010 Souvenirs d’une année à Marienbad regia di Françoise Spira (Documentary)
2006 Billy Wilder Speaks (TV Movie documentary)
1960 Wen kümmert’s? (Short)

SECONDA UNITÀ DI REGIA / ASSISTENTE ALLA REGIA
1986 Vermischte Nachrichten (segment director) di Alexander Kluge
1965 Viva Maria! (assistant director – as Volker Schloendorff)
1963 Méditerranée (Documentary short) (collaborator)
1963 Fuoco fatuo (assistant director – as Volker Schloendorff)
1962 Lo spione (first assistant director – as Volker Schloendorff)
1962 Vita privata (assistant director – uncredited)
1961 Leon Morin prete (assistant director)
1961 L’anno scorso a Marienbad (second assistant director – as Volker Schloendorff)
1960 Die Nacht in Zaandam (TV Movie) (second assistant director)

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