Numero XXVIII – Aprile 2023
Sommario:
- Nota biobibliografica
- La vita in poesia di Silvio Ramat di Bruno Brunini
- Incontro con Silvio Ramat di Bruno Brunini
- Opere di poesia

NOTA BIOBIBLIOGRAFICA
Nato a Firenze nel 1939, Silvio Ramat è professore emerito di letteratura italiana contemporanea nell’università di Padova, dove ha insegnato dal 1976 al 2014. La sua attività di critico, premiata dall’Accademia dei Lincei nel 2001, avviatasi nel 1965 con una monografia su Montale (Vallecchi), comprende studi e numerosi saggi sulle maggiori correnti e personalità della poesia del Novecento. Non meno copiosa dell’attività del critico è la sua carriera di poeta iniziata nel 1959 con la raccolta di liriche Le feste di una città, alla quale hanno fatto seguito molte altre raccolte. La sua vasta opera e i suoi scritti sono stati raccolti in importanti volumi e consistenti antologie. Membro della giuria di noti premi letterari, Ramat fa parte del comitato di redazione della rivista “Poesia” ed è Associate Editor di “Forum Italicum”. Negli anni ha collaborato a vari periodici e alle pagine culturali di quotidiani tra cui:”La Nazione”, “Corriere del Ticino”, “Il Tempo”, “Il Giorno”, “Corriere della Sera”, “Il Giornale”. Ha ricevuto prestigiosi premi di poesia. E’ socio effettivo dell’Arcadia e dell’Accademia Galileiana.

LA VITA IN POESIA DI SILVIO RAMAT di Bruno Brunini
Tra il non dimenticare e il ricordare corre un rio sottile dove una barca leggera, senza più vela né remi, va lenta, incerta se una chiusa, presto, le sbarrerà la via o se queste acque avranno sbocco in un più largo fiume. A bordo non un’ombra di pilota. Tutto è rimesso alla grazia del vento. (1)Silvio Ramat
Difficile da contenere in un unico sguardo un’opera così vasta e ricca come quella di Silvio Ramat, poeta, saggista, critico letterario dalla lunghissima carriera, che ha mantenuto nel tempo un ruolo di primo piano nella letteratura contemporanea. Nato a Firenze nel 1939, città mai dimenticata, luogo di giovinezza che avrà nella sua vita valore e sostanza fondamentali, figlio del docente universitario e partigiano italiano Raffaello Ramat, nonché fratello del linguista Paolo, dopo la maturità classica Silvio Ramat si iscrive alla facoltà di Lettere presso l’Università di Firenze, dove avrà come docenti personalità di grande rilievo, figure significative nel suo percorso umano e poetico come Garin, Giuseppe De Robertis, Longhi, Migliorini, Contini, Binni, da quest’ultimo riceve la tesi su Montale, un autore che rimarrà punto di riferimento costante nel corso di una vita. Sono anni fondamentali per il giovane Ramat, l’impatto con la vita culturale della sua città segnerà per sempre lo sguardo del poeta. In una Firenze all’epoca al centro del dibattito e della produzione culturale italiana ed europea, Silvio Ramat entra in contatto con quelli che diventeranno i suoi padri letterari, protagonisti di un periodo importante della poesia italiana del secolo scorso, che viene ricordato come la grande stagione dell’ermetismo. Così scrive Ramat nella raccolta Banchi di prova:
Ho il privilegio di stringer la mano/ uno dopo l’altro a chi serba accesa/ a Firenze una luce di poesia:/ Luzi (rapidamente il prediletto), il vecchio Fallacara e Bigongiari, / Macrì e Betocchi, Parronchi e Traverso,/ Bilenchi e Bonsanti.

Nella Firenze di quegli anni, c’erano anche critici e traduttori come Leone Traverso, Oreste Macrì e altri, citati nella versificazione dei suoi testi. Dopo la laurea Ramat inizia a insegnare nelle scuole superiori, dove rimane fino al 1976, anno in cui gli verrà assegnata la cattedra di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’università di Padova. Dalla poesia alla saggistica, intanto, la sua produzione continua a sfornare numerose opere e interventi critici che distinguono la sua personalità. Nel cammino di Ramat, il prestigio intellettuale del critico, crescerà di pari passo con quello del poeta, è necessario sottolineare questa doppia componente, perché l’esistenza del poeta è caratterizzata dal potenziamento reciproco e dall’interazione di queste due dimensioni.
L’INIZIO DEL SUO LUNGO CAMMINO DI POETA
Come poeta, nel 1959 con il poemetto Le feste della città, pubblicato dalle edizioni della rivista “Quartiere”, comincia il suo lungo tragitto che testimonia una dedizione assoluta al bene della poesia. Inseguendo un ideale di esistenza, fin dall’inizio della sua produzione Ramat sancisce il valore essenziale della poesia come cifra del mondo, grazie alla quale la realtà si toglie il velo e si lascia conoscere, come si legge nella sezione centrale della sua raccolta Numeri primi:
È vero, non si pasce / unicamente di poesia, un poeta: / ma dove ha il mondo una più viva sémina / che nei solchi della scrittura?
Tra le tante attività svolte dall’uomo, solo la scrittura in versi, secondo Ramat, ha la possibilità di “dare un nome” alle cose e di fermare il tempo, quanto sfugge allo sguardo e si perde nel nulla e nell’oblio. Come scrive Giuseppe Langella: “Non aveva torto Giovanni Raboni quando parlava di poesia continua, di un bisogno fisico da parte di Ramat, di riversare via via in immagini e figure il tumultuoso multiforme susseguirsi delle occasioni esistenziali” (2)

Le raccolte successive: Lo specchio dell’afa (1960-1961), Gli sproni ardenti (1961-1964), Corpo e cosmo (1964-1972), che Ramat dedica al padre scomparso in un tragico incidente, segnano il periodo giovanile della sua produzione poetica, quello più propriamente ermetico, esplicata in moduli ora più narrativi, ora più lirici. Mentre la vita continua a offrire materia di poesia e a convertirsi “in una catena di parole”, affiorano i temi fondamentali della sua poetica, sviluppati di libro in libro nell’arco dei decenni: gli affetti familiari, i luoghi cari, a volte rievocati con una delicata quanto intensa vena malinconica, episodi, abitudini, dubbi, la natura, il sogno come materia di ispirazione, i giochi di parole e le riflessioni sulla propria esperienza di poeta, tra ricordi e ritratti inconfondibili di poeti a lui vicini, sui quali tornerà più volte. Sono gli istanti fatali dell’esistenza, quando in un attimo è possibile afferrare un senso, un rapporto imprevedibile.
L‘ASSOLUTA DEDIZIONE ALLA POESIA
Progressivamente da un’opera all’altra il quadro cambia, prende forma e si intensifica uno sguardo su di sé e sulle cose sempre più acuto, distaccato, lucido. Refrattario ad ogni egolatria ed autocompiacimento, già a partire dagli Sproni ardenti incontriamo, infatti, un poeta che ha ormai superato la presa di distanza dal mondo dell’io giovanile e le posizioni più radicali delle prime raccolte, trasformandole nel profilo di un uomo normale fra tanti altri. Si legge in proposito nella raccolta Gli sproni ardenti:
La macchina procede malamente (…) / Firenze da un angolo (…) / pochi simboli rimasti – il più visse / nel vivace contrasto dei primi anni. / Io e te, portiamo una minima vita / da cerchio a farsi ellisse…
Dilatando il proprio orizzonte, nel costruire un’immagine di sé, si attenuano i toni e Silvio Ramat come scrive Giuseppe Langella, “si attribuisce le debolezze e i difetti dell’uomo comune, viene così spianata la strada a una rappresentazione del poeta che tornerà di libro in libro sostanzialmente invariata.” (3) Dalla quale però il poeta ricaverà, sempre con più forza nei versi, nuove ragioni di poesia, l’unica via di salvezza consentita, perché dove nulla è stabile, nulla è sicuro, non c’è che la poesia a strappare la materia al divenire e a porsi come valore.
I MUTAMENTI STILISTICO-TEMATICI

Così come se volesse riprendere daccapo il suo discorso, ispirato da quel che Montale intendeva filosoficamente: “tendono alla chiarità le cose oscure”, da un’iniziale aderenza ai modi della poesia ermetica fiorentina, a poco a poco il suo linguaggio si evolve nel senso della chiarezza. Tenendo sempre presente la sua ambizione melodica, senza rinnegare la sua fiorentinità e la devozione verso i suoi maestri, Ramat introduce nel suo linguaggio elementi di prosa. E dalle opere successive la sua scrittura tenderà come egli stesso afferma: a “fare entrare l’oggettività, laddove aveva dominato la soggettività”.
Altre raccolte verranno a sancire questa progressiva trasformazione della sua poesia, meno legata ai sommovimenti segreti dell’io che si pone al centro di ogni cosa, più aperta a situazioni e personaggi esterni. In particolare dalla raccolta In parola (1977), che comprende poesie scritte tra il ’73 e il ’75, Ramat comincia a cercare con maggiore convinzione un filo comunicativo, una parola più esplicita, il verso assume andamento discorsivo-narrativo, limpido ma non ovvio, sempre distinguendo il linguaggio quotidiano dal linguaggio proprio della poesia.

Il suo nuovo lavoro di docente all’Università di Padova, l’incontro con i poeti del Nord Italia, da Sereni a Zanzotto, da Raboni a Erba e a Nelo Risi e ad altri, contribuisce a determinare una contaminazione di registri e un ulteriore arricchimento della sua vasta produzione, così come la sua passione per il romanzo che nel tempo lo induce, come più volte dichiara, a scrivere basso e piano, di cose minime e concrete.
L’inclinazione narrativa, era del resto, come sostengono diversi critici, un aspetto radicato nella vocazione poetica di Ramat che troverà il suo pieno compimento in Mia madre un secolo, un libro in endecasillabi, edito nel 2002, definito dall’autore un racconto in versi. Un libro decisivo, capace di ricondurre lo sguardo a un’intera epoca, che chiarirà ulteriormente la direzione della sua ricerca, sempre protesa a cercare strade nuove e personali. Mia madre un secolo, infatti, rappresenta l’apice della poesia che si fa racconto, una storia considerata dal punto di vista di una “terza persona”, non più del poeta, che ripercorre l’intera parabola biografica della madre centenaria, figura fondamentale nella poetica dell’autore, una donna dalla tempra eroica in grado di sopportare e combattere con dignità e coraggio le avversità incontrate nella vita. Da questo punto in poi della sua evoluzione, la poesia di Ramat consoliderà ulteriormente quella dimensione più discorsiva e sospinta ai limiti del narrato, cadenzata su di un endecasillabo “povero e pedestre”, come era stato definito dal critico Luigi Baldacci.
LA MEMORIA FONTE INESAURIBILE DI POESIA
In Mia madre un secolo, tra l’altro, come era accaduto nelle precedenti opere, riemerge in forme nuove il mondo poetico di Silvio Ramat, del quale punto centrale è la memoria, termine illuminante del fare del poeta, proprio da essa parte quella costanza di stile e di sguardo di tutta la sua opera, come si legge nella raccolta Il nome al vento:
Ho tanto di quel passato davanti, / da sgranare vivendolo, che il tempo, / certo, non mi sarà abbastanza. Video- / cassette, immensi romanzi. Da empirne / non so quanti giorni, quante nottate. / Ma ormai succede, inevitabilmente / (è strano, o forse no), ch’io li riceva / e li consumi, i doni del passato, / con le lacrime agli occhi.
Solo la memoria, secondo il poeta, può opporre una qualche resistenza all’inarrestabile avanzata del tempo e contrastare l’incubo che il passato venga cancellato per sempre. Sono la mente e l’interiorità a venire fecondate dal recupero della memoria, che per Ramat non nasce soltanto dalla necessità di ritrovare il passato, ma di ritrovarlo per guardare il futuro, non retoricamente, ma con la curiosità che spinge a indovinare qualcosa che è davanti a noi.
A testimoniare l’intensa attività poetica di Ramat, nel 2006 esce il volume Tutte le poesie (1958-2005), che segna un’altra tappa significativa del suo cammino. Si tratta di un’opera di dimensioni considerevoli, nella quale l’autore, dalla raccolta del suo esordio: Le feste di una città a Corpo e cosmo, da Numeri primi a Mia madre un secolo e molte altre, seleziona e riorganizza l’intera sua produzione poetica di quegli anni. E’ il bilancio di una lunga fedeltà letteraria, che in quasi 1500 pagine consente di rivedere nell’insieme una parte importante della sua vicenda di poeta e di cogliere i mutamenti, le riprese, gli sviluppi stilistico-tematici che la sua poesia ha avuto nel corso del tempo.
LA FASE PIU’ RECENTE DELLA POESIA DI RAMAT
Successivamente, nella fase più recente della sua vorticosa, instancabile invenzione letteraria, la scrittura di Ramat raggiunge esiti di particolare forza, ne danno dimostrazione opere come La dirimpettaia e altri affanni (2013), Elis Island. Poesie da un esilio (2015), Banchi di prova (2011) che è un racconto in versi, un modello già sperimentato in Mia madre un secolo, in cui il poeta ricordando gli errori di gioventù, gli imprevisti, gli incontri che aiutano a crescere, con una poesia che a tratti diventa leggera e scherzosa, gioca sulla propria età. E in sessanta “canti” scritti in endecasillabi sciolti che fluiscono con estrema perizia nella costruzione del verso, continua a ripercorrere la sua vita, risalendo ai primi anni della infanzia, da quando nei banchi delle elementari impara a leggere e a scrivere, fino al momento in cui diventa ricercatore universitario.

Ma la poesia di Ramat non finisce di aprirsi ad altre incredibili scoperte. Scritta nel metro di un endecasillabo povero, di cui il poeta è maestro, tra le sue ultime opere la raccolta In cuor vostro ed altri versi, pubblicata nel 2019, è un’ulteriore splendida testimonianza dell’arte del poeta. Trovano qui nuove figurazioni l’incontro tra la vita e l’oltre, ma anche gli altri temi da lui prediletti, sui quali la sua ricerca si è confrontata fin dai suoi esordi: gli affetti familiari, con la rievocazione delle figure mai dimenticate del padre e della madre, le riflessioni sul fare poesia, il tema del tempo che scorre inesorabile e che ci annuncia il termine dell’esistenza, il senso di solitudine e di dolore per i numerosi poeti e amici scomparsi, a cui però a volte si alterna l’inclinazione all’ironia, propria dell’autore, quando ad esempio medita sul proprio viso che tende a riempirsi di “pieghe indelebili”, o quando si diverte a immaginare quale uso nella loro poesia avrebbero fatto del pomodoro e della patata Dante e Petrarca se li avessero conosciuti.
Mentre tutto continua ad affiorare, nella parte centrale di questo libro, con il poemetto In cuor vostro, immaginandosi ormai approdato al di là della vita, in una vita dopo la vita, Ramat indirizza un resoconto ai figli. In questa sua nuova dimora, un luogo di fantasia, imprecisabile, senza confini, che tenta di descrivere, la morte è considerata “un nulla”, soltanto il passaggio in un’altra dimensione che però non spezza i legami d’amore vissuti sulla terra. Passando per continue interrogazioni, al senso della radicale finitezza dell’avventura umana, il poeta contrappone in un’intima e personalissima visione, l’operante comunione di vivi e morti, l’accettazione serena di tutto ciò che l’esistere, nella sua trama e continuità, comporta.
LE CHIAVI DEL GIORNO
Le chiavi del giorno, invece, è il titolo della sua ultima opera in versi, pubblicata nel 2022, che raccoglie poesie scritte fra il 2019 e il 2021. Giunto ormai al pieno di una maturità attestata e riconosciuta da anni, con Le chiavi del giorno Silvio Ramat costruisce un percorso di alta e rara intensità. Guidato dalla memoria dell’infanzia e della giovinezza e dal recupero di una storia familiare con i suoi personaggi, in una Firenze che reca ancora i segni della guerra, fedele al proprio sentire, l’autore nella sua ricerca di chiarezza, riesce a coniugare con trasparenza discorsiva l’elemento autobiografico ai temi di fondo della sua poetica, presenti nelle precedenti raccolte, alle quali idealmente questo volume si ricollega. In questi versi, che ci offrono un nuovo importante capitolo dell’avventura poetica di Ramat, trova però sempre più posto una intensa meditazione sul destino dell’esistenza, sul tempo che passa, sull’invecchiamento, sull’oltre e sul dopo:
che cosa fu essere giovani e che cosa/ il sentire che non lo siamo più (…) / in che cosa / tuttavia si rimane quali fummo / o tali si ritorna: (…)

Ma anche sul perpetuarsi dell’amore:
Un brusio, un trapestìo cauto e leggero. / I morti indaffarati a far di conto. / Sono i familiari, sono gli amici / grazie ai quali ebbe un senso la tua vita. /Sanno che risarai presto con loro / ma, a chi sta fuori dal tempo, difficile / è calcolare in che giorno accadrà. / Li incoraggia l’amore (…).
In questa continua ricerca delle proprie radici, fatta di scoperte e riscoperte, la parola scava nella realtà, riempie con la sua pienezza il vuoto del mondo. Nella precisione dell’osservazione e della lingua, il poeta è pronto a cogliere il rovesciamento di ogni situazione e ad attribuire significato a ogni dettaglio, che ritorna a vivere nella musica dei versi. Procedendo tra le diverse sezioni che compongono il libro, nel tempo sterminato della memoria, l’autore che non teme di mettersi in gioco, attraversa gli innumerevoli crocevia della propria vita:
cose vissute / cose fantasticate o contemplate / (…) chi le ha godute ne sente il sussurro.
E in ogni testo si delinea il racconto di un pensiero, di vicende fondamentali che suscitano illuminazioni liriche improvvise e rivelatrici di un’esistenza intrecciata di ricordi salienti, radicati e intensi, dalla pluralità di incontri, di cui la memoria ricerca il senso. Gli affetti, le passioni, le letture, lo smarrimento, i desideri, i gesti rituali di ogni giorno, “sparsi testimoni”, dalla vita alla scrittura costituiscono nel loro insieme l’autobiografia da ricomporre.

Da questa prospettiva, a più riprese il libro ritorna poi al nascere della vocazione poetica, mostrandoci altri aspetti del rapporto tra il poeta, la lingua e le cose. Sono diversi i luoghi, i confronti, le citazioni letterarie in cui respira la poesia, rappresentata da coloro che Ramat ha conosciuto e amato: Leopardi, Gatto, Luzi, Parronchi. È tra le loro voci, che risuonano dentro, che l’autore al termine di un lungo cammino, ritroverà intatta la linfa della sua inesauribile creatività.
Lontano da ogni retorica, Silvio Ramat, da sempre impegnato in una incessante ed eterogenea produzione letteraria, con il suo understatement, è uno dei poeti che fa più ricco il mondo che viviamo. Dotato di una rara sapienza poetica, con una scrittura attenta, calibrata, lucida, propone una poesia asciutta, capace di cogliere l’essenziale e di tradurre la lingua poetica oltre il già detto, oltre i confini del linguaggio. Una poesia dell’uomo, della sua esistenza concreta, ma profondamente evocativa, ricca di varietà lessicale e invenzione. Nel nostro presente, ossessionato dai follower, dalla volgarità dei gusti, che non danno la misura di ciò che cerchiamo, i suoi versi, capaci di entrare nelle zone più profonde, fanno della sua voce una traccia di bellezza e consapevolezza di sorprendente attualità.
NOTE
1. Un rio sottile da Le chiavi del giorno, Crocetti (2022)
2. Dal saggio introduttivo di Giuseppe Langella in Tutte le poesie di Silvio Ramat, Interlinea Edizioni (2006) pag. 7
3. Ivi, pag. 19

INCONTRO CON SILVIO RAMAT di Bruno Brunini
Fiorentino di nascita e di formazione, prima di arrivare al periodo dei suoi studi, vorrei cominciare questo incontro partendo dalla sua infanzia. Nella sua ultima raccolta di poesie Le chiavi del giorno, attraverso la storia familiare in alcuni testi lei evoca il periodo del dopoguerra vissuto nella sua Firenze, che allora recava i segni dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, ma anche in altre opere “l’urto della guerra” per usare una sua espressione, si affaccia nei ricordi, ad esempio in Mia madre un secolo, quando fa riferimento alla diserzione dei genitori dalle disprezzate adunate in camicia nera. Quale ricordo conserva della sua infanzia, e quanto quel periodo ha influito nella sua scrittura?
Mah! Influenza sulla scrittura non so, diciamo che man mano che si avanza negli anni, si ha la fortuna come l’ho io, di non perdere la memoria, e di mantenerla in forma perfetta, e logicamente tante cose si rivedono. Però la distanza cronologica da quegli avvenimenti non le mortifica, non le modifica, non le rende più inerti rispetto a quando quegli anni erano più vicini. La mia famiglia, alla quale lei fa riferimento, è un po’strana, perché come ho detto scherzosamente in altre occasioni, è una famiglia che non obbediva non solo ai riti del fascismo, in quel caso prima che io nascessi, ma che non si raccoglieva in riunioni familiari, insomma era piuttosto anomala, nel quadro delle famiglie dei miei amici e compagni. Con molto rispetto e con affetto postumo riguardandola a distanza, quando ormai non c’è quasi più nessuno, è rimasto in vita solo mio fratello che è linguista e ha tre anni più di me, i miei due fratelli più grandi sono morti prematuramente nell’85, alla fine ho riconosciuto che i nostri genitori, lasciandoci una libertà di movimento, ci hanno consentito di crescere come noi credevamo, con le nostre gambe e la nostra intelligenza. Credo che il loro esempio, la loro apparente distanza, il non starci col fiato sul collo, ci abbia permesso di arrivare ad essere quello che siamo. Certo ho seguito i miei fratelli, che hanno fatto tutti il liceo Galileo a Firenze, esiste una propensione a ricalcare i passi dei maggiori, però a parte questo la mia famiglia non mi è mai pesata, e riconosco che i miei genitori hanno fatto bene, mentre in altri momenti della mia vita posso averli tacitamente accusati di trascurarci un poco, ma non era trascurarci, era un aver fiducia nelle nostre capacità di crescere da noi.

Con Firenze, credo abbia avuto un rapporto molto intenso. Nella sua città erano presenti intellettuali, critici, traduttori, grandi personalità che ha conosciuto da giovane. A tanti amici poeti e padri letterari come Luzi, Betocchi, Bigongiari, Parronchi e molti altri, con i quali ha condiviso momenti importanti della sua esistenza, ha dedicato poesie. Ci può dire quali poeti hanno inciso di più nella sua formazione, e cosa ha significato per lei giovane autore vivere in quel contesto culturale?
Moltissimo, posso dire di essere stato fortunato, ho scritto dei saggi su di loro, ho pubblicato più di 50 anni fa un volume che s’intitolava “L’ermetismo”, tante volte sono tornato su questi autori, perché era un debito che sentivo di dover saldare. Le loro opere mi hanno formato, mi hanno addirittura determinato in una certa direzione. Il maggiore di tutti, posso dire che è stato Luzi, ma se dovessi poi scendere nei particolari, colui che mi ha più incoraggiato, che mi è stato più vicino, di questi nomi che lei ha fatto è stato Piero Bigongiari, e poi l’amicizia tarda, ma non tardiva con Alessandro Parronchi che mi è stato di grandissimo aiuto e credo di esserlo stato anch’io a lui, nella sua vecchiaia, che si è protratta fino oltre i 90 anni e naturalmente Betocchi, che era più brusco a volte nei giudizi e che forse non ha mai amato totalmente la mia poesia, però in Betocchi riconosco un autore al quale bisognerebbe dedicare molta più attenzione di quanto non gliene abbiano riservata la maggioranza dei critici. Procedendo poi nel mio cammino di poeta, a poco a poco, si è impadronita di me la chiarezza e se all’inizio sono stato un po’ neoermetico, anche se lo negavo e questo mi ha alienato le simpatie di tanta parte della letteratura e della critica italiana, mentre a Firenze no, mi volevano bene, mi portavano in palma di mano, a un certo momento del cammino c’è stata come una sorta di intimazione, senza voler essere enfatico, la vita stessa con la v minuscola si è impossessata di me e mi ha modellato, secondo un criterio di chiarezza, di trasparenza delle mie poesie, criterio che si acquista col tempo, almeno così è capitato a me. E quando mi rileggo, mi dico: ma guarda, si capisce tutto, saranno delle banalità, ma poi tornando nel mio passato, mi rendo conto che forse questa chiarezza la devo ai grandi libri di Mario Luzi, se devo fare un nome, ai libri che ho letto quando ho cominciato verso il liceo a masticare io stesso la voglia di fare poesia, quei libri erano Primizie del deserto uscito nel ’52, ma io l’ho letto nel ’58 e Onore del vero, che era del ’57. Soprattutto questi due libri mi hanno colpito per la loro chiarezza e si sono aggiunti a un nome che non abbiamo ancora fatto, nella mia memoria letteraria e nella mia chiamiamola imitazione in senso lato, quello di Montale, che è sempre stato il poeta sulla cui poesia mi sono laureato, il poeta che mi ha accompagnato per tutta la vita e ancora oggi riesco a ricordare a memoria molte sue poesie, che sono letteralmente memorabili. Quindi l’influenza di Luzi è successiva a quella di Montale e certamente non la cancella, semmai la completa.

Nel ripercorrere l’itinerario del suo discorso poetico, spesso si ritrovano i riferimenti, le dediche anche ad altri numerosi maestri, da Montale a Ungaretti, da Sbarbaro a Caproni e poi Campana, Leopardi, Pascoli, Saba. Tanti autori del nostro firmamento poetico che le hanno dato qualcosa, ce ne può parlare?
Si è così, non sono vicinanze formali, naturalmente le forme di Pascoli, di Leopardi sono inimitabili e inarrivabili, ma dietro a queste forme, è banale dirlo ma è la verità, è che c’è una persona che respira, una persona che vede, che sente, che piange o che sorride. Dietro a questi nomi, ci sono delle persone e quindi queste mie poesie non sono un allontanamento dalla sostanza del vivere alla forma, ad una forma astrattamente considerata o celebrata. C’è proprio il mio credere di percepire una sostanza umana, per questo ci sono tanti poeti e quelle rare volte che ho messo in scena la poesia stessa, magari un po’ ironicamente con la P maiuscola, anche questa poesia che si fa personaggio, è una poesia che vive di tutte le poesie di costoro e di tanti altri che non abbiamo nominato. Credo alla vitalità della poesia, non a una retorica formulazione o un concetto che sta lì bello e pulito.
Nell’attuale epoca digitale, penso ai blog letterari, ai social media, spesso tutto avviene in maniera un po’ indistinta. Lei ha dedicato la sua vita alla poesia, è stato un attento studioso della scena culturale del XX secolo, potrebbe parlare della cultura letteraria che c’era invece nel periodo della sua formazione. Ci può dire com’era il modo di relazionarsi nella Firenze e nell’Italia di quegli anni e quali erano i luoghi di incontro, di frequentazione poetica?
Io mi sono laureato nel ’62, quindi si fanno presto i conti, eravamo poco oltre la metà del secolo e poco oltre la fine della guerra, anche se per un ragazzo di vent’anni, dieci o quindici anni sono tanti e quindi la guerra ci pareva lontanissima e invece oggi sembra che questi periodi del ’45, siano abbastanza vicini. Certo, c’erano luoghi anche un po’ di perditempo, mi ricordo quando con emozione venni accolto nel tempio, che era il caffè “Paszkowski”, dove però io stavo zitto, ascoltavo, c’erano Bigongiari e Macrì, e poi quando Bigongiari diventò professore universitario alla facoltà di Magistero, cominciarono a venire anche molti professori ma sinceramente intuivo che si perdeva del tempo in chiacchiere, quindi non ho tesaurizzato granché di questi momenti, anche se ogni tanto arrivava un ospite straniero che faceva effetto vedere lì. Una volta ho conosciuto Jorge Guillén, il grande poeta spagnolo ai tempi del franchismo, ancora esule tra l’Italia e gli Stati Uniti e ho avuto l’onere e l’onore di celebrare i suoi ottant’anni. Guillén non è stato il solo a mettere piede nel caffè, allora in questi casi, l’interesse intorpidito dalle chiacchiere dei miei maestri si risvegliava, perché veniva un personaggio di eccezione.

Ma quando avevo vent’anni, non c’erano più i luoghi mitici del primo novecento o del periodo tra le due guerre, quando in quei due caffè di antica fama “Le Giubbe Rosse” e il “Paszkowski”, si sentiva dire che le persone si sfidassero persino a duello per qualche offesa ricevuta. Allora erano luoghi molto più animati se si leggono le cose del tempo di Papini e di Soffici oppure se si legge dell’approdo di Campana a Firenze, tutte vicende che erano realtà e leggenda, forse più leggenda che realtà. Quindi di veri luoghi di incontro non è che ce ne fossero, si può dire che a volte c’erano delle occasioni in cui si facevano dei discorsi più seri, più compatti, per esempio rammento che tra il ’63 e il ’64, io ero appena laureato e insegnavo nelle scuole medie superiori, Oreste Macrì che abitava nella zona di Centostelle, organizzava in casa sua degli incontri su argomenti specifici e invitava personalità di passaggio a Firenze. In quelle occasioni ho sentito importanti lezioni o seminari e una volta ho ascoltato una bellissima conversazione su “La bufera” di Montale. C’erano quindi luoghi dove il discorso si ampliava e si creava una comunanza, com’era successo alla cattedra di Bigongiari nella facoltà di Magistero, quando furono invitati Montale, Vasco Pratolini, Franco Fortini, Ungaretti. Questi modelli di seminario aperto con un personaggio di spicco che accentra su di sé l’attenzione, io ho cercato di riportarli a Padova in varie forme, anche organizzando delle attività col patrocinio del Comune di Padova, negli “anni novanta” ed inizio del “duemila”. Queste attività penso che volendo possano esistere ancora oggi, però i luoghi specifici di rifornimento culturale, come potevano essere i caffè o altri circoli, già ai primi “anni sessanta”secondo me erano un po’ in declino.

E le riviste?
Certo, ho partecipato a riviste ma dico la verità con non molte energie, perché le mie energie, le mie polemiche, le spendevo altrove, ma per esempio ho fatto in tempo a partecipare ai dibattiti della rivista “Quartiere”, che pubblicò i miei primi versi editi e poi ho collaborato alla rivista “Letteratura” di Bonsanti. Bonsanti era un altro personaggio che non abbiamo ricordato prima, era stato direttore di “Solaria”, era stato al centro di tutte le maggiori riviste degli “anni trenta” ed era tra i grandi punti di riferimento della cultura fiorentina. Ricordo poi le riviste che si facevano in quel periodo, quelle dei nostri tra virgolette, nemici, cioè quelle della neo avanguardia che aveva i suoi centri soprattutto a Milano e in altre località e che aveva in quel momento un generico e generale disprezzo per la tradizione poetica novecentesca e cercava in contaminazioni o dissoluzione dei modelli vigenti, di imporsi in questo modo. Non ci piaceva, anche se un po’ invidiavamo il fatto che molti dei rappresentanti di questa neoavanguardia, si era alle soglie degli “anni sessanta”, trovasse così facilmente modo di collocare i loro testi maggiori all’interno delle grandi case editrici o dei giornali di maggior prestigio e allora capivamo che Firenze stava perdendo quel primato di cui si sentiva ancora il profumo, quando io cominciai a farmi vivo in mezzo a questi maestri.
Come poeta lei ha esordito molto giovane, nel 1959 con la raccolta di liriche Le feste di una città. Come ha scoperto il “bene della poesia” per citare un suo verso? E che cos’è la poesia per lei?
Che domanda! È quasi impossibile rispondere, comunque posso dire una cosa, Le feste di una città era un poemetto di 26 paragrafi o capitoletti, a seconda di come si vogliono chiamarli, che ho scritto tra il ’58 e il ’59 e che alla fine del ’59, quando io avevo compiuto vent’anni, uscì in estratto sulla rivista “Quartiere” e poi si fece un quadernetto, come si diceva allora una plaquette, i libri sono venuti dopo. Ma il mio approccio alla poesia, qualche volta l’ho scritto, non è stato un impulso travolgente, è stata forse una molla di ambizione. Non ho cominciato a scrivere da bambino, io ho cominciato a scrivere poesie verso i diciassette, diciotto anni, con una certa continuità, non sono stato un mostro di precocità, come tanti lo sono stati, ho cominciato imitando i poeti che leggevo e che più mi piacevano. Mi piaceva molto Garçia Lorca, c’erano due volumi grossi della Fenice, la collana dell’editore Guanda, uno tradotto da Bo e uno da Macrì.

Poi, per esempio, mio padre che era un professore di letteratura, aveva molti libri di poesia anche moderna, contemporanea, che trovavo in casa mia. Mi piaceva molto un libro che in italiano s’intitolava Poesia ininterrotta di Paul Eluard, il grande surrealista francese, con la traduzione molto bella di Franco Fortini. Per la poesia italiana dall’inizio del Novecento, mi piacevano i poeti più patetici, più sentimentali, Gozzano, di cui lessi tutti “I colloqui”e anche le poesie di Sergio Corazzini, morto a 21 anni di tubercolosi, non un destino nel quale mi piacesse rispecchiarmi, però questo poeta, il cui destino così amaro mi colpì, mi emozionava e mi ricordo che quando ebbi diciassette anni mio padre mi regalò un’edizione delle poesie di Corazzini, era un volumetto dell’editore Ricciardi di Napoli e La bufera e altro di Montale, quindi sapevo già dove pescare. Comunque non dimenticavo il Pascoli e i poeti leggermente più indietro nel tempo, però ripeto, è stata ambizione, è stato un atto mimetico all’inizio e poi mi ci è voluto del coraggio prima di far leggere a qualcuno le mie poesie per vedere se ero da buttare. E quando conobbi i poeti di “Quartiere”, che erano tutti molto giovani, il più giovane era Sergio Salvi, che aveva ventisette anni nel ’59 e io ne avevo venti, ebbi il coraggio di presentarmi a loro tremando dalla paura di essere ridicolizzato, ma dopo qualche giorno mi dissero: non c’è male, ne pubblichiamo qualcuna. Così vennero fuori Le feste della città, questo poemetto che mi dette coraggio e baldanza. Da allora non ho più smesso. Quindi sa, per la poesia, senza dimenticare tutto quello che c’è intorno, ci vivo e credo che mi sia servito in tutta la mia lunga e fortunata carriera di professore di Università, perché anche lì si arriva con una certa fortuna e poi si tratta di fare in modo di dimostrare di non avere demeritato questa fortuna e questo, almeno dal punto di vista dell’impegno che ci ho messo, credo di averlo dimostrato.

Come professore dal 1976 è stato titolare della cattedra di letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Padova, cosa ha significato l’insegnamento, la doppia veste di docente e di poeta? Come hanno convissuto queste due diverse dimensioni, si sono ostacolate o hanno interagito?

Scherzando un poco, i miei colleghi professori universitari non mi prendono sul serio, perché faccio il poeta e i miei colleghi poeti dicono no, ma tu sei un professore, quindi ciascuno mi rimanda all’altro, ma questo è uno scherzo, una battuta. In realtà le due dimensioni si sono aiutate, del resto non è che io sia stato un professore per caso, dopo la laurea ho cominciato a fare domande per supplenze, ho vinto due concorsi a cattedra per gli Istituti magistrali e tecnici, che erano esami difficilissimi e si andava a Roma, insomma era tutta un’avventura e me la cavai brillantemente e forse questo mi dette coraggio. Poi ci fu il caso molto fortunato che Bigongiari vinse la cattedra universitaria e aveva un posto di assistente e me lo offrì, tutto poi andò in discesa. Però la mia premura è stata quella di trovare un posto che mi consentisse la tranquillità economica e nello stesso tempo di coltivare gli studi a cui mi sentivo votato e di poter avere dell’agio per scrivere, quella possibilità di concentrazione che è necessaria a fare poesia. Ma per quello che diceva dell’interazione o reciproca avversione tra l’insegnamento e la poesia, direi che questo mio essere dentro il mondo della poesia, forse mi ha dato la possibilità che ho cercato di trasmettere alle mie classi, in tutti questi quarant’anni di insegnamento a Padova, di dimostrare non tanto di fermarmi a fare sospiri e mandare in estasi i ragazzi, ma di far vedere che tipo di oggetto è la poesia, di girarla, toccarla, smembrarla, se serve, perché ho ritenuto importante far capire che la poesia non è qualcosa di fronte alla quale si debba dire che robaccia oppure che meraviglia, occorre invece criticamente palpeggiare questo oggetto, vedere di cosa è fatto, quanto pesa. Quindi ho cercato di rendere il mio insegnamento concreto, nel senso che è vero che c’è la concretezza della storia attorno, ma la concretezza del fatto poetico è come la concretezza di una cosa, di un oggetto. Per questo dando il bando a tutti gli impressionismi di lettura, ho cercato di condurre i miei studenti in questa posizione non retorica, non enfatica di approccio alla poesia, considerandola come qualcosa che si può veramente misurare e anche se è fatta di parole, si può soppesare come un oggetto concreto. Pertanto credo che la mia attività di poeta mi abbia giovato nell’insegnamento, i miei studenti mi hanno sentito parlare poco di storia esterna, mi hanno invece sentito parlare di una storia di poesia, di come una poesia nasce, di come una poesia cresce e si impone, come una cosa riuscita o non riuscita. Di questo ne sono convinto.
Fonte principale e inesauribile della sua poesia è la memoria. Sembra che le sue poesie siano unite da questo filo, ma è anche vero che nei ricordi, nella memoria, ci si può smarrire senza più ritrovarsi. Ci sono alcuni versi nella sua ultima raccolta Le chiavi del giorno che dicono: “scrivili i tuoi ricordi/ma a comporre/un libro di memorie poco giova una buona memoria; ciò che conta/è il saperli afferrare, spiegazzati nelle meste dimore dell’oblio.” Non solo dunque conta il recupero della memoria, ma il ritrovare dentro la vita le ragioni, il senso di ciò che si è vissuto?

Certamente, quello che dice “scrivili” è una persona diversa da me, è qualcuno che mi esorta a scrivere e si vedrà una storia nella storia con la maiuscola, si vedrà anche la piccola storia di cui sono personaggio fra tanti altri, ma è certamente come dice lei, bisogna orientarsi nella memoria, io lo ripeto, lo considero come un dono che ancora non mi è stato sottratto, quello di poter ricordare tutte le cose. Io so per esempio, quando sono stato in villeggiatura a quattordici anni, che anno era quando sono andato in una tale città, ma a che serve questo? Serve a ordinare il prima col poi, il durante con ciò che durante non è, e così in questo modo finora mi sono orientato in questa trama che per qualcuno sembra complicata. C’è un mio collega, mio coetaneo, che ha esordito in poesia molto tardi, un latinista, che non si ricorda nulla di nulla, ecco forse questa è una sua fede nella totale sincronia di tutto, ma il tutto non è sincronico, secondo me c’è proprio questo snodarsi del tempo in tante minuscole particelle, in tante minuscole entità che io cerco di tenere ben disposte secondo l’ordine loro naturale, l’ordine storico loro, però può darsi benissimo che da un giorno all’altro io perda quest’ordine. Per me sarebbe un dolore, cerco quasi di esercitarmi a trattenere questo dono che so che non è di molti, non sto eludendo la sua domanda, ma credo che l’importante sia non perdersi e continuare a tenere il prima separato dal poi, salvo naturalmente collegarli in un rapporto, se c’è un rapporto di causa effetto, comunque un rapporto di somiglianza o di diversità.

C’è una sorta di continuità in tutto il suo lungo percorso, la sua poesia ha avuto però nel tempo delle mutazioni, negli sviluppi stilistico- tematici. Si è verificato forse un distacco dall’ermetismo che ha influenzato il periodo iniziale della sua scrittura, si può parlare di un cambio di passo verso la chiarezza, verso i limiti del parlato? E quanto hanno contato alcuni volumi che forse testimoniano con maggiore evidenza questi mutamenti, penso a Mia madre un secolo, il suo romanzo in versi scritto in endecasillabi o a Elis Island. Poesie da un esilio?
Sì la domanda è giusta, mi porta proprio a dire una cosa, che qualche volta ho già detto in pubblico: io sono un grande ammiratore dei romanzi, ma non so scrivere romanzi riesco a scrivere una paginetta, due paginette di prosa anche buona, discreta, ma mi mancano i polmoni per fare un romanzo, naturalmente visto che sono ambizioso, anche nei miei gusti, parlo di romanzo in senso alto non di tanti romanzetti. Sono stato nove anni nella giuria del Premio Campiello e passava di tutto, anche roba modestissima, ora non sapendo scrivere un romanzo e avendo come mia misura quell’endecasillabo, in qualche caso definito pedestre, un endecasillabo che cerca anche di variare negli accenti, ma che sempre rimane endecasillabo, misura costante che cerco di rendere meno soporifero, bene, direi che proprio all’altezza di Mia madre un secolo, al varco da un secolo all’altro è avvenuta questa scelta. La cosa importante è che in quel racconto in versi o poema, come si vuol chiamare, che è abbastanza lungo, ho raccontato la vita di un altro che era di mia madre ma era pur sempre un’altra persona e quindi ho cercato di oggettivarmi in un certo senso, anche se poi oggettivarsi del tutto, in un caso del genere, non è possibile. In tal senso, ricordo che il compianto Luigi Baldacci che fu il mio primo recensore, scrisse una specie di lettera prefatoria di accompagnamento a Mia madre un secolo sostenendo che in quest’opera mi si poteva applicare un espressione di Betocchi che dice: “i lunghi passi della prosa”. In questo caso si era trattato di poesia in endecasillabi che arieggia la prosa, ma il mio grande impegno oltre a quello di non lacrimare troppo sul destino di mia madre, che non ebbe una vita facile, era proprio come le dicevo prima, quello di riuscire a oggettivarmi. È nel raccontarmi in questo modo che mi è parso di essere un narratore, per quel poco che io posso fare di narrativo e questo mi ha portato per forza di cose alla chiarezza, non si fanno racconti della vita di una persona che stava arrivando ai suoi cento anni, raccontandola in maniera enigmatica. Questo è uno degli esempi, ma c’è stato anche un altro mio racconto in versi intitolato Banchi di prova, dove racconto tutta la mia esperienza col banco, partendo dal banco in cui ho imparato da bambino a leggere, a scrivere, a quello ultimo in cui ho lasciato la scuola per l’università, quando è calato il sipario, perché insegnare a scuola era tutto diverso che insegnare all’università. Quest’opera è stata quindi, un altro esempio in cui ho cercato di raccontare in questa mia forma intermedia, tra la lirica e il romanzo, che mi ha portato a condurre tutto all’insegna della chiarezza. Guardando poi nei miei libri più recenti, da In cuor vostro e altri versi a Le chiavi del giorno, credo che anche quando si trovano poesie singole, io riesca a definire con più chiarezza quello che sto dicendo. C’è sempre una piccola idea, un pensiero, intorno a cui gira tutta una trama e alla fine il risultato mi accontenta, il risultato mi sembra raggiunto, se quello che voglio raggiungere è la chiarezza, ecco, non c’è quasi più nessun grammo di ambiguità in quello che sto scrivendo e questo lo devo, più che a riflessioni letterarie, a quello che mi ha insegnato a fare la vita, la vita con l’iniziale maiuscola, per non scomodare la metafisica.

Ma nella ricerca di una linea poetica diciamo più aperta, comunicativa rispetto all’ermetismo della fase iniziale, lei ha però conservato un argine, in quanto l’uso dell’endecasillabo nel suo caso è servito a mantenere una differenza dalla prosa. È così?
Sì certamente, prima ho detto che siamo in una terra di mezzo, in un passaggio che forse non finirà mai. Per quello che riguarda la mia poesia, in quegli anni fiorentini, gli anni della mia formazione, non si poteva essere impunemente alla scuola di Luzi o di Bigongiari, o di quegli altri, senza essere stati catturati da qualcosa di loro. Certamente è così, poi una volta scrivendone, ho parlato del mio trasferimento da Firenze a Padova, in particolare dal 1980, quando ho messo casa su a Padova, da quel periodo si sente forse di più la mia vicinanza ad autori non più fiorentini, autori come Sereni, Raboni, come altri che ho frequentato più di rado che non i miei maestri fiorentini, ma che forse hanno dato un tono diverso, un tono più discorsivo alla mia poesia. Quest’aspetto però l’ho considerato sempre a posteriori, non è mai successo che dopo aver letto un libro di Sereni abbia pensato: ah ecco, ora sarebbe bello diventare così. C’è poi un altro poeta che mi ha sempre convinto e che mi sembra poeticamente il più fluente di tutti, anche se scriveva in un dialetto che non mi appartiene, è il milanese Franco Loi che è un poeta meraviglioso.
Sì è vero, Franco Loi l’abbiamo conosciuto, gli abbiamo dedicato un numero di “Primi Piani”. Non potrò dimenticare il piacere di aver incontrato un grande poeta e una figura umana come Loi. Ma tornando al discorso sulla sua scrittura, vorrei sottolineare che nella cura che ha sempre avuto nella ricerca formale, la scelta metrica di un endecasillabo povero dall’andamento narrativo, come è stato definito dal critico Luigi Baldacci, che prima ricordava, ha caratterizzato il suo stile antiretorico. In quest’arte lei è maestro. A tal proposito, in un testo di Numeri primi del 1996, si legge “sentilo come canta dicessero così di un verso mio”. L’aspirazione al canto, all’armonia, è forse questa la meta finale della sua ricerca?

Ebbene sì, in questo caso il canto è quasi un canto senza parole, un canto che diventa qualcosa che è nell’aria. C’era un signore che conoscevo, aveva una lancia, un’appia, una macchina degli anni sessanta e mi diceva: “senti, senti..”, sentiva questo motore che a differenza di altre macchine aveva questa grazia, la grazia di un motore che non parla, ma canta e questa idea di un canto assoluto è la sublimazione che uno non raggiungerà mai e che comunque rimane, certamente, come diceva lei, come una specie di punto irraggiungibile, un punto che non si raggiungerà mai, ma che può essere sempre vagheggiato come meta, anche se naturalmente non è alla mia portata.
Ci può parlare della sua ultima raccolta Le chiavi del giorno. In questo libro lei riprende i temi di fondo della sua poetica a partire dalla memoria dell’infanzia e della giovinezza, che avevano già ispirato la raccolta precedente In cuor vostro e altri versi del 2019, a cui si ricollega questa nuovo libro. Ciò che colpisce in quest’opera è la riflessione serena e consapevole sul trascorrere del tempo che fugge, sul senso della fine, dell’oltre. A tal riguardo vorrei ricordare la bellissima poesia “Felice questa età”, presente nella precedente raccolta In cuor vostro ed altri versi, che inizia così: “Quanti giorni, chi sa/di qui ad allora: ma/felice questa età/sia pur tra bianca e grigia/se gli occhi non ti stanca/se i libri non ti toglie…“
Sì, lei ha citato una poesia finalmente non in endecasillabi, è una poesia in versi brevi, sono tutti settenari, qui grigia fa rima con battigia. Pensi che il titolo del libro In cuor vostro ed altri versi da cui lei ha citato più di una volta, deriva da un poemetto intitolato “In cuor vostro”, dove io addirittura mi trasferisco nel regno dei più, nell’oltretomba e racconto ai miei due figli quello che si può raccontare da un luogo che è impalpabile, quindi direi che è una scommessa difficile. Le chiavi del giorno è invece con decisione il primo di un ideale trittico, di cui la seconda parte è già compiuta, ma non è che possa pubblicare un libro ogni sei mesi, un ideale trittico sulla terza o addirittura sulla quarta età, anche se non so quando cominci la quarta età e se esiste. È un lavoro che risponde però al tentativo di addomesticarsi col morire, con l’essere morti, naturalmente se ci penso privatamente posso anche disperarmi, però una mia collega, professoressa dell’università di Torino, ormai in pensione come me, ha detto di questo ultimo mio libro che io tratto signorilmente della morte. È un’espressione che mi è piaciuta molto perché effettivamente io ne parlo, non la maledico, non la invoco. Certo io spero di campare ancora a lungo in buone condizioni e soprattutto con buona memoria, come dicevo prima, e non è detto che non ci siano ondate molto frequenti di questo pensiero, il che non significa dimenticare di parlare della vita, ci sono anche in questo libro delle poesie nelle quali si parla della vita, sebbene la memoria mi ha portato, per esempio, a parlare in una poesia di coetanei che non ci sono più.

Spesso si legge sui giornali di qualche poeta o professore o di qualcuno che se ne è andato che è morto, quindi è possibile che questo pensiero mi ritorni spesso, ma non mi sembra che sia un pensiero ossessivo. Succede così che è molto più popolato il mondo dei perduti, di coloro che fanno parte del mio patrimonio di memorie, a cominciare dalla mia famiglia, dai miei genitori, dai miei fratelli che non ci sono più, di quanto non sia popolato il mondo di quelli che vivono e che io vedo tutti i giorni. È chiaro che il mio sguardo peschi più facilmente nel mondo vissuto che non in questo tran tran quotidiano, dove ci sono delle persone alle quali voglio bene ricambiato da loro. Quindi devo dire che trovo più nutrimento in queste persone del passato e come lei ha visto io me ne faccio un motivo di vanto. Nei miei versi non posso parlare della fine del mondo, dei problemi della droga, della fame, non sono temi per me, perché sono troppo alti e comunque estranei non al mio pensiero quotidiano, ma estranei a quel pensiero che si trascrive in parole e in versi, il tema della morte è invece un tema che scandisce senza dramma, ma scandisce costantemente le mie giornate e un pochino anche le mie nottate in cui dormo meno.

Un altro elemento ricorrente nel suo itinerario creativo è il tema del viaggio, la sua opera poetica è ricca di viaggi, di luoghi visitati, dalle trasferte, dai soggiorni all’estero e dalle diverse occasioni di spostamento, ai traslochi, ai trasferimenti di residenza che ha dovuto affrontare nella vita. Soprattutto da un punto in poi della sua produzione ha parlato di un sentirsi esule, pellegrino, cosa ha significato questa condizione per lei, nella sua poesia, e che genere di viaggio viene rappresentato?
Di solito io non racconto minutamente, racconto più che altro lo stato d’animo durante un viaggio e posso magari cogliere un particolare, ma non ho mai tenuto un taccuino di viaggio soprattutto non l’ho trascritto in versi. Il viaggio per me è stato di solito un hobby, uno svago, un divertimento, in qualche caso poi si collegava a un lavoro e ad esempio allo spaesamento in quelle volte che sono stato in America a insegnare per periodi più o meno brevi. Per esempio nella raccolta In cuor vostro e altri versi c’è una poesia lunga, una poesia racconto in cui rievoco un mio arrivo a NewYork senza che ci sia a riscontrarmi un professore che non conosco e che non arriva e lì ho provato smarrimento, ecco, in una casa dove non sono di casa con la quale non ho familiarità, mi smarrisco facilmente, però il viaggio poi magari fruttifica a distanza di tempo. Per esempio posso dire che in alcuni miei libri ci sono molte sezioni del mondo inglese, dell’Inghilterra, che è stato un mio luogo privilegiato di vacanze magari brevi, magari fatte in povertà senza avere un programma definito prima, come un ragazzo anche avendo più di cinquant’anni, ecco in questi frangenti mi sono inventato una mia Inghilterra, una mia Irlanda. Quel mondo mi ha coinvolto più di quello francese che conosco meno e con il quale ho avuto meno voglia di familiarizzare. Quindi ci sono dei luoghi e certi nomi intorno ai quali si crea tutta una ragnatela di ricordi, una ragnatela di figure, ma mi sembra che col passare del tempo, a partire pressappoco dal varco da un secolo all’altro, che il peso del viaggio sia diminuito nella mia poesia.
Stiamo vivendo in un’epoca di grande incertezza: la pandemia, la minaccia della guerra, la paura del futuro, sono in atto degli sconvolgimenti epocali a cui non eravamo abituati nel recente passato. Da studioso e da poeta, qual è la sua prospettiva?
Io sono pessimista sull’uomo e sulla donna in generale, e non riesco a capire quale circuito potrebbe aprirsi fra coloro che aggrediscono e gli altri che si difendono armati gli uni contro gli altri. La possibilità di risolvere questa cosa, non la sa nemmeno il Papa e meno ancora la sanno i politici, quindi io temo che la poesia non possa fare altro che nella sua serietà e nella sua coerenza, testimoniare un modo di resistere civilmente all’inciviltà che è tutt’intorno. Ho paura però che della poesia si accorgano in pochi e non credo che questa situazione si possa risolvere moltiplicando le edizioni, è un problema culturale molto complesso e al momento non vedo soluzioni. Poi penso che non abbia voglia chi è al potere di occuparsi di questa realtà e di fare spazio alla poesia, forse la sua indifferenza alla poesia è anche motivata. Ci vorrebbe, penso, ben altro. Non lo so, ecco, la mia risposta è: non lo so.
Per concludere il nostro incontro vorrei ritornare alla sua scrittura. Come si è detto prima, l’universo familiare è molto presente nella sua produzione, a partire dalla rievocazione delle figure del padre e della madre. Suo padre è stato una figura di rilievo, anche lui professore di letteratura italiana, però all’Università di Firenze, antifascista, partigiano nella lotta di liberazione, a lui ha dedicato la raccolta Corpo e Cosmo e a sua madre Mia madre un secolo rivelando la capacità di resistenza e sacrificio della sua personalità. Due figure di grande spessore, in che modo hanno illuminato la sua scrittura?

Beh, l’hanno illuminata dopo essere scomparsi dalla faccia della terra, da mia madre certamente ho avuto molto, senza che immaginassi che poi da lei avrei tratto materia di poesia. In quei lunghi pomeriggi estivi la sollecitavo perché stesse sveglia e le chiedevo di raccontarmi tante cose. Mia madre poi si sorprendeva, dimenticando di avermi specificato lei questi racconti, con tanti particolari della sua infanzia e della sua giovinezza. Messa tutta insieme questa storia mi è parsa meravigliosa, chissà quanti avranno avuto una madre così, forse molte persone, più di quanto non immagini, però alla fine è venuta fuori come un personaggio indimenticabile, credo che se esiste un luogo da dove queste cose si percepiscono, lei le percepirà e sarà contenta. Per mio padre avrei voluto fare qualcosa di simile su di lui, non per fare il gemello, il pendant, ma nel tempo sono morte tutte le persone che avrebbero potuto raccontarmi di lui e mio padre che di sé parlava poco, non mi ha mai raccontato della Resistenza, della prigione, ho avuto sempre racconti indiretti, magari dai miei fratelli più grandi quelli che sono morti presto, ma ero troppo piccolo per ricordare e non sono riuscito finora a restituire molto di quello che da lui ho ricevuto. Non dimentico la sua vitalità, il suo impegno in tutto, l’instancabile spola tra la casa, il lavoro, quando era Assessore al Comune era una persona che non si teneva ferma, mentre io sono più riflessivo e più pigro, anche se credo di non buttar via il mio tempo. Certamente rimarrò debitore fino in fondo, sono stato fortunato ad avere due genitori così, me ne sono accorto col tempo senza poterglielo dire.
Durante la Resistenza suo padre era stato arrestato per antifascismo?
Sì, mio padre è stato due volte in prigione per antifascismo, nel ’42 e nel ’44. Quando ho pubblicato Corpo e cosmo mio padre era morto da poco, nel ’67 in un incidente automobilistico sull’autostrada del sole. Era stato arrestato due volte per cospirazione antifascista e cioè anti-italiana secondo il fascismo e dopo la prima carcerazione è stato confinato a Larino, una cittadina del Molise dove sono stato da bambino, avevo tre anni, ma la seconda volta fu più pericoloso, perché nel ’44 capitò nelle grinfie della famigerata banda Carità. Carità era un maggiore fascista temutissimo, feroce, mio padre ebbe anche delle torture, poi la fortuna fu che i tedeschi e i fascisti cominciarono a scappare perché gli alleati premevano da sud, da Roma e allora nella confusione lo liberarono e una volta liberato si unì ai partigiani, anzi capeggiò un gruppo di partigiani, erano tutti ragazzi comunisti, lui era l’unico del gruppo dei fratelli Rosselli, quelli che poi fondarono il Partito d’azione come mio padre. Questo avveniva nel ’44, ci sono delle belle cose che lui ha scritto anche sulla liberazione di Firenze e sui suoi ricordi, sono cose che sarebbe bello riunire in qualche libro ma per ora non l’abbiamo fatto.

Testi da In cuor vostro e altri versi
Anni o minuti “Sei talmente inseguito da te stesso, talmente imbozzolato alla tua vita, che vecchie foto, solo il risfogliarle senza preavviso, foglie isterilite ma cariche del peso degli autunni, ti scombussola: come se un amore perduto ritornasse a respirare per poco, al tocco amaro delle dita, prima che il giusto oblio se lo riprenda”. Mi appartengo fin troppo, è il tuo rimprovero. E non ho attenuanti, se non forse la certezza che tante vite corsero intrecciate alla mia, anni o minuti, e in quegli intrecci qualcosa (colori, voci, ardori, turbamenti…) passava in me di vivo altrui, anni o minuti, diventando materia anche di me. 4 dicembre 2018
In confidenza E se così fosse? Trascorso il più del futuro, impercettibilmente? Pare un'insensatezza, l'avvenire già consumato o quasi, dà vertigini il ragionarci su. Potrebbe dircelo in confidenza chi regola i tempi in un otre forse, come Eolo i venti, o nel cuore, se per caso è una donna. 28 settembre 2012

OPERE DI POESIA
- Le feste di una città, 1959
- Gli sproni ardenti, Mondadori, 1964
- Corpo e cosmo, Scheiwiller nel 1973
- In parola, Guanda, 1977
- L’arte del primo sonno, Edizioni S. Marco dei Giustiniani, 1984
- Orto e nido, Garzanti, 1987
- In piena prosa, 1980-’81, Amadeus, 1987
- Una fonte , Crocetti, 1988
- Ventagli, Amadeus, 1991
- Pomerania, Crocetti, 1993
- Numeri primi, Marsilio Editori, 1996
- Il gioco e la candela, Crocetti, 1997, Premio Nazionale Rhegium Julii, Poesia
- Mia madre un secolo, Marsilio, 2002
- I passi della poesia. Argomenti da un secolo finito, Interlinea, 2002
- Tutte le poesie (1958-2005), con testi di Giuseppe Langella, Interlinea, 2006
- Dall’uno al quattro, Quaderni di Orfeo, 2007
- L’amore cometa, Il ragazzo innocuo, 2008
- Uno di quei rami, Panda, 2008
- Banchi di prova. Racconto in versi, Marsilio, 2011
- La dirimpettaia e altri affanni, Mondadori, 2013
- Elis Island. Poesie da un esilio, Mondadori, 2015
- Fuori stagione, Crocetti, 2018
- In cuor vostro e altri versi, Crocetti, 2019
- Stanza di passo, Le Farfalle, 2020
- Le chiavi del giorno, Crocetti, 2022
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