X – MARGARETHE VON TROTTA

Numero X – Settembre 2018

Sommario:

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L’UNIVERSO DI MARGARETHE VON TROTTA

di Luisa Ceretto

Con un percorso contrassegnato da rigore e impegno, Margarethe von Trotta è tra le maggiori autrici della cinematografia tedesca, rappresentante di quel nuovo cinema impostosi alla ribalta internazionale sul finire degli anni settanta, che ha saputo anche nei decenni successivi proseguire nel segno di un cinema di qualità, spesso dall’impronta autobiografica. Regista che ha messo al centro della propria opera l’indagine dell’universo femminile, in particolare il conflitto tra dimensione pubblica e sfera privata, dando vita a ritratti indimenticabili, condividendo sin dall’inizio con gli altri autori, da Fassbinder a Schlöndorff, la profonda critica alla società tedesca e ad un passato dall’eredità ingombrante. Un cinema profondamente radicale, che non fa concessioni alle aspettative spettacolari e si fa portavoce di un dissenso, un “non essere d’accordo con i ruoli o luoghi comuni, con le convenzioni e le violenze generate dal rispetto delle regole. È un dissenso che, partendo da casi particolari, si estende ad un giudizio globale sulla società contemporanea che non può essere positivo, in cui si salva soltanto l’umanità, la generosità, l’onestà e la dignità dei singoli che vanno controcorrente, e che risultano per lo più sconfitti dal contesto in cui vivono”. (1)      Come cinéphile, il suo incontro col cinema avviene all’inizio degli anni sessanta, durante un soggiorno a Parigi, dove ha occasione di vedere la pellicola di Ingmar Bergman, Il settimo sigillo (1957) “uno choc culturale e artistico – una vera rivelazione”, dichiarerà più tardi la regista. Facendo propria la lezione della nouvelle vague, la sua scuola diviene la sala cinematografica, dove conoscere pellicole del passato, ma non solo, insieme ad un avvicinamento progressivo alla pratica registica. Prima, però, si cimenta nella recitazione teatrale con un’impostazione che poggia sugli insegnamenti stanislawskiani dell’identificazione al personaggio. Pur facendo tesoro dell’insegnamento dei vari registi con i quali ha occasione di lavorare, l’attività teatrale resta transitoria, in attesa del debutto nella settima arte. È la prima occasione importante, con il ruolo di protagonista, le viene proposta da Gustav Ehmck nel 1968 nel film, Giochi con tipi strani. images (2)Successivamente lavora con Schlöndorff, per un adattamento della pièce teatrale di Brecht, Baal. Occasione che consentirà alla futura regista di entrare in contatto con gli attori dell’Antiteater e di fare la conoscenza di Rainer Werner Fassbinder. Con Fassbinder nasce una fruttuosa collaborazione, reciterà difatti nelle sue pellicole Gli dei della peste, Il soldato americano e poi ancora in Attenzione alla puttana santa. Con Schlöndorff, con cui nel frattempo si è sposata, è co-sceneggiatrice del film L’improvvisa ricchezza della povera gente di Kombach, che affronta il tema dell’organizzazione patriarcale e autoritaria nel diciannovesimo secolo, dove Margarethe von Trotta si ritaglia il ruolo di una contadina esasperata dalla dure condizioni lavorative. E ancora ha un ruolo ne La morale di Ruth Halbfass , mentre in Fuoco di paglia (1972), oltre ad essere interprete, scrive la sceneggiatura. Si tratta di una pellicola sulla lotta di emancipazione femminile in cui si rovesciano i canoni del cinema classico, il matrimonio che sanciva l’happy end per la coppia protagonista, portando in tal modo alla luce problematiche femminili fino ad allora inedite. Di tre anni più tardi è la sua prima co-regia, sempre col marito, Il caso Katharina Blum, tratto dal romanzo di Böll, lucido atto di accusa contro il potere dei media. Il colpo di grazia, ispirato all’omonimo romanzo di Yourcenar, segna la sua ultima interpretazione in una pellicola diretta da Schlöndorff. Nel 1977 realizza la sua prima regia, Il secondo risveglio di Christa Klages dove lo schema del polar è pretestuoso per un solido racconto morale, in cui emerge in tutta evidenza l’ interesse verso tematiche legate al mondo femminile, una riflessione sulla condizione delle donne, all’indomani del ’68. Parallelamente prosegue la carriera di attrice, lavorando col regista Herbert Achternbusch e, successivamente, con Zanussi.

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©Volker Schlondorff, Baal con Margarethe von Trotta, R.W. Fassbinder, 1969

La sua seconda regia, Sorelle (1979) conferma un talento che si misura con l’introspezione psicologica, il cui rimando più o meno esplicito è il cinema di Bergman. Il rapporto tra le due sorelle, Anna e Maria, il tentativo dell’una di trascinare l’altra nella propria direzione, anticipa per certi versi quello delle protagoniste del film seguente, Anni di piombo (1981) –  ispirato alla vicenda delle sorelle Ensslin, a Christiane e alla più giovane, Gudrun, terrorista della banda Baader-Meinhof, trovata morta in cella -. Opera che la consacra tra i grandi del cinema europeo, meritatamente vincitrice del leone d’oro, premiata da una giuria presieduta da Italo Calvino. Come osserva Ester Carla de Miro d’Ajeta: “con un taglio che era stato tipico del cinema espressionista, Margarethe von Trotta si era infatti ispirata alla realtà andando al cuore del problema e trasformando una storia privata in un dramma della sua generazione, scavando profondamente nelle motivazioni del passato tedesco e, di conseguenza, nelle azioni del presente e nelle scelte terrorismo/riformismo, legate da una radice comune di opposizione allo ‘stato delle cose’. E questa comune origine diventa ancora più importante nel film perché non si limita all’ideologia, ma affonda le sue radici nell’affettività di una vita condivisa e di un legame di sangue come quello tra due sorelle, che diventa anche metafora delle due Germanie, quella dell’Ovest e quella dell’Est, separate ancora dal muro in quegli anni, e sulla cui ambivalente coesistenza la regista ritornerà non a caso più esplicitamente con il suo ultimo film, La promessa” (2). Lucida follia (1982) i cui dialoghi in Italia sono tradotti da Dacia Maraini, è una riflessione sull’amicizia tra donne.

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Barbara Sukowa in Anni di piombo, 1981

Come dichiarava la regista,  “Oggi l’amicizia tra donne ha un altro scopo: quello di crescere insieme, di comunicarsi le reciproche esperienze, di aiutarsi a vicenda nella valorizzazione delle proprie capacità, e, soprattutto, quello di rendersi la vita più vivibile attraverso un’affettività spontanea che non conosce il bene ed il male, che accetta l’altra per i valori umani di cui è portatrice”. (3) Sul finire degli anni ottanta, dopo una lunga gestazione, Margarethe von Trotta dirige Rosa Luxemburg in una suggestiva ricostruzione storica, il film regala un altro ritratto femminile dove pubblico e privato dialogano profondamente. Il cinema di Margarethe von Trotta, come è stato definito, è un cinema degli opposti, dove coesistono ragionevolezza e passionalità, morte e vitalità, arcaismo e modernità, ideali assoluti e distacco critico, mondo interiore e realtà circostante. Ne sono esempi, lo splendido Paura e amore (1987), moderna rilettura cechoviana di Tre sorelle, e L’africana (1990). Nel 1993 su una sceneggiatura scritta da Felice Laudadio, che ha sullo sfondo l’Italia e una sua difficile pagina di storia, Margarethe von Trotta gira Il lungo silenzio, che racconta l’impegno civile della moglie di un magistrato in prima linea, ucciso in un attentato organizzato dalla mafia. Dopo La promessa (1995), una storia d’amore di una giovane coppia separata dal muro di Berlino, la regista si dedica alla realizzazione di alcuni progetti per la televisione, una produzione parallela che affianca quella per il grande schermo, che prosegue anche con l’affacciarsi del ventunesimo secolo. Con Rosenstrasse (2003) la regista fa ritorno alla storia del proprio paese, all’eroismo di centinaia di donne che nel 1943 manifestarono a Berlino contro la deportazione dei loro mariti, riuscendo a farli liberare, in un racconto che alterna tempi diversi e il sovrapporsi di ricordi di una protagonista di quel periodo, Ruth e di sua figlia. Successivamente realizza altri lavori che restano inediti in Italia e nel 2012 firma Hannah Arendt, rigoroso ritratto sull’autrice del libro “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”, basato sulla teoria per cui l’assenza di radici e memoria e la mancata riflessione sulla responsabilità delle proprie azioni criminali trasformano esseri banali in agenti del male. Il suo primo documentario, Searching for Ingmar Bergman, presentato all’ultima edizione del festival di Cannes in prima assoluta, nasce come progetto dedicato al regista svedese in occasione del centenario della sua nascita, un maestro che l’ha profondamente influenzata nel modo di fare cinema. Per raccontare la figura di Bergman, adotta una scrittura che si alimenta di emozioni personali, ma anche avvalendosi di testimonianze di registi come Carlos Saura, Olivier Assayas, Mia Hansen-Løve e delle attrici e collaboratori dei film di Bergman, come Katinka Farago, la sua assistente di produzione per trent’anni, che dichiara quanto il maestro svedese fosse tormentato da una grande paura di non essere all’altezza del proprio compito, di quanto la mattina delle riprese si svegliasse pietrificato dalla paura. A proposito dell’influenza di Bergman sulla propria opera, Margarethe von Trotta è esplicita: “Ho l’impressione che lui sia davvero mio padre (…) dipendo ancora da lui.” L’inquadratura della scena finale del documentario per certi aspetti lo conferma. Alla fine del viaggio ‘alla ricerca’ di Ingmar Bergman, von Trotta si ritrova nel punto esatto in cui è nata per così dire tale dipendenza, ovvero la spiaggia della scena di apertura de Il settimo sigillo: sola, al centro di un paesaggio tagliente, lei appare piccola, vulnerabile, con lo sguardo rivolto verso le scogliere da dove, un tempo, Bergman osservava dalla sedia da regista, “Ho paura di non aver mai superato questa insicurezza”. L’abbiamo incontrata in occasione di uno dei suoi recenti soggiorni in Italia.

 

 

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Note:

  1. Ester Carla de Miro d’Ajeta, Margarethe von Trotta. L’identità divisa, Le mani, Recco, 1999
  2. Ibidem, p. 212
  3. Ibidem, p. 247

 

INCONTRO CON MARGARETHE VON TROTTA

di Luisa Ceretto 

 

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Prima di cimentarsi nella regia, lei è stata a Parigi, in un momento di grande fermento culturale, era infatti il periodo della Nouvelle Vague e dei suoi autori, François Truffaut, Jean-Luc Godard, Alain Resnais, Eric Rohmer, che oltre ad aver proposto un rinnovamento del linguaggio cinematografico, avevano dato impulso alla cinefilia, alla riscoperta e rilettura del cinema dei maestri, a partire da Bergman. Ci può raccontare qualcosa dei suoi anni di formazione?

Nei primi anni sessanta anch’io sono stata una cinéphile, prima di poter fare cinema, quando ho visto per la prima volta il meraviglioso Settimo sigillo di Ingmar Bergman. È stata difatti la visione di quel film a farmi desiderare di avvicinarmi alla settima arte, ma si trattava di uno spunto, a quell’epoca non potevo prevedere che sarei divenuta regista. Era un periodo in cui non c’erano tante donne registe. In Germania, prima di me, c’era stata Leni Riefenstahl, che peraltro costituiva un modello di fare cinema, ma si deve tornare indietro ai tempi di Hitler, all’epoca nazista. Prima di cimentarmi nella regia, ho seguito un corso di recitazione teatrale. Non ho mai seguito corsi di cinema, erano troppo onerosi e non me lo potevo permettere, però ho frequentato molto le sale cinematografiche e ho imparato molto vedendo i film, forse meglio di qualsiasi scuola. E poi, quando in Germania ha avuto inizio il nuovo cinema tedesco, nel 1965, 1966, con un film di Volker Schlöndorff, e successivamente di Alexander Kluge, quindi di Werner Herzog, ho cercato di introdurmi, di collaborare in qualità di attrice.

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Margarethe von Trotta in Dei della peste di R.W. Fassbinder, 1970

Ho incontrato Schlöndorff, con cui ho collaborato come attrice su Baal (1970), film tratto da una pièce teatrale di Brecht. Con me lavorava, come attore, anche Rainer Werner Fassbinder, così ho fatto la sua conoscenza. In seguito ho lavorato per alcuni film diretti da Fassbinder. Mentre facevo l’attrice ho sempre guardato, osservato il lavoro dei vari registi con cui collaboravo. Ne osservavo il lavoro, come facevano le riprese, ponevo diverse domande, così, poco alla volta, mi sono avvicinata alla regia e ho potuto fare il mio primo film nel 1977. Ho dovuto attendere quasi diciassette anni, prima di avere questa occasione.

Prima citava Leni Riefenstahl, regista cui si devono film come Il trionfo della volontà, come Olympia, discussa personalità artistica piegata all’ideologia nazista e alla sua propaganda, dotata di enorme talento visivo e innovativo. Il cinema tedesco vanta una lunga tradizione, sin dall’epoca del muto e in particolare con l’Espressionismo…

 L’Espressionismo riguardava gli anni venti, ma anche il cinema precedente come quello successivo dei primi film sonori, facevano parte del passato, tutto questo periodo era stato distrutto dal nazismo, si era creata una frattura, una pausa totale del cinema. Non esisteva più il vero cinema e anche subito dopo la guerra la produzione non era di qualità.

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Volker Schlöndorff e Margarethe von Trotta

Subito dopo la seconda guerra mondiale, infatti, la Germania era sotto il controllo degli Alleati e lo era anche la produzione cinematografica.  Una produzione decisamente poco interessante, non esportabile e banale.

Una situazione di crisi che era stata denunciata nel cosiddetto Manifesto di Oberhausen, firmato nel corso di una edizione della nota manifestazione cinematografica, Internationale Kurzfilmtage, che si teneva ogni anno a Oberhausen, ad opera di ventisei registi, tra cui Alekander Kluge ed Edgar Reitz. Si trattava di una dichiarazione di intenti in cui si denunciava, per l’appunto, lo stato di crisi in cui versava la produzione cinematografica nazionale, ancora ferma a modelli linguistici ormai desueti …

Si è infatti dovuto attendere il nuovo cinema tedesco degli anni sessanta, e tutto questo ha avuto inizio nel 1962, e poi negli anni successivi. Risale difatti a quell’anno il manifesto di Oberhausen con cui si dichiarava che “il cinema di papà” era morto. Il cinema che ne è uscito da quel momento, è poi andato in giro per il mondo e poi è stato conosciuto, infatti, come nuovo cinema.

 Lungo gli anni settanta e quando ha esordito lei nella regia, c’era un sentire comune tra i cineasti? Un’esigenza di confrontarsi col passato del proprio Paese?

Era una riflessione comune, una volontà di confrontarsi con la storia ma ciascun regista col proprio stile. Non era una scuola, si trattava di una comune attenzione verso il passato. Certo, devo anche dire che tutti quei registi, perlopiù uomini, non avevano molto interesse ad aiutare le donne a cimentarsi nella realizzazione delle loro regie.

 

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Fanny Ardant, Greta Scacchi, Valeria Golino in Paura e amore, 1988

Lei ha affrontato tematiche importanti e cruciali riguardanti momenti storici precisi della Germania, come il terrorismo e il nazismo, con film come Anni di piombo e Rosenstrasse ma ha anche diretto opere come Paura e amore, come Il lungo silenzio, che hanno sullo sfondo pagine altrettanto complesse della storia dell’Italia. Due paesi che Lei conosce bene, i cui destini, pure nelle differenze, presentano analogie, sono stati entrambi governati da dittature….

Questo sì, era sicuro. La Germania e l’Italia sono stati Paesi fascisti per un certo periodo, abbiamo un trascorso comune, anche se gli italiani non sono stati forse così crudeli con la popolazione ebraica come lo sono stati i tedeschi…

 Spesso, a proposito della sua opera cinematografica, si è data l’etichetta di cinema d’impegno. Cosa ne pensa, quale definizione troverebbe più calzante?

 Trovo che l’etichetta dell’impegno sia una definizione molto superficiale da dare ai miei film, che sono anche psicologici, che riguardano più in generale la cultura, affrontano temi molto più vasti. È un cinema che va oltre l’impegno, certo, è presente come principale messaggio, ma non è solo questo. Mi sento molto vicino anche al modo di fare cinema di Bergman, anche se rispetto a lui sono politicamente più impegnata. D’altro canto, rispetto a tutto quello che è successo in Germania, al suo passato, sarebbe difficile non esserlo. Ma è vero che Bergman non aveva mai fatto film di impegno e ciononostante era comunque molto attento alla politica, non è che vivesse isolato nella sua isola. La sua era una scelta programmatica di non trattare esplicitamente certi argomenti, anche rispetto ad altri registi svedesi. Io sono stata molto più aperta e visibilmente impegnata ma questo per me e lo ribadisco, costituisce solo un aspetto del mio cinema.

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Margarethe von Trotta, Volker Schlöndorff sul set de Il colpo di grazia

Nei suoi film ha creato ruoli femminili intensi e affascinanti, lavorando con attrici tedesche come Hanna Schygulla, ma  anche con attrici italiane come Valeria Golino, Greta Scacchi, Carla Gravina. Ci può dire qualcosa a proposito del suo lavoro con le attrici?

Evito i cliché, le donne che io mostro non ricalcano cliché. Per ciascun personaggio cerco di capire e di cogliere la sua verità. E poi sono stata attrice io stessa e posso forse aiutare a mia volta le attrici un po’ meglio perché capisco come possano sentirsi e la paura che possano provare davanti alla macchina da presa, a come possano sentirsi esposte davanti a questo apparecchio. Credo di poterle aiutare maggiormente rispetto a chi non ha mai recitato.

Rispetto all’ultimo suo film, Searching for Ingmar Bergman, ci può dire com’è nato?

I miei produttori sapevano che Bergman è stato per me un maestro e che sono diventata regista dopo aver visto i suoi film. Quando hanno avuto l’idea di preparare un film per il centesimo anniversario della nascita di Bergman, hanno pensato a me. Solo che io non volevo farlo, mi sono rifiutata per un certo tempo, non mi sentivo all’altezza. Ma poi hanno molto insistito, anche il mio agente e mio figlio che è co-regista del film, e così ho accettato ma mi ci è voluto del tempo per farlo. Mio figlio è documentarista, ha già fatto cinque o sei documentari, è lui che mi ha aiutata, non avrei saputo da dove cominciare. Il film è uscito nelle sale cinematografiche in Germania, il 12 luglio, due giorni prima del compleanno di Bergman, spero che anche in Italia possa trovare una distribuzione.

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Margarethe von Trotta in Searching for Ingmar Bergman

In precedenza aveva già diretto dei documentari?

Searching for Ingmar Bergman è il mio primo documentario. In verità non è proprio un documentario quanto piuttosto una conversazione con Bergman, anche se era già morto. L’approccio era quello di voler approfondire la conoscenza su di lui e la sua opera.

Nel film alterna interviste a registi contemporanei, come ad esempio Olivier Assayas, a filmati e materiali d’archivio, oltre che spezzoni tratti dalle opere di Bergman. Emergono aspetti forse meno noti al grande pubblico, momenti dell’artista, ma anche dell’uomo, che poi forse in Bergman – dove sfera lavorativa e sfera privata spesso si intrecciano – coincidono…

Sì, la cosa vale soprattutto per Bergman. François Truffaut aveva dichiarato che Bergman era il regista più autobiografico che lui avesse mai conosciuto, è una opinione che sento di condividere appieno.

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Carla Gravina, Ottavia Piccolo in Il lungo silenzio

Quando ho cominciato a lavorare al film, oltre alle regie dirette da Bergman, ho dovuto anche capire un po’ come fossero la sua vita privata, le sue donne, i suoi figli, e mi sono resa conto che il suo cinema è veramente molto vicino alla sua vita. Si può dire quasi che  la sua opera filmica sia come un album di fotografie che puoi guardare, sfogliare e capire in ogni suo film a che punto dell’esistenza sia giunto.

Quali sono nella sua opera cinematografica, se crede che ve ne siano, i riferimenti più diretti al cinema di Bergman, le eventuali affinità con la sua poetica?

Tempo fa un giornalista ha scritto un articolo e a proposito del mio cinema, mi ha definita un’archeologa dell’anima. Penso che lo stesso si possa dire per Bergman, che sia uno psicologo, un attento indagatore, che fa una ricerca sull’anima, sulla psiche umana; è questo l’elemento che mi interessa, e così mi sento anch’io.

In Searching for Ingmar Bergman si menziona la premiazione della pellicola da lei diretta, Anni di piombo e il meritato riconoscimento del leone d’oro. Cosa ricorda di quel momento?

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Anni di piombo

Quando sono scesa dal palcoscenico, col mio premio, alla Mostra del Cinema di Venezia,  mi è stato chiesto come mi sentivo ad essere la prima donna a ricevere il leone d’oro. Prima di me era stato conferito soltanto a Leni Riefenstahl nel periodo fascista, sotto Mussolini, quindi ero la prima donna nel dopoguerra a essere premiata. Tenendo conto che il premio lo avevo ottenuto nel 1981 e che la guerra era finita nel 1945, era trascorso un bel periodo.

Quando ha avuto l’occasione di conoscere Bergman?

L’ho conosciuto, ma non veramente bene, a Monaco, nel periodo in cui lavorava per il teatro e poi l’ho incontrato per il “European Film Academy”, siamo stati insieme in una giuria dove lui era presidente. Aveva scelto tra i suoi membri Jeanne Moreau, Suso Cecchi D’Amico, la grande sceneggiatrice di Visconti e poi Theo Anghelopoulos, Deborah Kerr e anche la sottoscritta. È in quella occasione che mi ha detto che amava molto il mio cinema.

E in particolare Anni di piombo…

Sì sì, ma aveva anche aggiunto Paura e amore, perché Bergman era un regista di cinema ma anche di teatro e sicuramente aveva anche fatto una regia tratta da Le tre sorelle di Čechov e quando ha visto il film, non gli sarà sfuggito che si trattava di una versione moderna del testo di Čechov.

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Margarethe von Trotta e Barbara Sukowa

Scorrendo la sua filmografia, di recente, oltre ad aver diretto film per il grande schermo importanti e distribuiti in Italia, come Hannah Arendt, ha anche lavorato per la televisione, come del resto anche Bergman aveva al suo attivo una produzione televisiva. Sempre più spesso registi di cinema si muovono verso la televisione, forse per sperimentare un nuovo medium? Qual è la sua opinione in merito?

 Non cercavo un nuovo linguaggio espressivo quando ho lavorato in televisione. Ho cominciato a fare un film per la televisione perché nel momento in cui mi è stato proposto non avevo l’occasione di lavorare per il cinema. Si aspetta sempre a lungo per ricevere i soldi. Anche le  condizioni di lavoro in televisione sono più difficili. Si ha un budget più ridotto, meno tempo, bisogna essere sempre più veloci. E questo consente anche di verificare il proprio mestiere, perché si deve essere bravi sia per fare un film per la tv che per il cinema. Bisogna darsi la pena di fare un buon film e di non pensare che per la televisione lo standard possa essere diverso.

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Hanna Schygulla e Margarethe von Trotta

DICHIARAZIONI DI MARGARETHE VON TROTTA

a cura di Margi Fenoglio

 

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L’etica protestante

“La continua negazione del piacere che c’è nei miei personaggi credo sia tipica della mentalità protestante. L’ideologia protestante si basa proprio sul principio che non si deve provare piacere nella vita, e appena ci si trova in questa condizione, scatta subito il senso di colpa. Forse non è un caso che Juliane apprenda della morte di sua sorella proprio mentre è in vacanza con il suo uomo, in un momento d’amore e di spensieratezza”.

“Lo spirito protestante ha a mio avviso due aspetti: da un lato c’è il rigorismo morale, la rinuncia alla gioia di vivere ed alla gioia in genere, l’autocastrazione di ogni tipo di godimento, ma allo stesso tempo questo essere rigorosi in modo assolutamente radicale nei confronti di se stessi porta alla ricerca della verità più profonda e questo, in un momento in cui tutti tentano di rimuovere il passato, può diventare una qualità. E’ vero, è lo spirito protestante che riemerge alla fine di Anni di piombo, ma direi che lo fa nel suo lato positivo. E’ come nella scelta in cui c’è l’uomo che suona il violoncello e la sorella dice ‘Voglio essere necessaria, voglio vivere per qualcosa’. C’è dunque una ricerca che continua sul perché della vita, non basta vivere tanto per vivere, si ha anche bisogno di vivere per qualcosa, anche se questo comporta il sacrificio. Le due sorelle vivono per un ideale.”

 

Nazismo

“Da bambina non sapevo che i tedeschi fossero responsabili della seconda guerra mondiale e dell’Olocausto. A casa e a scuola, siamo stati cresciuti nel silenzio sul passato: si sono dati molto da fare per tenere una generazione all’oscuro, vivevamo sotto una cappa di piombo. Ma nel film il padre delle due bambine, Christiane e Gudrun Ensslin, un pastore protestante, uomo severo e durissimo, fa vedere Notte e nebbia, il film di Alain Resnais sui campi di concentramento che per molti in Germania fu una rivelazione sulla verità del nazismo. A differenza dei registi italiani che, come ha ricordato Scola, sono stati spinti subito dopo la guerra a darsi da fare perché amavano il loro Paese, noi tedeschi non abbiamo mai amato la Germania, l’abbiamo odiata. I miei ricordi di Berlino erano macerie”.

“Non ci fu presa di coscienza, è questo il dramma. Nel dopoguerra tutti tentarono di dimenticare. C’era la distruzione, la fame, ma nessuno parlava delle colpe che avevano portato a questo. Noi eravamo responsabili, il popolo tedesco aveva cominciato la guerra. Ma un bambino non sa, si sente solo vittima, capisce molto dopo di essere parte di un popolo che ha commesso questi crimini”.

“Mia madre era apolitica. Parlava del passato perché era nata a Mosca, ma non del nazismo. A scuola niente. Nessuno mi ha detto la verità. All’inizio degli anni ’60 sono andata a Parigi e ho incontrato degli studenti francesi che mi hanno aggredito in quanto tedesca e io non sapevo neppure cosa rispondere perché non sapevo di cosa parlassero. È lì che è iniziato il mio interesse per il passato. Sono tornata in Germania e a quel punto volevo sapere. Questa negazione della verità ci ha reso ribelli.”

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Margarethe von Trotta sul set di Die abhandene welt

Sulle donne

“Non so se la mia opinione intorno alla libertà e all’indipendenza sono cambiate molto rispetto ai miei primi film. Io credo di essere ancora sulla strada che ho intrapreso anni fa. Forse in Europa la libertà e l’indipendenza delle donne sono un po’ cresciute in confronto ai tempi in cui ho iniziato a fare la regista, ma se si guarda al mondo, in Africa e nel Medio Oriente la condizione della donna è ancora terribile. Un po’ di indipendenza per la donna significa sempre anche un certo grado di libertà nella società. E un certo grado di democrazia nella società è sempre segno che si è realizzata una certa indipendenza della donna. Perché il punto è che le donne non vogliono il potere, ma l’indipendenza. Sono gli uomini che cercano sempre il potere. Noi vogliamo semplicemente avere la libertà di scegliere quello che è bene per noi, per la nostra vita, per il nostro sviluppo”.

 

Sulla realtà odierna

“Dopo certe dichiarazioni di Schaeuble un’amica mi ha detto ‘mi vergogno di essere tedesca’ e sono tanti che pensano come lei. Con tutta la nostra storia il fatto di essere così arroganti, così crudeli, così privi di umanità nei confronti dell’infelicità degli altri mi sembra davvero terribile. Siamo andati indietro di oltre trent’anni, nel ’68, poi negli anni Settanta e Ottanta siamo stati molto coscienti di quello che avevamo fatto nel passato. Ho l’impressione che dopo aver vinto i campionati del mondo la Germania sia sentita di nuovo forte e potente e i tedeschi di colpo abbiano riscoperto il nazionalismo”.

 

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“Il termine militante mi rimanda ad una persona che ha sempre un coltello tra i denti, ed io così non lo sono mai stata. Questo termine lo trovo poi anche molto riduttivo. Nei miei film c’è l’aspetto politico, c’è l’attenzione al femminile ma anche altro e molto di più. Un esempio? Uno dei miei film più noti lo girai nel 1981 ed è Anni di piombo. Il titolo l’ho preso da una pagina di Friederick Hölderlin e recitava più o meno così: ‘È come se fossimo negli anni di piombo…’ e rimandava ad un concetto molto più vasto e poetico. Era un riferimento ambiguo e parlava di due cose: degli anni del terrorismo ma anche di quella cappa plumbea e pesante che si respirava in Germania all’epoca del post-nazismo. In Italia quest’espressione è stata ridotta solo alle pallottole ed al periodo del terrorismo.”

 

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“Accettai solo a condizione che mi fosse permessa una mia strada per descriverla. Su di lei c’erano tanti scritti politici, ma io avevo bisogno della ‘carne’, di capirla come persona umana e allora ho letto per cinque volte le sue 2.500 lettere e alla fine ho deciso di usare ciò che mi era rimasto in testa. Oggi non si scrivono più lettere, ma solo messaggi telegrafici, non so come si potrebbe ricostruire un grande personaggio attraverso gli sms o le email. Le lettere ci danno veramente il ritratto di una persona nelle sue sfaccettature”.

 

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“Quello che più mi interessava mostrare, era come una donna nel Medio Evo, che viveva sotto certe regole – regole della religione e della società – era riuscita a trovare la strada adatta a lei e al suo talento. Lei è suora in un monastero dove c’è un abate che detiene l’autorità, e lei deve essere obbediente, umile, modesta. Sente che ha dentro di sé delle cose che in quelle condizioni non può esprimere. Allora ha delle visioni (…). Io non credo alla natura divina di quelle visioni. Io credo che sia tutto dentro di lei, che sia il suo inconscio che le viene in aiuto. Lei le esterna, e questo le permette di salire al rango di visionaria, profetessa accettata come tale dal Papa, da san Bernardo di Chiaravalle. Questo la mette in grado di scegliere la sua strada. Perfino di lasciare il suo convento, cosa totalmente proibita, per fondarne un altro. L’autorevolezza riconosciutale per quelle visioni le permette di lasciare il primo convento e di fondarne altri due. E lì ha la possibilità di studiare le scienze, praticare la musica, fare ricerche sulle piante, sulla fisiologia umana, eccetera. Il suo inconscio le dà lo slancio vitale per soddisfare il suo talento, che è poliedrico. Forse oggi sarebbe diventata una scienziata”.

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Volker Schlöndorff, Margarethe von Trotta, Il colpo di grazia

 

“Ho scelto come protagonista Barbara Sukowa che avevo già diretto in Rosa Luxemburg Anni di piombo. Per me lei era la garanzia di non rischiare di cadere nel kitsch o nel cliché. Grazie alla sua recitazione ero certa che avremmo reso un’immagine equilibrata di questa figura femminile. Vision è un film minimalista, perché si svolge dietro alle mura di un convento. Uno dei momenti più interessanti della storia è quando Ildegarda ha deciso di lasciare un convento per fondarne un altro nonostante avesse giurato fedeltà all’abate che, dal canto suo, non voleva permetterle di andare via per timore di perdere le offerte delle famiglie ricche che davano molti soldi in virtù della fama e della notorietà di Ildegarda come visionaria”.

“Quando si realizza un film su un personaggio del passato il regista lo filtra necessariamente attraverso la cultura e la società di oggi. Ho cercato di individuare quali potessero essere gli aspetti più attuali della figura di Ildegarda. Tra questi senza dubbio il suo interesse per la medicina alternativa e la necessità di entrare in armonia con le forze della natura. A Federico Barbarossa suggerisce di non farsi prendere dall’avidità e dall’ingordigia del potere: un messaggio che credo sia oggi più che mai attuale.”

 

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Barbara Sukowa in Hannah Arendt

Hannah Arendt, 2012

“Oggi siamo tutti dei piccoli Eichmann. Come il criminale nazista di cui Hannah Arendt ha saputo cogliere l’intima essenza, evitiamo di pensare. Il totalitarismo ha vinto anche se ha perso come sistema politico. Per reazione ha prodotto un individualismo che è vuoto di pensiero”.

“Io non sono certo all’altezza di Hannah Arendt, una pensatrice che ha avuto grandi idee e che le ha difese con grande coraggio. Ma certamente quando si vuole affrontare il mondo con le proprie forze e guardarlo coi propri occhi, bisogna mettere in conto l’isolamento. E se scopri una verità, hai il dovere di dirla anche correndo il rischio di restare isolata.”

“Proprio questo coraggio di pensare con la propria testa, senza legarsi a una teoria o a una verità costruita da altri. Guarda coi suoi occhi e pensa con la sua testa. Va a Gerusalemme per il processo a Eichmann, pensando come tutti che si tratti di un mostro, di un criminale terribile. Lo guarda, e scopre che questa idea di lui che tutti avevano non corrisponde alla verità. Matura tutta un’altra concezione di questo criminale di guerra. Per me come regista è importante far partecipare lo spettatore alla sua osservazione, fargli vedere Eichmann come lo vede la Arendt, e permettergli di arrivare alla stessa conclusione.”

“Arendt lascia la Germania quando i nazisti arrivano al potere. In Francia viene imprigionata perché è tedesca. In America si sente finalmente a casa e gli attacchi contro di lei dopo gli articoli sul processo Eichmann sono come un nuovo esilio”.

“Non cerco di dare un messaggio, e qui se ve ne è uno, è che si deve sempre pensare con la propria testa. Arendt in questo è stata una grande maestra”.

 

Sugli attori 

“Gli attori devi amarli perché, in fondo in fondo, hanno paura di stare davanti alla macchina da presa. Molti miei colleghi pensano che gli attori siano degli automi a cui dire: “Vai da lì a lì”. L’attore, invece, è una creatura vulnerabile, debole, ed è una cosa di cui occorre tenere conto. Bisogna lasciarlo libero di inventare e di proporre ciò che desidera. Ci sono attori con cui puoi discutere e altri che cominciano a piangere non appena gli rivolgi la parola. Un regista deve capire immediatamente chi ha di fronte, dev’essere un po’ uno psicoanalista.”

“Avrei voluto fare un film con Gian Maria Volonté o Marcello Mastroianni, in Germania è difficile trovare due attori così bravi. Peccato che siano morti perché adesso avrei il coraggio di chiederglielo”.

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Giuliano Montando in Il lungo silenzio

 

A proposito di Ettore Scola

“Avrei voluto essere una delle sue attrici, io l’ho conosciuto a Venezia dopo Anni di piombo. Avevo visto e ammiravo profondamente i suoi film. Voleva che scrivessi una sceneggiatura per lui, me lo disse per farmi un complimento, in realtà la cosa non lo interessava, ma non poteva dirmi: “Tu sei brava”. Ogni volta che ho portato un film in Italia, lui è venuto a vederlo. Mi diceva: “Mamma mia, non c’è niente da ridere nel tuo cinema”, mi sembri Dreyer. Pensava che il mio cinema fosse troppo tedesco”.

“Avevo girato da un anno Sorelle, fu una premonizione: avevo chiamato le protagoniste Maria e Hannah, pensavo che fossero nomi troppo biblici e volevo cambiarli ma non l’ho fatto. Poi ho scoperto che la mia sorella segreta, che ha quindici anni più di me, si chiama Hannah, e il mio secondo nome è Maria”.

“In occasione dell’uscita del film, la tv mandò in onda un’intervista in cui per la prima volta parlavo di mia madre, morta da poco. Raccontavo che era di una famiglia nobile dell’Est, che ero nata quando lei aveva 42 anni e portavo il suo cognome perché non era sposata con mio padre. Ho ricevuto una lettera, una donna mi chiedeva se mia madre si chiamasse Elizabeth e fosse nata a Mosca, cose che nell’intervista non avevo detto. Le chiesi come facesse a saperlo, la pregai di dirmi se aveva altri ricordi. Mi scrisse ‘sono tua sorella’”.

 

 

FILMOGRAFIA

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Margarethe von Trotta in Fuoco di paglia di Volker Schlöndorff, 1972

 

Regie di Cinema

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Televisione

  • Winterkind(1997)
  • Mit fünfzig küssen Männer anders(1999)
  • Dunkle Tage(1999)
  • Jahrestage(2000)
  • Die andere Frau(2004)
  • Unter uns(Tatort Ep. 676 – Dellwo/Sänger) (2007)
  • Die schwester(2010)
  • La fuga di Teresa, episodio della miniserie televisiva Mai per amore(2012)

 

Attrice

 

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Margarethe von Trotta in Dei della peste di R.W. Fassbinder