LE MAPPE DENTRO ALLE PAROLE. IL MONDO POETICO DI ANTONELLA ANEDDA di Bruno Brunini

Scrivevo per la pietà del buio

per ogni creatura che indietreggia

con la schiena premuta a una ringhiera

per l’attesa marina – senza grido – infinita (1)

Antonella Anedda

Nata da una famiglia sardo corsa, Antonella Anedda Angioy è una delle poetesse più note e apprezzate della poesia italiana contemporanea. Ha ottenuto numerosi e prestigiosi premi letterari e la sua voce è tra le poche di respiro europeo. Estranea alle mode e alle lusinghe del facile successo, dalla poesia alla prosa, dall’attività di traduttrice alla varia produzione saggistica, ha sviluppato una ricerca originale e coerente, che ha messo in luce la complessità e la ricchezza del suo mondo poetico.

Fondamentali nella sua formazione sono gli studi di storica dell’arte, le pratiche d’interazione tra parola e immagine, che si percepiscono nelle sue opere, così come in ambito poetico il costante confronto con un’ampia costellazione di autori classici e contemporanei, in prevalenza europei, come le poetesse Cvetaeva e Achmatova, e poi Mandel’štam, Paul Celan e molti altri, che hanno influito sul suo modo di scrivere poesia, portando il suo sguardo ben al di là dei confini abituali.

Antonella Anedda esordisce nel 1989 con  Residenze invernali, un’opera in versi accolta in modo estremamente positivo dai lettori e dalla critica, che ha riconosciuto fin dall’inizio il suo talento e la novità della sua poesia.

Tra ispirazione autobiografica e riferimenti iconografici, già in questa prima raccolta affiora un tema che caratterizzerà la sua intera produzione letteraria e visione del mondo, quello della dolorosa condizione umana dell’inermità, espressione della corporeità ferita di chi è vittima di conflitti o sofferenze personali, ed è esposto al sopruso, all’abbandono, come testimoniano questi suoi versi:

“…Le dieci. Sulla tovaglia un coniglio rovesciato di fianco/patate bollite, asparagi passati in casseruola./Nella stanza regna una solenne miseria./I vivi chiamano come da barche lontane.”

Al centro dell’attenzione di Anedda c’è la parola dei sopravvissuti, che nell’affrontare il dolore e il vuoto, tra solitudini lontane si cercano, senza però poter superare la condizione di distanza che li separa.

L’ascolto, l’accoglienza dell’altro, per avviare un dialogo con l’esterno lasciando rifluire dentro di sé “i miti oggetti”, luoghi, corpi in letti d’ospedale, diventa il nucleo originario da cui muove la  poesia di Antonella Anedda, a cui corrisponde la volontà di ricucire rapporti strappati dal tempo e di accogliere all’interno della propria voce il destino dei sommersi, di chi è inseguito da una storia che inevitabilmente ripete gli errori del passato e impone la propria forza sul corpo dei più deboli, di chi vive senza alcuna protezione. Per questo, come è stato sottolineato da diversi critici, la sua è una poesia che ha una dimensione etica, in quanto vuole essere spazio di resistenza della dignità umana.

Questa disposizione, nella sua scrittura passa attraverso un altro concetto fondamentale che percorre tutto il suo lavoro: l’importanza di dire noi e di non dire io.

Per Anedda, infatti, la scrittura è un atto di sottrazione, di rinuncia, che rifiuta ogni pretesa di dominio, ogni idea di superiorità ed è dunque una presa di distanza dall’io, dai narcisismi e da ogni atteggiamento autoreferenziale. La poesia è dialogo, è un parlare a qualcuno “la poesia non è diversa da una stretta di mano”, come viene definita da una famosa frase di Paul Celan, a lei cara.

“…Ciò che chiamiamo pace/ha solo il breve sollievo della tregua./ Se nome è anche raggiungere se stessi/nessuno di questi morti ha raggiunto il suo destino…”

È quanto si legge in Notti di pace occidentale, una raccolta di poesie pubblicata nel 1999, in cui si delinea in maniera più precisa il percorso cominciato con il suo esordio. Questo libro dal titolo volutamente ironico e amaro, segna la piena maturità della voce poetica di Antonella Anedda, che tra paesaggi, oggetti del quotidiano, riflessioni sul tempo, dal ricordo della guerra del Golfo, al conflitto in Bosnia e nel Kosovo si interroga sulle violenze della storia e su un’idea illusoria della pace. Un tema peraltro ancora molto attuale, considerando gli orrori e le tragiche vicende della guerra in Ucraina.

L’anonimia o l’impersonalità della lingua, intese non come diminuzione, ma come valore, come un procedere verso una necessaria essenzialità e apertura al molteplice, nel tempo si conferma sempre più come motivo fondante della sua visione poetica.

“così concepisco la scrittura: scrivere per sparire, perché la vita si squaderni davanti a me, senza di me” scrive Anedda nella sua opera in prosa La Luce delle cose.

La tensione verso una lingua “anonima”, priva di aggettivi non necessari, in uno stile che rifiuta ogni enfasi ed effusività, e “dice soltanto ciò che deve”, trova la sua forma in una poesia che attraversa l’esperienza di ogni giorno. Il radicarsi dell’autrice nella concretezza del vivere, tra i piccoli oggetti di una vita domestica, è tuttavia il risultato di una costruzione complessa che non comporta l’adozione di una scrittura mimetica, come precisa Riccardo Donati :“la scrittura di Anedda è caratterizzata da istanze trasfigurative che aprono alle accensioni dell’immaginario, all’affioramento di territori liminari tra memoria, desiderio e fantasia. Le dimensioni della fiaba, della suggestione visionario-antropologica, le appartengono pienamente.”(2)

Dopo la sua terza raccolta poetica, Il catalogo della gioia, pubblicata nel 2003, che segna un ulteriore momento di passaggio della sua scrittura, in cui fra il respiro della poesia e l’ interrogazione filosofica si esplicitano alcuni dei temi a lei più cari, segue nel 2007 Dal balcone del corpo, un libro di poesie colmo di immagini e di punti di vista diversi, caratterizzato dall’intervento del coro, secondo il modello della tragedia greca e con un dialogo dove l’autrice cede la parola a un io plurale, scomposto, come succede nella pittura cubista, in una molteplicità di prospettive. Nel testo affiora la riflessione sulla storia taciuta, sul lutto e il dolore altrui, umano e animale, e sull’indifferenza di chi guarda.

La ribellione alla prigione dell’io, la frammentazione dell’identità e la meditazione sulla morte e sulla perdita, raggiungono una inedita intensità in Salva con nome (2012), un volume non solo di versi ma anche di prose, di dettagli di fotografie, immagini di opere figurative, collages di volti sconosciuti, con un titolo che allude con una punta di ironia al linguaggio informatico.

Salva con nome è un libro importante per la relazione non didascalica che si crea tra l’immagine e i testi, in cui come scrive Caterina Verbaro “si mette in scena con inusitata intensità ed esattezza il transito dalla vita alla morte, lo spazio che fin da Residenze invernali, ha sempre rappresentato per la poesia di Anedda la più grande sfida di dicibilità”.(3)

“Cos’è un nome? Nulla. Un suono che chiama un corpo, un campanello che ti aggioga (…) Il nome scivolerà via con il corpo, ci saranno dei segni su una pietra (…) poi l’unica corrispondenza sarà l’aria.” Troviamo scritto nel testo di apertura del libro.

Evocando memorie personali e figurazioni archetipiche,  attraverso percezioni sfuggenti di una realtà precaria, il sentimento della perdita, così presente nella scrittura poetica di Anedda, prosegue in queste pagine il suo percorso di dissoluzione e ricomposizione del sé, già anticipato nella precedente raccolta di saggi edita nel 2009, La vita dei dettagli:

“Perdere: smettere di possedere, dare oltrepassando, dal lat. Dāre per, donare attraverso, scavalcare se stessi smarrendo, smarrendosi. Perdere oggetti e beni, perdere quanto è caro. (…) Scorrere, non trattenere. Perdersi, de possedere, decrearsi. (…) Perdere i confini di sé. In ingl.: to blow = soffiare di vento e aria (…). Perdere? È una porta sul vuoto”.

Si legge nel testo di chiusura de La vita dei dettagli, un volume composto da parole, foto, collages e didascalie, dove lo sguardo di Anedda, in una ricerca legata all’osservazione dei dettagli di quadri, nel sottrarsi a un approccio gerarchico e normalizzante, non riunisce ma scompone,sconcertando il lettore.

I dettagli portati fuori dal contesto di un’opera d’arte, assumono vita propria, consentono di immaginare altri orizzonti.

“Prendi una fotografia, taglia le parti più amate: l’ala del naso,/ la curva del collo./ Posale su un cartone. / Metti lo spazio tra le parti, mettici l’aria”. Si legge ancora ne La vita dei dettagli.

Tale procedimento, trova nuovi sviluppi in Salva con nome, dove l’io che si esprime in versi, nel tentativo di elaborare una possibile ricomposizione della perdita, costruisce uno spazio poetico immaginario, in cui sia pensabile una salvezza del nome, quell’interezza non più concepibile.

Ma si sa che lo spazio nella poesia di Anedda, è come l’isola della sua Sardegna, un luogo sempre insidiato, esposto al vento, al distacco, e nei suoi versi, in realtà, questo spazio immaginato non potrà essere altro che un riparo del tutto provvisorio.

Historiae è il titolo dell’ultima raccolta di poesia di Anedda pubblicata nel 2018.

A ispirare questo volume sono le Historiae di Tacito, oratore e senatore romano oltre che storico, che raccontano senza retorica l’orrore, i massacri, la fame, la povertà, che hanno segnato il suo periodo storico.

Il rimando di Anedda alle opere di Tacito e al suo stile asciutto e drammatico, ci fa capire quanto i classici ancora riescano a sorprenderci, a parlarci, a essere attuali rispetto a quello che viviamo.

“Rileggendo Tacito durante questa estate di massacri/il conforto veniva dal latino, la nudità dei fatti (…)” scrive l’autrice nella poesia Annales.

Il recupero del latino e l’utilizzo del sardo s’intrecciano in questo nuovo libro in cui Anedda continua a interrogarsi su alcuni temi già comparsi nelle opere precedenti, come l’importanza del dire noi, la presenza di una voce plurale.

Tacito, nel porsi davanti alla crudeltà della nostra specie, è capace di usare il noi, di riconoscere la nostra collettiva responsabilità, e ha la consapevolezza della violenza del potere che pervade ogni cultura conquistatrice.

“ci sono tracce? O sento solo io i perduti, gli stranieri,/i prigionieri tempestati di spine, le loro voci/ murate in questi templi (…)”.

Scrive l’autrice nell’esergo della sezione eponima.

Ma dal ritrovamento di una lingua antica e dei motivi a lei cari, l’attenzione di questa raccolta, più che alla guerra si concentra sull’attualità e sul tema dell’esilio, un movimento planetario che spesso travolge tragicamente chi è costretto a lasciare la patria, la lingua, la propria cultura per andare altrove.

“Oggi penso ai due dei tanti morti affogati/ a pochi metri da queste coste soleggiate/ trovati sotto lo scafo, stretti, abbracciati…” si legge nella poesia Esilii.

Nelle sue Historiae contemporanee c’è un cambio di prospettiva rispetto allo sguardo aristocratico di Tacito, che si esprime nel confronto dell’autrice col presente, con il dramma dei migranti annegati nei nostri mari, o con coloro che vivono ai margini della società, nelle periferie di Roma come si può leggere in questi versi tratti dalla lirica Occidente:

“Tutto perfetto “se non fosse” –dice un inquilino- / “per i cassoni d’immondizia”, bocche di buio/ che inghiottono gli avanzi: non solo cibo, ma mobili,/ vestiti, oggetti che forse si possono aggiustare”.

Accanto a questa riflessione, superando le differenze tra pubblico e privato, dimensione personale e lutti collettivi sono posti in un rapporto ritmico, di relazione, Anedda, infatti, ritorna a parlare con chi non c’è più, nel tentativo di richiamare e rivedere i volti perduti.

Tra storia passata e momento attuale, attraverso la vividezza delle immagini che compongono la raccolta, l’autrice ripropone il tema della morte e dell’esperienza del lutto che raggiunge il culmine nella descrizione degli ultimi momenti di vita della madre, rievocati nella poesia “Perlustrazione I”:

“ Entro con mia madre nella morte lei ha paura./ Cerco nella mia filosofia qualcosa che ci aiuti,/ parlo della cicuta e degli stoici ()”

Non mancano in questa raccolta i versi che esprimono il desiderio della poetessa di osservare meglio il cosmo, le galassie, le costellazioni e di misurarsi con lo spazio in modo reale, terrestre.

La prima e l’ultima sezione del libro, in particolare, sono dedicate ai paesaggi reali e mentali ma anche alle minacce che incombono sull’ambiente come in geografia2 dove l’autrice esplicita un cambiamento di consapevolezza:

 “torno al paesaggio, alle ossa delle bestie/ confuse con quelle dei sequestrati./ Ricordo che a sud est c’è un lago artificiale/ porta acqua e zanzare. Nebbie verdi.”

Negli ultimi anni, nell’opera di Anedda, si intensifica il tentativo di liberare la scrittura da ogni condizionamento antropocentrico e da ogni visione unilaterale delle cose.

Questo sembra uno dei motivi principali che ha ispirato l’ultimo suo libro Geografie, un volume scritto in una prosa poetica, pubblicato nel 2021.

Lo spazio, altro grande tema della sua ricerca, che trascende la contingenza del tempo convenzionale, grazie alla possibilità che offre di mostrare la realtà da una prospettiva nuova, il significato dei mutamenti, le perlustrazioni di luoghi diversi del mondo, dalla Mongolia al Giappone fino alla foresta pietrificata di Lesbos, ma anche di luoghi particolari, come può essere lo spazio di un ospedale dove si fa una tac o di semplici spazi domestici, sono al centro di quest’opera, in cui il pensiero segue la traiettoria del suo sguardo erratico, che è forse il suo unico vero atlante.

I viaggi, le esplorazioni, hanno arricchito la vita e la poesia di Anedda di nuovi temi ed esperienze.

Osservare “sgombra la testa da noi stessi”, ascoltare ma con il proprio io deposto di lato, essere attenti ai cambiamenti per tracciare nuove mappe fisiche e mentali, sono i termini più ricorrenti di questo lavoro.

Per una poetessa che ammira Darwin, la capacità di osservazione del grande scienziato e quel dimenticarsi del sé tramite l’osservazione del mondo esterno, del dettaglio, costituiscono uno dei presupposti fondamentali per scrutare la realtà e interpretarla.

Geografie è anche un libro di definizioni e di etimologie di piante e alberi che vengono riportati con il loro nome latino. Neotia nidus-avis, Stellaria nemorum, Saxifraga autumnalis.

A cadenzare lo scambio tra l’uomo e l’ambiente c’è un aspetto caratteristico della ricerca di Anedda di questi anni:

la visione della natura in cui protagonista è la vita vegetale e animale, la natura che segue il suo ritmo di vita inesauribile, vista come luogo complesso, impossibile da descrivere secondo una singola prospettiva e capace di accogliere realtà diverse e opposte.

Attraverso un racconto multidisciplinare, l’astronomia, la geologia, la biologia, che l’autrice assimila nel proprio immaginario, assumono un ruolo particolare.

“(Considera i pianeti, specchi del sole e le costellazioni.)

Il tempo si consuma, lo spazio meno. Lo spazio si rinnova e non è vero che è vuoto.”

Scrive Anedda nel testo di apertura di Geografie. Relazionandosi con il paesaggio mutato del contemporaneo, in una lingua concisa, essenziale, di tagliente chiarezza, acquisita da una precisione e da un continuo affilamento, la scrittura di Anedda è capace di sorprendenti accostamenti e spostamenti.

Scrittrice e poetessa dalla intensa, curiosa delicatezza e originalità per tutto ciò che riguarda la parola, nel riannodare il filo creativo che si dipana da Lucrezio a Dante fino ai nostri giorni,  Antonella Anedda, in un continuo dialogo con altre forme del sapere, destando nella mente una pienezza di pensiero, riesce a definire nella propria scrittura quella nuova sintesi tra letteratura e scienza che sembrava ormai sparita dall’attuale orizzonte letterario.

Ripercorrendo le tappe del suo lungo cammino, non si può non riconoscere nel movimento errante della sua voce, il tratto inconfondibile di una poesia capace di cogliere, anche tra i luoghi più remoti del mondo, tracce di solitudine, forme di ogni separazione, “cose che la mente spostava e custodiva per dare loro un fuoco“.

Antonella Anedda con Angelo Curreli e Maurizio Cucchi alla Premiazione di
“Trieste scritture di frontiera” Edizione 2007

NOTE

1. Antonella Anedda, da In una stessa terra, in Notti di pace occidentale, Donzelli (1999).

2. Apri gli occhi e resisti. L’opera in versi e in prosa di Antonella Anedda, di Riccardo Donati, Carocci editore (2020), pag.14.

3. dal saggio di Caterina Verbaro, L’arte dello spazio di Antonella Anedda, pag. 27, rivista “Arabeschi” n.5, gennaio-giugno 2015.

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