
Lei muove i suoi primi passi nella televisione, realizzando documentari e reportage. Cosa l’ha spinta ad avvicinarsi a quell’universo?
Per me significava in primo luogo andare verso la gente, testimoniare, attraverso le immagini, la vita degli altri. La televisione era un terreno di incontro, di ricerca magnifico. Consentiva di viaggiare e andare, appunto, di incontro con le persone. L’ambizione era di restare un creatore libero, indipendente, qualunque fossero le condizioni lavorative. Curiosamente è una situazione che ho trovato proprio alla televisione di stato, mi ha lasciato lavorare in condizioni di libertà costante. Nei ritratti realizzati, ad esempio, c’era una struttura drammatica che metteva in luce la lotta quotidiana di sopravvivenza dei soggetti filmati, che richiedeva un’attenzione che non riguardava la sfera professionale, quanto, piuttosto, l’attenzione e il mostrare un senso di solidarietà nei confronti di chi era ripreso, perché dietro certe esistenze, c’è il coraggio di vivere con mezzi di fortuna. Si trattava di lezioni di coraggio che ho cercato di filmare, spesso erano vittime di situazioni arcaiche, anacronistiche. E’ il caso, ad esempio, di una donna il cui marito, essendo pescatore, quando doveva partire per la grande pesca, stava via per lungo tempo. Non poteva essere presente per molti momenti importanti. Come si fa ad equilibrare una vita in questo modo? L’impressione era quella di assistere a condizioni di vita di un altro secolo, di vedere situazioni incredibili, come la convivenza di nove persone in tre stanze.

Ciò che era molto bello nel nostro lavoro, era che prima delle riprese avevamo il tempo di entrare in contatto, di creare una relazione sincera e profonda con la gente che filmavamo. Il mio modo di lavorare andava ben oltre il momento professionale. Al contempo, però, poteva essere difficile, doloroso e pericoloso.
Per quale ragione?
Si creavano rapporti un po’ eccezionali, idealizzati, con le persone riprese, ma avevano una scadenza, duravano il tempo di un film o di un reportage e poi necessariamente ce ne andavamo. La maggior parte di persone che avevo scelto non avevano i mezzi per difendersi, non avevano grandi difese intellettuali, i nostri rapporti duravano il tempo di un reportage.

Al termine delle riprese, la gente tornava alla vita quotidiana, ad una vita più o meno oscura, nell’ombra, e noi, come troupe, sapevamo bene che per quanto si dicesse che ci saremmo rivisti, questo probabilmente non sarebbe mai più accaduto. Forse saremmo andati in America Latina, o chissà dove, magari a girare un film sulle montagne svizzere. Si creava uno squilibrio che ad un certo momento mi ha disturbato, ed è stata una delle ragioni per cui sono passato alla finzione, per poterle anche maltrattare queste figure, era meglio passare alla fiction.
E quindi avviene il passaggio alla regia per il grande schermo, siamo agli inizi degli anni settanta…
In effetti, i primi film di finzione che ho fatto, sono come dei ritratti. Ad esempio la prima regia, Le fou (1970) è come un ritratto. Sono passato dal reportage alla finzione mantenendo la forma del ritratto, lo è il mio film, come lo è del resto La provinciale, e poi ancora La merlettaia (1977). C’è un personaggio principale, che è illuminato dalla presenza, dalla luce che gli altri personaggi gli apportano. Per rompere con l’idea del ritratto ho fatto svariati tentativi, ad esempio, Le jour de noces, che è come lo schizzo preparatorio de L’invitation che seguiva il racconto di dieci persone. Si tratta di due film che permettevano di raccontare più persone con l’idea che il denaro, ma come del resto anche la malattia, può rovinare le relazioni umane…

Dopo aver esordito sul grande schermo e realizzato pellicole che hanno ottenuto importanti riconoscimenti internazionali, non abbandona mai la televisione, anzi, anche a distanza di decenni, alterna la sua produzione cinematografica con quella televisiva, realizzando telefilm, film per la tv, adattamenti da testi letterari e teatrali. Cosa ci può dire al riguardo?

Lavorare per il piccolo schermo non significa lavorare peggio ma lavorare diversamente. Per convincersene basta vedere cosa riescono a fare registi inglesi come Stephen Frears o Mike Leigh quando girano per la BBC. Se i registi snobbano la tv, questa finirà sempre più fra le mani di semplici esecutori svogliati e senza fantasia. Per me, lavorare per la televisione significa poter scegliere i soggetti che m’interessano. Temi universali in grado di interessare anche il grande pubblico.
Dopo il suo esordio con Le fou, seguono L’invitation e La Provinciale. Nel 1977 firma La merlettaia, prima di affrontare un tema riguardante l’emigrazione italiana in Svizzera con La morte di Mario Ricci, che ha per protagonista Gian Maria Volonté. A questo proposito, verso la fine degli anni settanta, la crisi che coinvolge in Italia soprattutto un certo cinema impegnato, sembra compromettere le stesse possibilità di lavoro per Volonté, quasi che l’attore potesse interpretare soltanto un certo tipo di ruoli ‘politici’. Quali sono le ragioni che l’hanno spinta a scegliere Gian Maria per il personaggio del suo film?
Appartengo alla generazione dei registi che sono stati segnati dal Neorealismo italiano e Gian Maria, in particolare, nei film di Rosi – li ho visti tutti – mi è sembrato l’attore ideale per quello che volevo fare. Era un attore che interpretava all’americana, nel senso migliore del termine, era un attore molto fisico che sapeva riempire lo spazio dell’inquadratura e al tempo stesso ritenevo il suo percorso esemplare per le scelte che aveva fatto. Tra tutti gli attori europei era quello con cui avevo più voglia di lavorare.
La morte di Mario Ricci – con cui Volonté ottiene la Palma d’oro per la migliore interpretazione maschile – è quindi la sua prima occasione di lavoro dopo una lunga pausa. Una scelta non facile per un ruolo molto vicino, in un certo modo, alla sua esperienza di vita. Com’è nata l’idea del film?
Ho conosciuto la prima volta Gian Maria a Genova, dove stava lavorando ad una messinscena con un gruppo di studenti.

L’ho incontrato, insieme allo scrittore con cui avevo scritto la sceneggiatura, sul retro di una trattoria, ricordo che salutava e si comportava come una persona qualsiasi, penso di non aver mai visto un attore così umile. Ho fatto dieci anni di reportage, dopo aver girato in India ed essermi trovato di fronte alla morte, sono rientrato e sono stato a lungo malato. Anche mio fratello, un grande reporter che ha seguito diverse guerre e fatto più volte il giro del mondo, aveva avuto problemi di salute. Tutto questo mi ha ispirato il tema del film. Riunendo le due esperienze personali, mi è stato possibile immaginare una storia che aveva a che fare con l’impotenza del giornalismo di fronte all’evoluzione o piuttosto alla distruzione della società. Ho pensato che Gian Maria potesse essere il solo attore capace di comprendere tutto ciò. Infatti, già a Genova avevo avuto la conferma di quanto fosse attento agli altri. Per il personaggio dello scienziato, mi sono rifatto a René Dumont, esperto della fame nel mondo, che a quel tempo denunciava tutto ciò che stava accadendo. Sentirlo era una rimessa in discussione del nostro lavoro di giornalisti. A Gian Maria ho raccontato le mie esperienze, cosa che lo ha molto interessato. Non è stato difficile per lui avvicinarsi a questa storia.

Sin dal titolo, il film svela realtà e personaggi in modo molto discreto ma intenso. Si scopre poco alla volta cosa c’è dietro ad una facciata che nasconde verità profonde. Tutto ruota intorno al giornalista, Bernard Fontana. Qual è stata la sua esperienza lavorativa con Gian Maria?
Sono di origine italiana, un puro prodotto dell’immigrazione e quindi la xenofobia mi ha sempre toccato molto, almeno quanto Gian Maria. Pur non essendo difficile per me immaginare questo racconto, dovevo tenere presente che in Svizzera le cose sono più dissimulate, meno violente, meno mortali, e così ho scelto di trattare l’argomento in modo più discreto. Sul set di questo film c’è stato davvero un incontro. Con Gian Maria si discuteva di tutto, ci completavamo. Quando andavamo a mangiare, la gente spesso gli diceva, ‘ma ho l’impressione di averla vista da qualche parte’, lui, però, non diceva mai chi era, al contrario, rispondeva, ‘sì, forse sono passato di qui un’altra volta’. Gian Maria era il diavolo e il buon Dio, aveva i due lati, era questo che mi interessava. Quando nel film, per esempio, dà uno schiaffo al ragazzo, d’un tratto rivela il suo lato violento. Ci siamo forse scontrati una o due volte, ma ci siamo sempre adorati. C’è stato un lavoro molto fraterno tra noi, c’era una comunicazione permanente. A quell’epoca era uscito E.T. di Spielberg, ricordo che in un giornale francese di sinistra “Libération”, erano uscite almeno sei pagine su quel film. Entrambi reagivamo in modo molto simile, eravamo scioccati. Anche a Cannes, nessuno dei due aveva lo smoking, mi aveva detto che non voleva assomigliare ad un pinguino come tutti gli altri…
Se in altri film l’aspetto più rimarchevole è la sua capacità mimetica di assomigliare al personaggio, è il caso di Mattei o di Vanzetti, qui la forza risiede nella capacità di interpretare nell’immobilità e nella quasi assenza di dialogo. Un ruolo molto impegnativo…

È una recitazione nell’impotenza. La sua capacità di entrare nella pelle di un personaggio, è la qualità rara del grande attore ed è davvero affascinante. Gian Maria sapeva utilizzare ammirevolmente il proprio corpo. Per esempio, quando entrava in macchina, si sedeva in modo da riempire tutto lo spazio della scena, non c’era nulla da correggere. Spesso altri attori prendono pose teatrali. Gian Maria, invece, non aveva questi limiti. Anche dopo le riprese, continuava a tenere gli stessi indumenti, la giacca era la mia. La difficoltà del film consisteva nel mostrare l’insuccesso di una persona che aveva lavorato per denunciare le ingiustizie nel mondo, rendendosi poi conto che tutto ciò non portava a nulla, perché più si grida la sofferenza e meno la si ascolta. Era questa la tematica del film, prima ancora della xenofobia. La filosofia del personaggio Bernard Fontana è quella della sconfitta, della ferita. È quella per cui non potrà più partire.

Volonté non amava molto parlare di sé, né del suo metodo di lavoro. Cosa può dirci a questo proposito?
L’approccio di Volonté al lavoro era molto serio. Ci sono metodi che non si percepiscono perché si sono compresi a livello intuitivo. Durante le riprese del film c’erano sequenze per le quali aveva difficoltà – per esempio quando era ubriaco e doveva ironizzare sulle cose – a utilizzare un linguaggio diverso dal suo. Era un attore molto più tragico che comico.
Forse questa è una delle ragioni per cui, rispetto ad altri attori, il pubblico italiano lo ha amato meno?
Ad un certo momento anche il Neorealismo non ha più interessato nessuno e lo stesso Rossellini ha trovato con fatica altre occasioni di lavoro. Sono stati relativamente pochi gli autori tragici dopo il Neorealismo, dopo la guerra. Certamente la gente preferiva ridere, invece Gian Maria voleva avere un rapporto serio e grave con la realtà, soprattutto politica. Risi, Castellani, facevano tutti commedia, film formidabili, ma comici. Mastroianni aveva un carisma sorridente. C’era Fellini ma, pur amando il suo cinema, non vedo come Gian Maria avrebbe potuto lavorare con lui, in un suo film. Gli interessavano film che facessero male, non si è mai preoccupato di farsi amare dal pubblico.
Vedendo La morte di Mario Ricci è difficile non pensare che il cinema italiano nei confronti di Volonté abbia perso delle occasioni e abbia avuto troppa poca considerazione del suo talento e della sua versatilità.
È davvero un peccato che un attore del genere sia stato così poco utilizzato nel cinema italiano. Da parte sua, la volontà di non entrare nel gioco delle star ha fatto sì che ci si dimenticasse di lui. Era troppo umano, preferiva nutrirsi della realtà e non vivere delle atmosfere privilegiate della gente che riesce nello show business. Penso non abbia mai accettato di mostrarsi nelle serate di gala per farsi fotografare e fare presenza. L’ultimo film, quello di Anghelopoulos (Lo sguardo di Ulisse), confermava ancora una volta la coerenza di una scelta per la qualità rispetto al successo. Mi ha colpito molto che sia morto durante le riprese. Era un attore ormai disperato nel vedere quale fosse l’evoluzione della società, in particolare di quella italiana. Forse proprio questa disperazione, che lo ha distrutto, gli ha fatto scegliere ruoli drammatici, di resistenza.

Un attore di valenza internazionale, unico per le sue scelte…
Bisogna dire che si tratta di un attore raro, perché è raro vedere un uomo scegliere con così tanta cura i personaggi. È uno degli attori più coerenti del cinema europeo, basta guardare il percorso intrapreso nella scelta dei personaggi, ciascuno dei quali racconta un pezzo della storia italiana. Forse soltanto tra qualche tempo, attraverso i suoi film si capirà meglio l’Italia come era. E questo è di una importanza enorme, è una scelta di vita prima ancora che di attore da parte di Gian Maria. Esprime il lato dell’attore un po’ maledetto, che non regalava nulla nei suoi giudizi, né cercava di addolcirli col miele.
(*) Riproponiamo l’intervista, parzialmente edita nel volume, Gian Maria Volonté, L’immagine e la memoria (a cura di Valeria Mannelli), 1998, Ancora, Transeuropa/Cineteca di Bologna.