Nato a Bologna nel 1923, Roberto Roversi è scomparso nel 2012. Poeta, scrittore, autore di testi per il teatro e di canzoni, libraio, promotore di innumerevoli iniziative culturali, la sua poliedrica attività creativa e intellettuale è varia e sconfinata. Difficile tracciarne una mappa. Contrario a ogni forma di omologazione, sempre sul filo della marginalità, Roversi, risoluto nella sua scelta di rimanere autonomo, è rimasto coerente, in tutto il suo lungo cammino, a un ideale di impegno etico e civile che lo ha portato ad essere tra i protagonisti della storia culturale e letteraria del nostro Paese. Classicista di formazione, legato al passato, è attratto soprattutto dagli scritti di Tommaso Campanella, dai suoi amati tedeschi Hölderlin, Schiller, Trakl, Eckermann e dalla lettura dei maestri in ombra della rivista “La Voce”, i poeti Jahier, Rebora, Sbarbaro. Bibliomane, con il suo amore per i libri, di cui immagina le incredibili vite segrete, durante la gestione della sua libreria antiquaria Palmaverde, convinto che le opere raccolte nel suo catalogo, debbano girare come i dischi e trovare nuove vite, spedisce i libri in ogni parte del mondo, in Giappone, in America, in tutta Europa, accompagnati sempre con una sua poesia. Fervido studioso del Risorgimento ma capace al tempo stesso di sintonizzarsi con i linguaggi attuali e di interagire con il presente, Roversi non ha mai voluto rinunciare a partecipare al proprio tempo né all’autonomia critica del proprio sguardo.

Cresciuto con Pasolini, fin dai tempi del ginnasio al Galvani di Bologna, all’inizio degli anni quaranta pubblica i suoi primi volumi di poesia per i tipi dell’antiquario Landi. Dopo aver attraversato il periodo della guerra e della Resistenza (1), che lascerà nel suo cammino una traccia indelebile, nel 1955 con Pasolini e Leonetti fonda la rivista “Officina”, quando le riviste letterarie, in uno dei periodi culturalmente più intensi del dopoguerra, sono i luoghi privilegiati del dibattito sulle idee di sperimentazione e il senso dello scrivere. Tra il ’55 e il ’59, con “Officina”, Roversi, attraverso una ricerca sperimentale aperta a un continuo intreccio di prosa e poesia, si impegna insieme ai suoi sodali, all’elaborazione di un nuovo modo di fare letteratura e al superamento delle precedenti correnti letterarie dell’ermetismo e del neorealismo. “Officina” è una esperienza centrale delle sue attività. Nel contesto di un’Italia irrisolta, ricostruita dal boom economico, con le sue contraddizioni e il complicato scenario sociale di forti contrasti, rispetto a un’editoria che iniziava a considerare l’opera come prodotto di consumo, il poeta bolognese, con i suoi interventi critici, contribuisce in maniera rilevante ad aprire un confronto sui devastanti mutamenti politici, sociali e culturali del dopoguerra.
Ed è a Bologna, dove c’è Anceschi con la rivista “Il Verri”, che scaturisce l’appassionato dibattito e lo scontro con la neoavanguardia e il Gruppo ’63, sulla funzione dell’intellettuale e il significato della cultura nella società in trasformazione. Affrontando i nodi effettivi della questione, Roversi, con i redattori di “Officina”, a cui si aggiungeranno Angelo Romanò, Gianni Scalia e il poeta Franco Fortini, sostiene la necessità di una nuova responsabilità storica e civile da affidare alla letteratura. Al confronto avviato su “Officina”, contribuiscono autori come Luzi, Sciascia, Calvino, Bertolucci, Gadda.
Conclusa questa esperienza, Roversi darà vita a un’altra importante rivista di indagine sulle scritture, “Rendiconti”, di cui dal 1961 fino al 1977 escono venti fascicoli. Dal ’92 le pubblicazioni riprendono con altri dieci numeri, fino al termine degli anni novanta.
Muovendo dalla convinzione che dimensione letteraria e disamina politico-sociale non vanno mai disgiunte, Roversi vive la letteratura come un invito a partecipare alle vicende del mondo, “come un atto che non ti sottrae mai dal dover fare i conti con la realtà”. La scrittura poetica per lui, è un mezzo per comprendere e ricostruire la realtà in una nuova visione. “Di poesia c’è bisogno non per consolazione ma per la lotta”. In questo imperativo, che è politico prima ancora che estetico è contenuto il senso della sua opera. Ed è qui che il poeta, lo scrittore, il saggista, si ricongiungono. Con forte approccio critico, anche verso se stesso e verso la propria generazione, che ha attraversato un periodo della storia assolutamente drammatico, nel 1962 conclude la sua opera in versi Dopo Campoformio, pubblicata da Feltrinelli e ristampata nel ’65 da Einaudi con sottrazioni e aggiunte. Dopo Campoformio è un libro di “contrasto politico”, come lui stesso lo definisce, un’opera pensata da Roversi, come poesia unitaria, come un libro poema, in cui emerge l’Italia uscita dalla guerra. Il titolo, col riferimento storico al trattato concesso da Napoleone agli Asburgo, che nel 1797 segnò la fine della Repubblica Veneta, in realtà, in forma allegorica, rende il senso di un sostanziale tradimento degli ideali della Resistenza, alla quale non ha fatto seguito alcun rinnovamento. In tutti i componimenti traspare il contrasto tra i due poli di un’Italia contadina e industriale, contraddittoria e incompiuta. Dalle vicende decisive della Resistenza, (Il tedesco imperatore), risuonano episodi conosciuti dalla storia: l’alluvione del Polesine, la bomba di Hiroshima, la condizione delle città nel poemetto Lo Stato della Chiesa.

In un contesto profondamente mutato in cui la natura, l’ambiente, vengono inesorabilmente travolti dall’industrializzazione selvaggia e incontrollata, l’oblio, la generale indifferenza, la distruzione della civiltà contadina, la migrazione biblica dal sud al nord, diventano le conseguenze più evidenti di uno sviluppo che il poeta, in un’epica corale, e con un ritmo narrativo incalzante, rappresenta nelle sue rovine. In bilico tra attesa e sparizione, intenso è il legame di Roversi con Bologna e la terra d’Emilia, e come sfondo, in una geografia attraversata dalla guerra e dalle speranze di riscatto, si trovano testi che ci restituiscono il respiro della campagna, il movimento della luce, il senso forte del paesaggio.
“Senza mai rinnegare la spinta iniziale della sua letterarietà che consisteva nell’investire la parola di una passione politica totale, di un umano interesse per il presente e per la realtà”(2), Roversi nel ’69 sceglie di non affidare ad alcun editore il nuovo libro, Le descrizioni in atto e di tirarlo al ciclostile in proprio, in tre successive edizioni, per circa tremila copie, inviandolo a chi ne fosse realmente interessato. È un gesto dal significato politico. Il suo rifiuto di accettare leggi e logiche dell’industria culturale e del mercato editoriale, lo porterà da quel momento a cercare canali alternativi di comunicazione, come forme di opposizione all’esistente. Le descrizioni in atto, libro fondamentale della sua produzione poetica, è un libro polifonico, aperto, che rappresenta la crisi della società caotica e disgregata degli anni ’60, già annunciata in Dopo Campoformio. Sono anche gli anni dell’omologazione culturale, come sosteneva il suo compagno di strada Pasolini.

Roversi scrive con rabbia civile e con furore. Dal classicismo lirico degli esordi giovanili, tra il parlato che sfiora il prosastico, e l’intensificazione visionaria dello sguardo, sempre più, attraverso la tecnica del montaggio, il suo sperimentalismo di forte contenuto etico, diventa l’elemento necessario per affrontare il nuovo presente. Anche se nel suo impasto linguistico, resta riconoscibile l’impronta dell’ottocento classicista. Come scrive Fabio Moliterni nella sua monografia Roberto Roversi Un’idea di letteratura, “La poesia delle Descrizioni in atto nasce dalla qualità di testimonianza e di denuncia; dalla ferma intransigente e lucida condanna del presente (…) che tende a realizzarsi in una poesia-prosa, intesa come documento o cronaca come ‘resoconto’, ‘rendiconto’, ‘descrizione’, ‘registrazione di eventi’,…dal Vietnam alla ‘Ford Anglia di Torino’; dalla ‘battaglia d’estate nelle vie di Belfast’ alle vicende del Maggio parigino; dalle guerre nei Paesi Arabi ai fatti di cronaca minuta delle metropoli occidentali: un montaggio alternato di episodi della storia di quegli anni, di dati, referti del reale che Roversi immette senza mediazione nel testo, estrapolando frasi di notizie da giornali e dai notiziari della Rai-Tv, veicolo condizionato e condizionante di omissioni e decise falsificazioni” (3).
Alla fine degli anni ’60, questa esigenza di un nuovo rapporto con la realtà e con il lettore, spinge Roversi a intensificare, attraverso le attività culturali, la partecipazione ai fatti della storia e in particolare ai movimenti giovanili di protesta di quella stagione. Ed è significativo che un autore appartato, indifferente al palcoscenico mediatico e ad ogni riconoscimento ufficiale, stabilisca un’intensa e incredibile rete di relazioni con il mondo giovanile di quel periodo. Con la sua disinteressata generosità, Roversi riesce a trasmettere energia ed entusiasmo ai suoi nuovi interlocutori. Così, dall’inizio degli anni ’70, sarà promotore o sostenitore di una miriade di iniziative culturali autogestite, veicolo essenziale di mutamento, come riviste marginali, fogli volanti, rimasti nella storia dei giovani protagonisti dei fermenti culturali e dei movimenti di allora. “Il Cerchio di Gesso”, “La Tartana degli Influssi”, “Dispacci”, “Le Porte”, “Lo Spartivento”, “Numero Zero” e tante altre. Spesso sono fogli lontani dai formati delle riviste tradizionali, di poche pagine, ripiegati, caratterizzati da un’autenticità artigianale, che passano, quasi clandestinamente, di mano in mano, redatti con la massima cura e precisione. Del resto sperimentazione e rigore sono i principi che guidano tutte le attività di un poeta come Roversi, che opponendosi ai canali istituzionali, è sempre stato attento al sistema della comunicazione poetica.

In questo clima, la sua libreria antiquaria Palmaverde, aperta nel 1948 e gestita con sua moglie Elena Marcone, già sede della rivista “Officina” e centro di importanti esperienze, continuerà ad essere, e lo sarà per oltre mezzo secolo, un punto di riferimento essenziale di incontri e di scambio per scrittori di diverse generazioni, soprattutto giovani scrittori che considerano Roversi un modello etico oltre che letterario. Ma di Roversi occorre tener presente la molteplicità delle strade percorse, non solo in poesia. Dalla attività pubblicistica al suo impegno saggistico, dalla collaborazione a piccole collane editoriali alla scrittura per il teatro, con le opere Enzo re, Il crack, La macchia d’inchiostro, La macchina da guerra più formidabile, Unterdenlinden. E per il cinema con Bologna e La ‘menzogna’ di Marzabotto. In prosa Roversi pubblica romanzi di grande rilevanza come Caccia all’uomo del ’59, Registrazione di eventi del ’64, I diecimila cavalli, del ’76. Un unicum dove trova spazio anche la forma canzone con cui si misura. Infatti come poeta Roversi mantiene sempre una dimensione alta, ma nello stesso tempo conserva una forte attenzione anche per la cultura popolare. Sono due aspetti che convivono nella stessa personalità. Colto, ma senza il piglio dell’erudito, immerso nella cultura di massa, si interessa alla poesia dialettale ed è un appassionato di ippica, ciclismo, automobilismo. Così nella prima metà degli anni ’70, si cimenta come paroliere e firma per Lucio Dalla tre album: Il giorno aveva cinque teste, Anidride solforosa e Automobili, che contribuiscono a rinnovare la forma canzone e a spiegare meglio di tante altri le trasformazioni degli anni ’70. Altre canzoni poi saranno scritte da Roversi per gli Stadio.

Ma il nucleo centrale della sua grande operosità rimane la poesia, e immediatamente dopo l’omicidio a Bologna, nel marzo del 1977, dello studente Francesco Lorusso, sconcertato per i fatti che sconvolgono la città, in difesa degli studenti, inizia a scrivere Il libro Paradiso, un poema civile che ha voluto chiamare come il celebre libro che affrancò, per primo, la schiavitù nella Bologna medievale: Liber Paradisus. Quest’ultimo poema e le sue due precedenti raccolte, Dopo Campoformio e Le descrizioni in atto, sono anche la premessa di una grande opera conclusiva del cammino del poeta bolognese. Dal 1982 ci lavora per trent’anni. Si tratta di un grande poema, che nasce da una visione sempre aperta a un’ulteriore ricchezza e complessità, di cui Roversi pubblica prima diverse parti con piccoli e sconosciuti editori, e infine ricompone nel volume dal titolo L’Italia sepolta sotto la neve, stampato fuori commercio nel 2010, in 32 esemplari numerati e firmati, dalla AER, una piccola tipografia di Pieve di Cento. Diviso in quattro parti più un prologo, L’Italia sepolta sotto la neve è un grande poema epico, un poema riflessivo e acuto, di migliaia di versi, scanditi in 284 parti, in cui il poeta, nel suo parlare da sotto la valanga politica, culturale che ha travolto l’Italia, non cessa di restituire la storia profonda del nostro Paese, che continua a fluire sotto la superficie effimera della spettacolarità, “né di mostrarci la progressiva cancellazione della realtà, da parte del frastuono della comunicazione, che nelle sue scelte editoriali ha sempre contestato”(4). Ed è un’Italia più vicina a come la conosciamo oggi quella che l’autore rappresenta, in maniera frammentaria, “…dove però il nesso, – come scrive Daniele Piccini – non è più nella narratività dimessa di Dopo Campoformio né nel montaggio violento e polemico delle Descrizioni, ma in una giustapposizione e calibratura che mantiene un quoziente di enigmaticità. Come se materiali reietti della vicenda storica e intellettuale si ricomponessero senza esser costretti nella sutura della sintassi, ma sospesi, allo stato gassoso, in una inquieta e non poco turbata sospensione aerea, come particelle di un universo in perenne scomposizione” (5).
Se è vero che la nostra attuale epoca sembra privilegiare solo la dimensione del presente, in cui, nel vociare dei media, tutto è consumato e rapidamente dimenticato, senza una prospettiva che fondi il pensare, ripercorrere l’opera di quest’autore è un’occasione per riflettere sul nostro recente passato e sull’attuale situazione. Battagliero fino all’ultimo, Roberto Roversi con la sua capacità di interrogare politicamente la realtà attraverso la poesia, puntando al nodo delle contraddizioni, è un esempio per chi vuole interagire con la storia e criticarla anziché subirla. Di fronte alla maschera ambigua del potere, all’involuzione politica e culturale del Paese, il valore e la forza oppositiva della sua scrittura, porta con sé la speranza del futuro e la fiducia nell’uomo, perché è nei legami, nel dialogo, che per Roversi diventa possibile trovare la voglia di ricominciare a costruire qualcosa di nuovo. “Dammi la mano formiamo una catena di chilometri e chilometri / da ombra a ombra respiriamo contro / la sabbia il vento i muri bruciati la notte le pietre / l’erba amara” (6).

Note:
- Seguendo con rassegnazione i bandi dell’8 settembre del ’43, Roversi finisce in Germania dove viene addestrato nella Divisione Monterosa. Tornato in Italia è spedito sulle montagne piemontesi, da li però si unisce alla lotta partigiana.
- Fabio Moliterni, Roberto Roversi. Un’idea di letteratura (Edizioni Dal Sud, 2003) p. 12.
- Ivi, p.94.
- Andrea Cortellessa, Roberto Roversi. Miserie d’Italia, in “Poesia”, numero 276, novembre 2012.
- Daniele Piccini, Roberto Roversi. Poesia al fuoco della storia, in “Poesia” numero 198 ottobre 2005.
- Roberto Roversi, L’Italia sepolta sotto la neve, AER edizioni, Pieve di Cento (Bologna) 2010, p.170.
